Notte e nebbia
Marco Dotti
Un’ordinanza del 7 dicembre 1941, firmata da Wilhelm Keitel, maresciallo del Reich e comandante in capo della Wehmacht, introdusse in Francia un regime di deportazione tristemente passato alla storia con il nome di Nacht und Nebel. Vi si disponeva che, qualora non fosse possibile individuare con assoluta certezza e precisione gli autori di «atti delittuosi commessi contro la potenza occupante nei territori occupati», giustiziandoli sul posto «con assoluta diligenza», i sospettati venissero «trasferiti clandestinamente, senza informazioni o senza preavviso» in Germania per essere interrogati. Furono in molti a sparire, «nella notte e nella nebbia», senza lasciare traccia dietro di sé. Dalla sua esperienza di deportato a Mauthausen «in regime di nn», dove fu marchiato col «triangolo rosso dei prigionieri politici», Jean Cayrol trasse un bellissimo scritto che, letto da Michel Bouquet, nel 1955 fece da supporto alle immagini dell’omonimo lavoro di Alain Resnais. «Non si tratta di un documentario», commentò François Truffaut, alzando la voce in difesa dell’opera di Resnais e Cayrol. Si tratta «di una meditazione sul fenomeno capitale del ventesimo secolo», esempio anomalo di quella forma ibrida tra film e saggio per altri versi, e con altri mezzi, tentata anche da Welles. La meditazione di Resnais e Cayrol fu comunque fortemente osteggiata in Francia, paese evidentemente incapace di accettare le proprie corresponsabilità nel «più grande massacro di tutti i tempi» altrimenti che nella clandestinità della memoria.
Nel 1956, Notte e nebbia di Resnais vinse il premio Jean Vigo e prese a circolare nelle sale e nelle scuole pubbliche come strumento didattico, ma ottenne il proprio visto censura a un prezzo molto, forse troppo alto. Resnais dovette tagliare dal montaggio finale una immagine che ritraeva, tra i caschi neri dei nazisti del campo di Pithiviers, la pietra dello scandalo, ovvero il képi e il volto di uno stralunato gendarme francese. Un’altra notte, un’altra nebbia, gettata, osservò l’amareggiato Cayrol, «sulle pagine che non piacciono». A occupazione finita, a nemico vinto, la Francia – proseguiva Cayrol – «ritira la parola ai testimoni, e si fa nuovamente complice dell’orrore». Un orrore quotidiano e diffuso, fatto, ora come allora, di delazione e muta complicità: «anche un paesaggio tranquillo, anche una prateria coi suoi voli di corvi, i suoi raccolti e i suoi fasci d’erba, i contadini, anche un villaggio per le vacanze, con una sagra e il suo campanile, possono semplicemente condurre a un campo di concentramento». Sulla strada della «notte e della nebbia», dove un tempo soltanto il fumo bianco dei forni riusciva a tagliare l’oscurità «di quelle messe in scena notturne che tanto piacevano ai nazisti», ora, proseguiva, «è giorno e splende il sole». Ma quale giorno e quale sole? La tentazione del silenzio divenne forte in Cayrol e nella generazione dei sopravvissuti. Eppure, dinanzi a un orrore vivificato, giorno per giorno, dalla fiamma troppo intensa del ricordo, Cayrol scelse di continuare a parlare, a scrivere, a lavorare. Non c’è spettacolo peggiore di «uno scrittore sclerotizzato», incapace di muoversi e «disgustoso come un atleta obeso». La letteratura, osservava Claude-Edmonde Magny – insegnante liceale legata, negli anni della resistenza, al gruppo di «Esprit», nonché critico letterario di grande verve e rispetto – è una sorta di esercizio acrobatico, un continuo «distogliersi da sé». È un salto «che si esegue senza rete e non si ha diritto di sbagliare il colpo». Una volta iniziata, questa strada non concede ritorno. La scrittura, conclude la Magny, è una «azione che non lascia indenne chi la pratica». È un gioco doloroso, ma quanto mai necessario, per aprirsi un varco – come l’«angelo meridiano» schiacciato dalla mezzanotte di cui si parla in una poesia di Cayrol – tra la notte e la nebbia di un orrore sempre presente.
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ISSN:2037-0857