philosophy and social criticism

Ostaggi

"World Press Photo of the Year 2009. © Pietro Masturzo"

World Press Photo of the Year 2009. © Pietro Masturzo

di Ugo Morelli

Puoi andarci se vuoi. Anzi sono contento che tu faccia quest’esperienza, se proprio ci tieni. Sappi solo che mi mancherai molto. Sai che è per me molto difficile starti lontano. Conterò i secondi. Per non parlare poi dei pericoli. So che così dicendo ti metto in difficoltà ma è più forte di me. Potrei non dirti queste cose, ma tanto le sapresti lo stesso. Non voglio però che tu ti senta sminuita dalla nostra relazione. Non sei certo in mio ostaggio. Inutile dirti che è l’amore che mi fa parlare. Questo lo sai vero? Sai che per te farei qualsiasi cosa. Devo dirti che da un lato mi dispiace essere così, ma dall’altro ne sono fiero, perché è una prova di come ti amo.  Non vorrei essere diverso da così. Se fossi al tuo posto ne sarei felice. Anzi. Dovresti preoccuparti del contrario. Dovresti temere la mia tranquillità. Sarebbe un segno del mio scarso interesse per te. Vai pure, perciò, ma sappi che vivrò nell’inferno finchè non torni. Il fatto che mi manchi così tanto non vuol dire che ti voglia condizionare. La tua libertà innanzitutto. La tua realizzazione è lo scopo della mia vita. Si tratta certo di un’importante occasione di incontro. Gente che viene da tutto il mondo. Ti troverai con persone interessanti. Potrai esprimere il tuo valore e essere riconosciuta. Certo tutto questo sarà un tormento. Se penso alle sere che trascorrerai in compagnia, in un clima di convivialità. Si sa come vanno certe cose. Per non parlare delle notti, poi. Ma tu non fare caso a quello che ti dico. Mi importa che sai perché te lo dico. Voglio che la nostra relazione sia per te motivo di autonomia e di crescita e non di costrizione. Come dicevo, non ti voglio tenere in ostaggio. Pertanto vai, vai pure, se proprio ci tieni. Sentiti libera di andare.

Qualcosa di spaventoso e straordinario accade, non solo nel venire al mondo, ma nel distinguersi e individuarsi, per ognuno di noi. Prendiamo le distanze, ci differenziamo dalla simbiosi col corpo che ci genera, ma anche dall’essere chiusi in noi stessi. Anche se mai del tutto e mai definitivamente, fino alla fine. Con la mente che ci genera creiamo le condizioni della nostra, in un gioco di rispecchiamenti dove l’uno nasce dal due. Dove la relazione è generativa dell’individuazione. Per fare una mente ce ne vogliono almeno due, anzi tre. Se non incorporata, relazionale e contestualizzata culturalmente, una mente semplicemente non esiste. Di questa dipendenza  dalla relazione e dal contesto possiamo essere un frutto libero o rimanere ostaggio. Nel nostro percorso di individuazione accadono, almeno in parte e sempre un po’, entrambe le cose.

Ci differenziamo, ci distinguiamo e dipendiamo, fin dall’origine. Cominciamo a farlo e continueremo per tutta la vita. Non si tratta però di un passaggio da uno stato ad un altro, ognuno dei quali sarebbe completo. Abitiamo una continua elaborazione con la quale ci generiamo. Ognuno in modo unico diviene ciò che esprime. Per quelle espressioni almeno in parte distintive viene riconosciuto nelle contingenze della vita.

Nella molteplicità federata delle nostre possibilità che è ciò che chiamiamo il nostro io, parti di noi si saranno espresse nel divenire, in maniera piuttosto compiuta, mentre altre saranno dipendenti dalle prime o tacitate e in attesa. Altre parti ancora saranno state tradite dall’angoscia che ci prende di fronte alla bellezza di un nostro progetto, spesso per paura di non esserne all’altezza. Accade a volte che la condizione di espressione di parte delle nostre possibilità sia quella di tenerne in ostaggio altre.

Accade altresì che nell’essere noi animali relazionali con mente relazionale, diveniamo almeno in parte ostaggio di un altro o di altri che sono al contempo fonte del nostro stesso riconoscimento e delle nostre possibilità.  Possiamo perfino divenire ostaggio della nostra autocontemplazione, emulando Narciso, e perderci in uno stagno come se fosse il mondo. Così come possiamo annullarci nell’emozione della massa e fonderci nel conformismo, ostaggi della fusione adesiva che ci travolge e annulla. Fino all’estrema situazione per cui sarà il carnefice a divenire la fonte di individuazione della vittima in un tragico legame.  La minaccia dei barbari ci terrorizza: di essi vorremmo che non esistessero ma divengono anche la ragione della nostra identificazione.

 

Che cosa aspettiamo così riuniti sulla piazza?

  Stanno per arrivare i barbari, oggi.

  Perché un tale marasma al Senato? Perché i senatori restano senza legiferare?

  È che i barbari arrivano oggi. Che leggi voterebbero i senatori?

  Quando arriveranno i barbari faranno la legge.

  Perché il nostro imperatore, levatosi fin dall’aurora, siede su un baldacchino

  alle porte della città, solenne con la corona in testa?

  È che i barbari arrivano oggi.

  L’imperatore si appresta a ricevere il loro capo.

  Egli ha perfino fatto preparare una pergamena che concede loro appellazioni onorifiche e titoli.

  Perché i nostri due consoli e i nostri pretori sfoggiano la loro rossa toga ricamata?

  Perché si adornano di braccialetti di ametista e di anelli scintillanti di brillanti?

  Perché portano i loro bastoni preziosi e finemente cesellati?

  È che i barbari arrivano oggi e questi oggetti costosi abbagliano i barbari.

  Perché i nostri abili retori non perorano con la loro consueta eloquenza?

  È che i barbari arrivano oggi.

  Loro non apprezzano le belle frasi né lunghi discorsi.

  E perché all’improvviso, quest’inquietudine e questo sconvolgimento?

  Come sono divenuti gravi i volti!

  Perché le strade e le piazze si svuotano così in fretta,

  e perché rientrano tutti a casa con un’aria così triste?

  È che è scesa la notte e i barbari non arrivano.

  E della gente è venuta dalle frontiere dicendo che non ci sono affatto i barbari.

  E ora, che sarà di noi senza barbari?

  Loro erano comunque una soluzione.

                                                [I barbari ,di Costantinos Kavafis, da Poesie, Milano 1966 ]  

 

Ha questo di proprio l’ostaggio, che è hostes e hospis: ospite e nemico.  Ostaggio, ospite, ostile. L’intreccio etimologico lega inestricabilmente queste posizioni e le colloca in un continuum, che è il nostro stesso divenire, tra mondo interno e mondo esterno.

Almeno in parte ci ritroviamo in ognuna delle posizioni, mentre ne occupiamo una prevalentemente, nelle catene di provvisorietà che fanno la nostra esistenza. Di quelle provvisorietà si illuminano di volta in volta le nostre molteplici sfaccettature, che non sono solo il contorno di un nucleo fisso, ma il caleidoscopio del nostro essere in divenire.                   

Un derivato di hospes? Ma come? Se è un ospite nostro, del nostro stesso mondo interno o se è un altro che custodiamo e tratteniamo, ma allora come fa ad essere anche e allo stesso tempo, un ostaggio. Se è qualcosa che ha a che fare con l’ospitalità, in che senso è anche un nemico? Hospes o hostis? È con quella “o” che facciamo i conti. Inevitabilmente. La stessa idea di soggetto, un prodotto storico moderno e di breve durata, si è definita nel momento in cui ci siamo presi cura, separando, recludendo, includendo e escludendo, parti di noi stessi o della nostra società. Al riparo, protetti, o ostaggi del sociale, siamo divenuti soggetti. Non  mai potendo essere individuati e individuabili come protagonisti, senza essere allo stesso tempo e per ciò stesso assoggettati. Senza essere almeno in parte ostaggi di chi ci riconosce e ci consente di individuarci.

Conflitto interno e esterno, identità e alterità, dentro e fuori, amico e nemico appaiono ad un tratto dicotomie stantie, come prigioni del pensiero e del possibile. È dove si sfrangiano l’uno nell’altro che vivono le componenti di queste dicotomie. Lì si esprimono e connotano. Ai loro margini, dove kosmos trova kaos, entrambi si distinguono rispecchiandosi.

Non libero ma liberabile: in questo sta la condizione di ostaggio, nello stato di attesa si riconoscono la sua attività, il suo essere e il suo divenire. In quel limite ambiguo sta la scoperta che ci porta ad accorgerci che appena emersi da un vincolo ne incontriamo un altro. Anzi. È un nuovo vincolo che consente l’elaborazione del precedente. Rivelare vuol dire allo stesso tempo accedere alla conoscenza e alla consapevolezza di qualcosa e porre un nuovo velo. Impossibile è una cosa senza l’altra. L’unico possibile, qui, è in quell’impossibile. Non vi è possibilità senza vincolo. Nel senso che solo la loro reciproca costituzione li rende possibili.

Non vi è illuminazione che si affranchi del tutto dall’illusione. Un tratto di follia attraversa l’anelito verso l’oltrepresente, verso l’ultraesistente, e ha in sé il “come se” del gioco e l’abbaglio della luce. Togline uno e non hai l’altro.

Un  doppio legame coinvolge l’ostaggio e il custode, in un gioco ravvicinato i cui esiti verranno decisi da altri, ma in cui il valore di uno è strettamente dipendente dal valore dell’altro. L’ostaggio è perciò ospite  o nemico? È un valore in sé, relazionale o di scambio? Vale perché è vivo o perché potrebbe essere morto? E nel caso del mondo interno vale più la minaccia o la sua realizzazione?

Per preservare il suo valore l’ostaggio va ospitato e deve restare evidentemente un nemico, anche se chi lo detiene se ne prende cura senza poter mai stabilire se lo preserva per poterlo scambiare o perché la sua condizione lo coinvolge.

L’ombra può anche essere ritenuta ostaggio della luce, ma solo a costo di uno strabismo idealistico che si privi della possibilità di accoglierne la complessità e la bellezza coevolutive, mortificandone una parte. E’ un legame di valore, quello di ostaggio, e genera valore, attenzione, tensione fino al terrore, finché non si risolve. Si risolve in parte rientrando in posizioni più definite, meno marginali e mobili, meno provvisorie, più agevoli ma anche meno generative. Si risolve in parte perché è difficile immaginare che qualcuno possa vivere senza dipendere in qualche modo da un altro a cui si consegna, a cui consegna una piccola o grande parte di sé.

Ostaggi del nostro stesso mondo interno, ospitiamo una parte di noi che ci è nemica. Siamo, infatti, spesso e a lungo ostaggio di una parte di noi stessi, del nostro mondo interno, che protegge, minaccia, tacita, imprigiona, ricatta le altre. Le riduce e induce a tradirsi, a non essere ciò che potrebbero o avrebbero potuto essere.

La bellezza del progetto di essere noi,  è spesso ostaggio della nostra ansia di perfezione, ma anche dell’angoscia che la bellezza stessa del nostro progetto ci genera. Non sempre riusciamo a perseguire un sogno e spesso ciò accade per eccesso e non per difetto. Troppo alto il sogno, al punto da apparirci irraggiungibile, non alla nostra portata, fino a consegnarci ostaggi della nostra stessa autovalutazione. Non riusciamo ad accettare di poter sbagliare e non troviamo la misura per metterci in gioco.  Allora, piuttosto, rinunciamo.

“…….devi mettere in preventivo che sbaglierai. Si tratta, momento per momento, di stabilire gli spazi, il tempo, il limite del momento: dov’è il giusto e dov’è il troppo.  Momento per momento essere in grado, se non subito, immediatamente dopo, di revisionare quello che è avvenuto, di stabilire se sei nel limite, invocando la dea Sofrosine, che ti aiuta a trovare il limite”

                                                  [L.M. (Gino) Pagliarani, Violenza e bellezza, Milano 2012, 3a edizione, p.109].

È l’ambiguità dell’amore a renderci almeno in parte ostaggio nelle relazioni affettive: ogni relazione d’amore ha a che fare con la nostra autonomia/dipendenza, con la nostra emancipazione/minorità. Ne siamo rafforzati nella nostra autonomia proprio mentre ne diveniamo dipendenti. A quella dipendenza ci consegniamo perché ci emancipa e per farlo, in una certa misura, sollecita il nostro puer interno o, come a volte accade, ci mortifica e limita.

Ostaggio sociale e politico può essere un gruppo o un popolo che dallo stato di costrizione ricava un anelito di libertà. Come la mente prigioniera avverte di essere in certi casi  ostaggio del corpo che cede alle ingiurie del tempo o delle malattie, così può accadere che interi gruppi o popoli vengano ridotti a valore di scambio, veri e propri ostaggi della storia e dei diversi giochi di potere e di dominio di cui è costellata.

Ostaggi della comune origine, i popoli delle tre grandi religioni monoteiste si riconoscono nella grotta di Macpela a Ebron. Sono lì sepolti Sara e Abramo e tutto si carica di senso e valore, di tremito e terrore. La condivisione di quel “luogo dei luoghi” lega tutti tra loro in modo irrinunciabile, ma li rende allo stesso tempo ostaggio gli uni degli altri. Coloro che a quel luogo consegnano il senso dell’essere, in quanto fratelli nemici, da quello stesso luogo traggono le più importanti risposte e le più inquietanti domande.

Quei popoli scelgono senza fine se essere ostaggi della memoria e subire la tirannia del passato o divenire capaci di vedere nei presunti difetti dell’altro i propri stessi difetti  e i propri limiti, generando così una possibilità di reciproca emancipazione.

Si può uscire dalla condizione di ostaggio mettendo in gioco risorse ed energie equivalenti alla posta, istituendo perciò uno scambio. Oppure per il valore simbolico di una presa di posizione. Mosè si presenta al Faraone  e gli chiede di lasciar andare lui e il suo popolo tenuto nell’ostaggio della schiavitù “in nome di colui che è quel che è”. Come possa ciò che è perfino innominabile convincere un dio rimane un mistero. Non si tratta di un esperimento. Non è ripetibile. È probabile che in questo stia uno delle connessioni più profonde tra l’essere ostaggi e l’essere liberi. La stessa intima connessione che si ritrova tra liberarsi e essere liberati.

Ogni teoria è una provvisoria soluzione del dolore di pensare.  Un tentativo di liberarsi della fatica di cercare ancora. Consegnandosi però ad una spiegazione che si presenterebbe come definitiva e ci terrebbe per sempre in ostaggio. Solo a dirlo si sente l’oppressione. È forse per questo che prima ancora di deciderlo ci ritroviamo già a cercare di nuovo. Non sempre, però; e non in ogni tempo storico. Dipende dal contesto e dalle situazioni se non si giunga, a volte, a vedere scomparire la distinzione singolare nell’emozione di massa che tutto contiene, tacitando le ansie di un appagamento che sembra tacitare ogni possibile istanza di differenziazione e di liberazione. Qualora vinca il dominio settario si realizza lo stato di ostaggio perfetto, fino al suicidio collettivo. Ostaggi di cosa? Di un’idea. Potenza della mente. Il principale rischio per noi siamo noi stessi.

Secondo Jaques Derrida: “il teorico (…..) è già, dal canto suo, una pausa atta a produrre la visione”. [J. Derrida, Come non essere postmoderni, Milano 2002; p.44]. Mentre produce la visione, ogni teoria ci tiene però in ostaggio. Ogni clarità ha la sua ombra, che le consente di essere ciò che è.

La teoria a sua volta rivela e ri-vela. Ci aiuta ad emanciparci mentre ci lega ad una spiegazione del mondo che presto tende a naturalizzarsi e a celare o assolvere rispetto al bisogno di conoscere e al bisogno di negare (dolore della conoscenza). La teoria ci tiene in ostaggio. Mentre ci garantisce la rassicurazione che può derivare da una spiegazione del mondo, ci vincola rispetto a tutte le altre spiegazioni possibili dello stesso fenomeno.

Vivere la teoria come una pausa provvisoria può essere una conquista, ma a sua volta si basa sulla convinzione, da cui si è in parte dipendenti e di cui si è in parte ostaggi, che le teorie provvisorie e falsificabili sono preferibili a quelle certe e definitive.

Un sottile filo di nostalgia prenderà l’anima quando dovesse arrivare la liberazione tanto attesa: quella situazione e quelle persone che avremmo dato la vita per lasciarle, ci lasceranno un senso di mancanza, di perdita, di abbandono. Ad esse, perfino ad esse ci eravamo almeno in parte consegnati. Quella stessa parte di noi che siamo riusciti a tacitare o riporre in un angolo nascosto, ci susciterà ogni tanto malinconia, mentre ci sentiamo capaci per averla neutralizzata.

Strano animale, homo sapiens, teso tra la condizione del ragno che se ne sta, solo, al centro della propria tela, che per lui rappresenta il mondo intero, e la capacità di concepire l’affrancamento e la trascendenza, di fantasticare l’inedito e di creare ciò che prima non c’era. Mentre sa darsi un compito evolutivo di affrancamento e trascendenza; mentre riesce a concepire e a volte anche a praticare l’uscita, seppur provvisoria, dall’essere ostaggio di se stesso, homo sapiens può anche implodere in se stesso fino a non tollerare neppure la segnalazione di essere ostaggio della propria minorità. Non gli basta un universo ad homo sapiens, dal momento che è in grado di vedersi collocato in esso e di concepirne l’uscita, ma anche di proiettarsi in molteplici universi, immaginati e fantastici, plausibili e virtuali. Essere ostaggio di un universo lo rassicura ma non gli basta e in questa tensione tra universi e pluriversi diviene ciò che è. 

Come ha sostenuto Robert Musil [L’uomo senza qualità, Torino 1966, p.25]: “è innegabile che la più profonda associazione dell’uomo con i suoi simili è la dissociazione”.

Sperimentiamo sempre l’appartenenza rassicurante che, inevitabilmente si porta con sé l’ansia di essere ostaggi o prigionieri di quell’appartenenza. La differenza tra ostaggi e prigionieri è la riscattabilità dei primi rispetto ai secondi che, comunque, a volte sono anch’essi oggetto di scambio. La condizione di ostaggio è caratterizzata dalla provvisorietà nell’esperienza politica, dove è in gioco il potere.. In quel caso il gioco è un gioco a termine. La connessione fra esperienza esterna e fantasmi interni non si interrompe mai. Nella vita di ognuno si può essere ostaggio di un’ossessione per tutta la vita. I colori che Vincent Van Gogh continua a reclamare dal fratello Theo, insistendo perché glieli invii ad Arles da Parigi, non si sa se siano mai esistiti. Quelli che gli manda non sono quelli di un tempo. Non sapremo mai se quei colori di un tempo sono mai esistiti; il loro valore è nell’ossessione di chi li cerca. Né sapremo mai se li cerca per trovarli o proprio perché sono introvabili. Quei colori sono una ragione di vita che tiene allo stesso tempo una vita in ostaggio.  La vita come l’arte è l’elaborazione di una continua e polisemica ambiguità [Questi temi sono approfonditi in U. Morelli, Mente e bellezza. Arte, creatività e innovazione, Umberto Allemandi & C, Torino 2010].  

La condizione di ostaggio ha questo di costitutivo, forse: siamo ostaggi della morte per tutta la vita e senza la morte non ci accorgeremmo di essere vivi.

Scarica l’estratto in pdf  → Ugo Morelli, “Ostaggi”

L’autore

Ugo Morelli  è docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni presso l’Università degli Studi di Bergamo; è Docente di  Psicologia della creatività e dell’innovazione e Presidente del Comitato Scientifico del Master Unesco/Step, Scuola per il governo del territorio e del paesaggio, Trento, e responsabile scientifico e docente nei programmi di formazione direzionale di Formazione Lavoro, società per la formazione della Cooperazione Trentina. Sue ultime pubblicazioni sono: Conflitto. Identità, interessi, culture, Meltemi, Roma 2006;  Incertezza e organizzazione. Scienze cognitive e crisi della retorica manageriale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009;  Mente e bellezza. Arte, creatività e innovazione, Umberto Allemandi & C, Torino 2010;  Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità, Bollati Boringhieri, Torino 2011; Contro l’indifferenza. Creatività, conformismo e crisi del legame sociale, Cortina, Milano 2013; Il codice materno del potere. Autorità, partecipazione e democrazia, con Luca Mori, ETS, Pisa 2013; Paesaggio lingua madre, Erickson, Trento 2014; Erba cedra e segreti amori, Zandonai, Rovereto 2014; Il conflitto generativo. La responsabilità del dialogo contro la globalizzazione dell’indifferenza, Città Nuova, Roma 2014.  

www.ugomorelli.eu

tysm literary review

vol. 14, no. 20

november 2014

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