philosophy and social criticism

Enrico Maria Salerno, Alida Valli e la post-verità

Martina Biscarini

Sto scrivendo un articolo per Tysm, tra poco lo lancerò nella rete e lì rimarrà impigliato assieme a tanti altri articoli di tanta altra gente. La rete, lo sappiamo, è democratica: teoricamente ognuno può pubblicare qualcosa e dire la sua. Molte opinioni, prima affidate alla voce e alle parole al vento, vengono così portate nero su bianco, in maniera più o meno diretta, più o meno subliminale.

La libertà di cui sto usufruendo nello scrivere quest’articolo, per esempio, non vincola né la buona fede né l’accuratezza storica di quello che sto per narrarvi. In parole povere, non sono tenuta a scrivere cose vere. Potrei voler provare una posizione politica: utilizzare il falso, puntare sulle vostre recondite paure per convincervi. Potrei voler vendere facilmente il mio articolo: puntare sulla morbosità per collezionare visualizzazioni. Potrei revisionare la storia: portare alla ribalta aspetti di cui poco si parla e tacerne altri. L’onestà intellettuale di chi scrive diviene allora il piano di negoziazione: mi fido di te perché hai una reputazione, ti leggo perché non scrivi per farmi paura o per farmi credere a una realtà distorta dal tuo punto di vista fazioso, interessato o credulone. O anche, ti leggo perché citi documenti esistenti o dati scientifici.

È innegabile che internet sia in un certo senso l’incarnazione della con-fusione post-moderna di piani del reale, nei quali è sempre più difficile orientarsi ed è sempre più difficile dare risposta all’interrogativo di Ponzio Pilato (che nella mia mente ha sempre la faccia di Barry Dennen e canta in inglese): “Che cos’è la verità?”. La molteplicità di piani virtuali e l’interazione sono le cifre distintive della rete: questo fa sì che il problema della post-verità s’imponga sempre più pressantemente da quando l’utilizzo di questo specifico medium è diventato quotidiano. Sì perché un medium ha comunque una sua autorità: forma opinioni, percezioni. E la forza di questo peso è direttamente proporzionale a quanto il soggetto che interpella il medium sia smaliziato riguardo alla conoscenza della sua natura stessa. Esempio pratico: la generazione dei miei nonni tendeva a credere ciecamente alla televisione. Avevano studiato poco, credevano ai loro occhi e il broadcasting per immagini, comparso all’incirca durante i loro venti-trenta anni, spiazzava inconsciamente la loro abitudine di conoscenza del reale: i giornali e la radio si erano compromessi con la propaganda fascista, ma dell’autorità del flusso televisivo, venuta dopo (nonostante i cinegiornali ne fossero anticipazione), si fidavano.

La generazione precedente alla loro, che nel 1938 ascoltava il Columbia Broadcasting System, si fidava invece del potere affabulatorio della radio – erano quelli che Woody Allen definirebbe Radio Days. Fu facile dunque per Orson Welles convincere qualche sprovveduto che alcune astronavi marziane stavano sbarcando in New Jersey, nonostante La guerra dei mondi fosse stata da subito annunciata come radiodramma, citando anche la fonte (il racconto di H. G. Wells). Welles era all’epoca un uomo di teatro, Citizen Kane è venuto dopo, nel 1942. Abituato a un medium nel quale il patto sancito a quarta parete ha a che fare col credere ai sentimenti messi in scena, ma nel quale è chiaro a tutti che la recita è gioco, il buon Orson voleva sì porre l’attenzione dell’ascoltatore sul credere o meno ai media, ma non aveva minimamente calcolato una reazione come quella che ha reso immortale nei decenni il suo maligno scherzetto. Quella sera stessa, ignaro di tutto, fece il suo lavoro, andò in teatro, fece le prove di uno spettacolo, e solo a fine serata venne a conoscenza del putiferio che aveva scatenato. Anni dopo dichiarò a Peter Bogdanovich:

Furono le dimensioni della reazione ad essere sbalorditive. Sei minuti dopo che eravamo andati in onda le case si svuotavano e le chiese si riempivano; da Nashville a Minneapolis la gente alzava invocazioni e si lacerava gli abiti per strada. Cominciammo a renderci conto, mentre stavamo distruggendo il New Jersey, che avevamo sottovalutato l’estensione della vena di follia della nostra America.

Si è cercato di dare una spiegazione a tale follia e la spiegazione più logica aveva a che fare con le ansie degli Stati Uniti alle porte della Seconda Guerra Mondiale. Per decenni si è parlato di paura collettiva d’invasione bellica sulla quale il racconto di Wells, trasposto in chiave realistica da Welles, si sarebbe innestato diventando proiezione iperbolica (dunque teatrale) di un sentimento comune.

Ma attenzione: alcuni studiosi, come il professor W. Joseph Campbell autore del libro Getting it wrong, sostengono, dati alla mano, che alla fin fine gli americani terrorizzati dalla Guerra dei Mondi non fossero così tanti come i giornali vollero far credere il giorno dopo tramite titoli roboanti quali: Fake Radio War Stirs Terror Through U.S., Radio Play Terrifies The Nation e cose simili. Anzi gli ascoltatori di Welles furono addirittura pochini. Il fatto è questo: la radio stava lentamente soppiantando il quotidiano come medium principale nella vita quotidiana della gente, si era aggiudicata sponsor e soldi che precedentemente mai erano mancati ai giornali. Quei titoloni dunque furono un tentativo del giornalismo cartaceo di gettare fango sul medium rivale attaccando il suo modo di dare le notizie. Insomma anche l’affaire Guerra dei Mondi pare fosse alla fine soltanto l’ennesimo caso di post-verità.

André Bazin però ci racconta anche un’altra cosa: quando i giapponesi attaccarono Pearl Harbour quattro anni dopo alcuni americani (“vaccinati” dai titoloni del post Guerra dei mondi) credettero che il bombardamento fosse un fake. L’efficacia di una notizia dipende dalla sua forma ed è direttamente proporzionale al grado di fiducia che l’ascoltatore pone in quella forma stessa. L’operazione di scredito che i quotidiani compirono a discapito del giornale radio (di cui Welles riprendeva l’estetica) si ripercosse inevitabilmente sulla percezione sospettosa delle notizie radiofoniche da parte degli ascoltatori.

Solo che stavolta l’attacco era reale.

Rimaniamo negli Stati Uniti ancora per un po’ prima di tornare alla nostra edificante Mamma Rai democratico cristiana degli anni Cinquanta. Anni dopo La guerra dei mondi sarà un altro pilastro del cinema classico americano, Frank Capra, a stuzzicare domande attorno al tema della verità applicato ai media, in veste di ispiratore principale degli aspetti formali della serie di documentari Why We Fight, prodotta per motivare gli americani all’intervento nella Seconda Guerra Mondiale. Se penso all’Inghilterra di quegli anni, mi viene in mente la maniera diametralmente opposta di fare propaganda che utilizzò Leslie Howard – che non è stato solo Ashley in Via col vento, ma anche un regista intelligente di fiction antinazista, tanto da farsi nemici in alto (Goebbels) che potrebbero aver causato direttamente la sua misteriosa morte prematura. First of the few, Pimpernel Smith… erano film dichiaratamente di fiction, racconti inventati ma ciò non di meno motivanti e mitopoietici: pensiamo alla leggenda di R. J. Mitchell designer dell’aereo da guerra Spitfire o alla rilettura della figura della Primula Rossa tanto cara a Howard stesso.

Al contrario, Capra era rimasto colpito dai prodotti della Riefensthal (Il trionfo della volontà, Olympia): documentari, sì, ma lungi dall’essere super partes. Costituivano piuttosto parte attiva nella costruzione dell’immagine del regime nazista. Da scaltro uomo di cinema qual era, il regista de La vita è meravigliosa ne capì il potere comunicativo e volle replicare. Va notato che lo stile di Why We Fight ha fatto scuola: una voce fuoricampo parla su delle immagini in scorrimento e così facendo carica le immagini, di per sé staccate, di significato. Una tecnica ancora oggi molto persuasiva: è ampiamente utilizzata da chi vuol provare posizioni complottistiche o da trasmissioni scadenti tipo Mistero. Il fine di fermare l’Asse Italia-Germania-Giappone poteva anche essere nobile, ma mentre s’insisteva sulle qualità nocive dell’alleanza nazifascista, si passava sopra a vari scivoloni dell’Unione Sovietica di Stalin per giustificare una necessaria alleanza. A Roosevelt l’operazione piacque. A Lowell Mellett, che supervisionava i filmati e di mestiere faceva il giornalista, un po’ meno.

Che c’entrano Enrico Maria Salerno e Alida Valli in tutto questo, vi chiederete? Entriamo nel vivo del discorso. Siamo in Italia, più precisamente negli studi RAI e corre l’anno 1959. Il genio del male stavolta è un signore toscano, di Montevarchi, si chiama Vladimiro Cajoli. È un letterato appassionato di storia e di mitologia classica, scrive drammi, sceneggiati e radiodrammi. È rimasto molto colpito dalle leggende, all’epoca prese per vere, sul putiferio causato dalla Guerra dei mondi ed è curioso di sperimentare qualcosa di simile nella neonata televisione italiana. Scrive allora I Figli di Medea, che Anton Giulio Majano (uno dei re dello sceneggiato RAI anni Cinquanta-Sessanta, tra i quali il mitico La Cittadella con Alberto Lupo) accetta di dirigere. Enrico Maria Salerno ha allora trentatré anni, ha lavorato già con un buon numero di mostri sacri (Strehler, Costa, Benassi) e si è fatto notare coi Fratelli Karamazov (1953).  La baronessa istriana Altenburger von Marckenstein und Frauenberg (che per il pubblico è semplicemente Alida Valli) invece di anni ne ha trentotto ed è passata indenne attraverso i Telefoni Bianchi e Hollywood – era nel cast del Terzo Uomo (1949) di Carol Reed, nel quale Welles è l’inafferrabile protagonista ed ha recitato nel Caso Paradine (1947) di Hitchcock. Viene coinvolta nella trollata anche un’innocua Signorina Buonasera, la sempreverde (ancora oggi a quasi novant’anni) Nicoletta Orsomando, una della annunciatrici storiche di RAI uno. Un volto rassicurante che ha il ruolo di annunciare quel che lo spettatore vedrà. Le Signorine Buonasera non recitano – non mentono. Sono come segretarie che annunciano il palinsesto. Ed è il 9 giugno 1959 quando lo sceneggiato va in onda.

La Orsomando esegue un virtuosismo, uno spiegone da liceo classico (e da RAI di Bernabei, didattica per vocazione) dove narra il mito di Medea e la versione che è stata presa per lo sceneggiato, raccomandando un pubblico di soli adulti a causa della crudezza dei fatti. Seguono scenografie di cartapesta tipiche dell’epoca, poi un divertente dialogo fra la futura madre di Claudio Amendola nella parte di Venere (Rita Savagnone) e Cupido (Elio Lo Cascio). Entra in seguito la Valli, sofferente come in Senso (1954) di Visconti uscito qualche anno prima. Mentre recita si sentono interferenze, voci fuori campo, simili a quelle del regista o dei tecnici. Una di quelle voci interrompe lo sceneggiato a sette minuti e mezzo dall’inizio: la diva non riesce ad andare avanti col copione, impantanata com’è in un groviglio emotivo durante il dialogo col piccolo Eros. Un bambino.

Stacco. Torna la Orsomando che, col suo aplomb di sempre, parla di interruzione delle trasmissioni a causa di una lotta contro il tempo per “salvare una vita umana”. La polizia stessa avrebbe richiesto l’aiuto della televisione per uscire dall’incresciosa situazione creatasi. E improvvisamente il Primo Canale inscena un proto reality show: entrano in scena un sedicente funzionario di polizia, il dott. Vinciguerra (l’attore Tino Bianchi) e uno psichiatra, il dott. Vailati  (Ferruccio de Ceresa, che in seguito con gli sceneggiati ci prenderà gusto). Vinciguerra va dritto al punto: un bambino è in pericolo ed è stato rapito da un uomo “in preda a grave turbamento psichico”. Aggravante: il piccolo ha un’indefinita malattia che ogni sei ore necessita di cure altrimenti rischia la morte. E la sesta ora sta per passare. Aggravante agghiacciante: il rapitore è il padre. Il terrore corre sul filo della radiotelevisione.

Come ogni grande troll, Cajoli, tramite Tino Bianchi, in effetti dichiara subito, fra le righe, quello che si sta mettendo in scena: un “espediente approvato e controllato da illustri uomini di scienza”. Un espediente che ai nostri occhi, smaliziati nei confronti del medium-televisione e abituati ai reality, appare estremamente datato: il poliziotto e il dottore parlano di diaframma e con voce impostata, dietro a un’evidente scenografia raffigurante un ufficio. I dialoghi di Cajoli sono più vicini alla drammaturgia che al parlato. In scena sono tutti attori. Tino Bianchi, cioè il dott. Vinciguerra, fa film (non da protagonista) dagli anni Trenta, il rapitore invece (il cui nome viene fatto al minuto 9.24 dopo un accorato appello agli spettatori di chiamare in RAI qualora lo avessero visto in giro nei giorni precedenti) è niente popò di meno che Enrico Maria Salerno. Strano. Se ne sono dette tante sulla vita privata della Valli ma una relazione con Salerno proprio c’era sfuggita.

La regia scova intanto l’attore in un bar, gli si chiede incessantemente dove sia il bambino. Salerno rifiuta cinicamente di parlare, rifiuta anche il delizioso appello meta televisivo di una vecchia signora (Elvira Bertone) che lo prega di non far del male al bambino anche per “i tanti poveri vecchi come me”, all’ascolto, “gli si schianterà il cuore” (pochi anni dopo Alberto Sordi lusingava Corrado Mantoni definendolo amato dalla Vecchia, già all’epoca archetipica figura dello spettatore medio televisivo). Segue un dialogo fra Valli e Salerno che è anche un’ottima scusa per analizzare la vecchia impostazione recitativa cinematografica (Alida è molto melodrammatica nell’esprimere il suo terrore di mamma) e la nuova scuola di attori cresciuti tra Orazio Costa e il Piccolo Teatro (Salerno è forse l’unico del reality-sceneggiato che al giorno d’oggi risulterebbe ancora credibile). La voce fuori campo però avverte, mentre la diva si toglie la parrucca, “questa non è una finzione scenica”. Come no.

Salerno chiede la parola, ma è Cajoli che parla attraverso di lui esprimendo riflessioni interessanti da intellettuale attento ai media. Riflessione numero uno: visto che Salerno è stato stigmatizzato come il nemico, l’attore dice a Bianchi/Vinciguerra che se dicesse dov’è il bambino: “domani i giornali porterebbero la vostra versione dei fatti”. Un’intelligente osservazione sul concetto di immagine pubblica: i media creano una maschera pirandelliana che si cristallizza e influenza la percezione che la gente ha dei personaggi famosi o famigerati. Esempio: Asia Argento, che nella stratificazione dei suoi ruoli cinematografici si è fatta la fama di ragazza trasgressiva e facile, non viene creduta quando racconta uno stupro. Esempio retrodatato: Fatty Arbuckle, il ciccione furbetto a cui il giovane Buster Keaton fa da spalla, seppure innocente viene creduto stupratore e uccisore di Virginia Rappe da mezza America, condannato senza indugi dall’opinione pubblica.

“La smetta di dare delle parole che non le appartengono” grida Salerno a Vinciguerra. Cajoli fa della meta-televisione ma lascia degli spiragli attraverso i quali l’inganno s’intravede. L’attore intanto continua il suo monologo: “In questo momento il pubblico è impressionato, morbosamente impressionato. Lo so che si possono ottenere delle conseguenze gravi, tutto si può ottenere, eh! Dalle telefonate di protesta alle crisi isteriche”. Sì perché i bambini non si toccano al cinema. Ma in televisione se un bambino muore ucciso diventa un morboso caso mediatico. Anche quando la morte in diretta non è cercata, anche quando la tragedia inizialmente non sembrava tale (ricordate tutti la storia di Alfredino Rampi di Vermicino, vero?). Ecco, Salerno ribalta la situazione: la Valli avrebbe messo su I Figli di Medea per attirare lui in una trappola, visto che la ama alla follia anche dopo la fine della loro (inesistente) relazione e va sempre a vederla. Chi è nel torto? Chi ha ragione? Alida è davvero una donna manager senza scrupoli (cosa ancora piuttosto inaccettabile negli anni Cinquanta) che non bada al figlio o davvero Salerno delira, in preda ad “isteria moraleggiante e crisi mistica” (anni prima del Frate Zenone di Brancaleone)? E la Franzoni? Ha davvero ucciso il piccolo Samuele? E quanti credevano già dietro le sbarre il povero padre innocente del piccolo Tommy nel 2006?

Salerno rompe la quarta parete, cammina nervoso, interpella i cameramen, sbraita contro la regia chiamando Majano per nome… “voi della televisione, della censura, della polizia” state uccidendo il bambino, dice ordinando alla Valli di piangere senza coprirsi il volto con le mani, “io sono venuto per vederti, e tu lo sapevi, ci contavi”. Il voyeurismo della spettacolarizzazione del dolore, il macabro come spettacolo televisivo: tutto anticipato in questo gioco scorretto, sì, ma quasi profetico contando che era il 1959 e i tempi erano estremamente non sospetti. Ma soprattutto (e qua, torna Welles di prepotenza, ma quello di Citizen Kane), Salerno ci fa anche riflettere sull’identificazione fra immagine pubblica e privata che inconsciamente il pubblico attua nei personaggi famosi. Secondo lui, la Valli sostiene che lui odia tutti, è un cinico senza amici e non ha televisione. “Io invece amo tutti […]” afferma l’attore mentre, secondo la diegesi, il tempo per salvare il figlio sta scadendo (e i ruoli di Medea si invertono). La Valli invece non sarebbe che una vanitosa primadonna, vacua e poco materna. Il bambino, dice Salerno, è sempre triste: “cerca sua madre ma sua madre non c’è! No, ci sono cento donne e tutte egualmente false che folleggiano intorno a questo bambino”. Quanti stereotipi, quante idee che il pubblico sicuramente già ha in sé a proposito del mestiere dell’attore, della fama, della poca stabilità emotiva degli artisti. Che passano da un’identità all’altra, da un’emozione all’altra, sempre falsi e mai se stessi. Ma, oltre ai luoghi comuni sugli attori, intravediamo qua un altro piano di lettura che ci fa capire chi davvero sia Medea, chi è il personaggio della Valli: è la realtà che dovrebbe mostrarsi per univoca invece attraverso i media, come un’attrice inafferrabile, si scinde, diventa molteplice, contraddittoria, vera e falsa allo stesso tempo. I figli vanno tolti all’influenza di questa realtà indecifrabile, prima che lei li rovini, li renda creduloni, li renda alienati. Vinciguerra/Bianchi e lo psichiatra Vailati invece sarebbero due professionisti comparsi in televisione per farsi pubblicità. Potrei fare svariati nomi di equivalenti odierni.

Insomma la Valli avrebbe organizzato in tempo record lo sceneggiato per far sì che Salerno, che non ha TV (ed, essendo ricco, per rifiutarla dev’essere per forza un antisociale!) uscisse a vederla al bar e venisse preso. Denunciando la messa in scena della diva al fine di coglierlo in fallo, l’attore denuncia implicitamente la stessa messa in scena del rapimento: le telecamere, la regia c’erano già nel bar. Tutto fatto a bella posta. La mancanza di tempo nell’operazione per salvare il bambino avrebbe portato a misure drastiche per arginare tramite mille occhi meccanici “il delirio del povero Salerno”. Che forse odia la Valli perché invidioso, in fondo è anche lui di quella razzaccia vanitosa e perdigiorno che sono gli attori. Vuole “dimostrare di essere superiore a lei come protagonista assoluto di uno spettacolo d’eccezione” (chapeau per questa battuta: in effetti siamo al minuto 22 e Salerno è stato in scena molto più della Valli, annunciata protagonista nei panni di Medea). E quindi la sua follia si placherebbe facendolo protagonista di un dramma in prima serata. Un mitomane? Uno che ammazza il figlio per andare ospite fisso da Bruno Vespa? No. Enrico Maria Salerno non vuole quello. In realtà quel che vuole non si è ancora capito. È chiaro solo che desiderava che la Valli, dopo il figlio, cambiasse vita: “Per lei fu come se non avvenne nulla, lei rimase attrice”. Cosa avrebbe dovuto diventare allora? Moglie e madre dietro ai fornelli, una diva del calibro della Valli? Alida, donna manager, ribatte: “Siamo attori, questo è il nostro mestiere” e “non hanno diritto gli attori di aver figli?”. Qua la risposta geniale di Cajoli/Salerno che anticipa la perdita della privacy tramite Facebook/Twitter/Instagram nonché l’invasività del giornalismo nei casi di nera: “quando i genitori appartengono al pubblico ebbene i figli bisogna dividerli con il pubblico”. Un attore non ha privacy. Chi è coinvolto in un caso di nera neanche. Il mestiere di attore di Valli e Salerno “distrugge la vita di Nuccio” (è il bambino) dice l’attore che avrebbe desiderato il ritiro della Valli non per maschilismo ma per questioni ideologico-morali. Per non rendersi entrambi complici del mondo falso e morboso che stanno creando i mass media. Se il figlio non fosse stato malato, incalza Salerno, avrebbe recitato nello sceneggiato al fianco della madre, in pasto al voyeurismo degli spettatori. Nella parte di uno di quei figli che Medea uccide. Alida stessa lo avrebbe ucciso trasformandolo a poco a poco in un simulacro di se stessa. In un alienato perso in una realtà virtuale.

La Valli risponde piena di ottimismo nei confronti del pubblico. Ricorda a Salerno che è in un caffè, “tra buona gente venuta a dimenticare i suoi guai e le sue tristezze. Non è gente che voglia soddisfare vizi. I più respingerebbero noi e quello che rappresentiamo se capissero di abbandonasi a un vizio. Da che mondo è mondo noi abbiamo seminato nuove idee e perfino le migliori. Noi possiamo consolare questa gente, confortarla”. Echi paternalistici della RAI di Bernabei, che si fruisce nei caffè e che presto sostituirà il caffè come centro (virtuale) di aggregazione. La TV dell’epoca credeva nell’educazione della buona gente e il suo segno, in questo senso, nonostante le censure e il taglio democratico cristiano, lo ha lasciato. Quasi la rimpiangiamo. Ma Cajoli non è uno stupido. Intuisce la “mutazione antropologica” dell’italiano medio, per usare un termine pasoliniano, livellato a piccolo borghese. Un giro di vite radicale avvenuto durante gli anni del boom, genitore della società nella quale viviamo adesso. Portò cambiamenti- a fianco della libertà d’espressione portò ad esempio un modo di gestione dei mass media che li vedeva subordinati al consumo, al guadagno, al mercato e in ultimo alla politica (sempre più intricata con l’economia). Portò poi le televisioni nelle case degli italiani. Nelle quali serpeggiavano lo stesso paure e insicurezze. Cajoli non osa dire apertamente in RAI che i medium non descrivono la realtà ma creano una realtà – e l’attinenza di quest’ultima col reale è direttamente proporzionale all’onestà intellettuale di chi la descrive (e inversamente proporzionale ai suoi interessi). Cajoli allude solamente al pericolo che si annida dietro questa presa di coscienza, del resto la stessa RAI di Bernabei, per ragioni politiche, esclude tanta parte di reale dal suo raggio di riproduzione.

Salerno continua: “Chi può salvarsi dal marciume che sale da tutte le parti che ci soffoca tutti quanti. Chi? Proprio noi? Gli attori? Sì bisognerebbe essere qualcuno per poter gridare dalla ribalta ‘Basta! Basta! Signori basta!’. Bisognerebbe essere qualcuno per respingere un copione e dire: ‘Eh no signore lei ha passato il limite’. Eh! Tu non capisci vero? Ebbene Alida io credo che stasera sono veramente qualcuno! E sono il padre del mio bambino!”. L’uomo senza qualità pirandelliano, che è uno nessuno e centomila, diventa qualcuno esprimendo una posizione violenta tramite il medium. E Salerno incarna qua, suo malgrado e senza saperlo (è morto nel 1994, molto prima di internet, Facebook o Twitter) lo webete medio, che scrive dunque è, indipendentemente da cosa scrive. “Forse noi perdiamo la nostra personalità come dici tu ma per dar vita a una personalità migliore”, gli risponde la Valli innamorata della propria maschera, dell’arte, “Non più”, ribatte Salerno, “Anche noi siamo diventati strumento di corruzione in mano agli altri […] attori che non sono attori, copioni che non sono copioni…”. Opinioni espresse di pancia, sincere ma indotte da chi (per fini di potere e d’interesse personale) gioca con le paure della gente: l’utente della post-verità è proprio questo, strumento di corruzione, attore, vaso da riempire di un copione. Gli fai credere che Enrico Maria Salerno, il giovane attore, ha rapito un bambino e l’utente accorre o telefona preoccupato in sede RAI. Gli fai credere che gli emigrati vivono in alberghi e prendono trentadue euro al giorno e l’utente s’indigna e li caccia via da Goro. “Quelli che stanno dietro ai teleschermi nelle proprie case…riesci a immaginarli tu, Alida? Sono case! Case! Case! Sono caffè, sono circoli ricreativi, sono famiglie! E brulicano di gente e noi… noi qua sempre di più giù negli occhi e nelle bocche spalancate di tutta questa gente. Sempre di più, sempre di più…più spietati, più crudeli, più nudi, più osceni. Ebbene basta! Quanto a me basta! Perché io […] in ciascuno di voi che ascolta…io vedo mio figlio”. Son parole che potrebbe sottoscrivere Laura Boldrini, bersaglio mobile di una post-verità sempre più arrabbiata. E allora Salerno diviene quasi un eroe, che difende il proprio figlio dall’attitudine da giudice spietato dello spettatore/dell’utente. Che giudica e non sa, conosce solo il copione che gli forniscono i media.

(Wells era anche il cognome da spaghetti western di Gian Maria Volonté, alias John Wells. Salerno doppiava Clint Eastwood in quel caso. La carriera di attore di Volonté rappresenta esattamente l’opposto speculare del modo di rapportarsi ai media esposto ne I Figli di Medea. Attore Volonté lo era eccome, di razza: cambiava aspetto, modo di parlare, di camminare anche nella vita quando doveva interpretare qualcuno. Ma dopo che Leone e Monicelli furono fautori dell’aumento del suo potere contrattuale, sempre si avvalse dell’atto creativo di scegliersi il copione decidendo da solo le maschere di cui vestirsi per non essere mai strumento di corruzione, mai un tramite di alienazione dal reale).

Tino Bianchi/Vinciguerra entra in scena e porta ad Alida Valli un biglietto. Nuccio è salvo. I carabinieri prendono Salerno. Vinciguerra continua con quel copione che, nella sua struttura, ha un posto vuoto e quel posto è per il pubblico: è il ruolo di aiutante salvifico. Benvenuti a Chi l’Ha Visto? (o alle Iene se preferite). “L’aiuto della televisione”, dice il commissario Vinciguerra, “come speravamo è stato decisivo”. Vailati/De Ceresa lo psichiatra parla alla camera e dice che quello che abbiamo appena visto non era una pesante scaramuccia pseudo-coniugale. “Voi avete sentito certe accuse”, dice, “e potreste essere tentati di integrarle e di interpretarle in base a determinate apparenze”. Chiaro. L’apparenza, se filtrata, inganna. Però poi il dottore torna in maschera, riparte a parlare della “frana psichica del signor Salerno”, della sua “rivolta delirante” di cui Alida Valli non è assolutamente responsabile. In che narrazione siamo adesso? Brave New World? Fahrenheit 451? Siamo negli anni Cinquanta in Italia, zona d’influenza americana ma col Partito Comunista più grande d’Europa. Le rivolte fanno paura. I cambiamenti fanno paura, proprio adesso che s’incomincia a intravedere un certo benessere. E Salerno torna nel posto della struttura narrativa designato per il cattivo. Per la seconda volta minaccia la stabilità della serata: si sparerà se non gli si concederà ancora tempo di parlare. Suspense.

Ed eccolo di nuovo, pistola alla mano. Racconta delle sue riflessioni a proposito del proprio mestiere: dice di aver detto spesso alla Valli “noi non dobbiamo collaborare. Ritiriamoci”. Lei gli avrebbe risposto: “Ma come vuoi tu trasformare da solo i nostri tempi, prendiamoli come vengono! Accontentiamoci di quello che possono darci.”. Una risposta piccolo borghese, da boom economico, da chi ha conquistato la sua stabilità e non vuole perderla: poco le importa delle questioni aperte o di come vengono date le notizie dai mass media. “Ecco, ma io non volevo più signori, non voglio più”, Salerno non ci sta, “io non accetto né denaro né gloria […] dunque ecco le ragioni della mia protesta”. Eccole. Un elenco, ascoltatelo bene: “Il teatro, il cinema, i libri, la scienza, le scuole, i giornali! Soprattutto i giornali stanno distruggendo lo spirito dell’uomo- e che cosa fare, mi domandavo […] Cosa fare non era facile, un pidocchio non può fermare un treno. Finché trovai la strada: salire sul treno. […] ”. Salerno prende a un signore, nel fantomatico caffè dove lo hanno fermato, un quotidiano e con un fiammifero glielo fa bruciare dicendo: “non perda questo secondo di pubblicità”. L’uomo nuovo degli anni Cinquanta vuole apparire, qualche anno dopo verranno i quindici minuti di notorietà, che in un futuro prossimo spetteranno a tutti secondo Andy Warhol. “Ecco qua signori”, dice Salerno, “io tutte le mattine […] compravo un giornale all’edicola e lì davanti a tutti senza nemmeno aprirlo lo bruciavo”. Wow. Che sabotaggio di protesta potrebbe usare al giorno d’oggi il fantasma di Salerno coi mezzi d’informazione stampa virtuali e non cartacei. Virus? Malware? “Naturalmente”, continua lui, “mi domandavano: ‘perché lei brucia il giornale?’ ‘per protesta, signore!’ ‘protesta? Ah politica!’ ‘No, no, signore! Morale!’”. Sì perché l’induzione al sentimentalismo alienante è sì un problema politico, quando è strumentalizzato, ma è prima di tutto un problema etico-morale. Salerno rimprovera alla Valli di non averlo seguito in questa protesta. Se fossero stati in due, avrebbe potuto essere più incisiva. Due attori contro il (proto)sistema mass mediatico italiano degli anni Cinquanta, che idea! La seconda puntata della prima serie di Black Mirror ci ricorda che se una protesta del genere fosse accaduta davvero probabilmente avrebbe potuto essere a un certo punto fagocitata dal sistema stesso – che come pompa una notizia per ottenere una reazione, addomestica chi protesta spettacolarizzandolo. La televisione, di cui Salerno si avvede tardi nel suo elenco di media, all’epoca sgambettava, era bambina. Adesso è ben adulta e consapevole del suo potere e di come può essere utilizzata per far confondere le idee o per creare alienazione o per dar vita a una realtà che non corrisponde al vero. “Sarà una bella gara a chi le dice più grosse”, tra medium, “soltanto che questa”, la TV, “ha un vantaggio incalcolabile”, dice Salerno, “arriva dappertutto. Incontrollata, dappertutto”. E nel ’59 chi se la può permettere la compra. Non se ne esce.

Chissà cosa avrebbe pensato il buon Cajoli di internet, che arriva dappertutto come la televisione ma che è interattivo, dunque è doppiamente democratico ma anche doppiamente, triplamente incontrollato.

La Vecchia Signora intanto dice a Salerno che a lei la televisione piace. “Non le allunga la vita”, risponde lui con rispetto, “però gliela allarga, gliela distende, ci mette dentro tante cosette che prima non c’erano”. E rende pigri dopo una giornata di lavoro, aggiungo io, troppo pigri e stanchi per uscire a controllare dove va il mondo davvero. Tanto ce lo dice lei, no? “Ed è su questo che contano”.

Altro momento altamente perturbante sul finale. Salerno dice alla vecchietta: “Signora lei è difesa dai suoi capelli bianchi e dalla sua esperienza, ma i suoi nipoti! Suo figlio e mio figlio, i vostri figli da che? Ma non lo vede che sono massacri e suicidi e violenze di ogni genere che dappertutto si leggono e poi sempre minutamente spiegati” dagli organi di informazione. “Dovrebbero scriverci ‘organi di preparazione professionale a’…”. A cosa? Salerno non finisce la frase. Non può lui e non può Cajoli. Ognuno la completi come vuole, a piacere. Io scelgo per me la parola “alienazione”. Organi di preparazione al distacco dal reale, allo svuotamento emotivo, all’anestetizzazione. Salerno va allora dallo psichiatra in studio e gli chiede quanti della sua categoria stanno già gridando all’allarme. Sicuramente Erich Fromm, che nel 1955 aveva sintetizzato alcuni di questi concetti ne I cosidetti sani. “La libertà”, dice Salerno, “vuole che non si celi alcuna notizia […] la libertà…ma chi pensa alla libertà dei poveri di spirito, chi li difende quelli? Chi li protegge perché non diventino schiavi della suggestione delittuosa – e questo è il problema dell’informazione”.

Già. Lo è ancora. La RAI di Bernabei pone la questione in maniera paternalistica: un intellettuale si preoccupa per chi ha meno strumenti ed è maggiormente vulnerabile ai pericoli dei mass media. Aldilà del modo di porlo, il problema è oggi più attuale che mai.

Ma la Valli non capisce, è rimasta indietro a quando si recitava per arte, si scriveva per onestà intellettuale. Oggi arte e giornalismo hanno perso l’aura, subordinati all’Utile, all’interesse. “Lei”, incalza Salerno, “dice ‘la poesia sistema tutto’ […] immaginate un consiglio di amministrazione di un grande settimanale, di quei rotocalchi che vanno sul milione di copie. Bene, v’immaginate che quel consiglio d’amministrazione si ponga mai questi problemi in termini di poesia? L’unico vero solo problema di un consiglio di amministrazione di un grande settimanale è quello di sopraffare la concorrenza”.

Tutto giusto, ma che fare? Cajoli tramite Salerno propone: “che la stampa migliore, liberamente, prenda un accordo qui in Italia, anche in Europa, anche nel mondo e che lo spirito dell’accordo sia questo: noi non taceremo nessuna notizia per nessuna ragione – e questo sì […]- ma non daremo alle notizie nessun rilievo se questo può offendere anche una sola coscienza o se può insidiare gli animi e l’immaginazione delle persone semplici e pure. E credete a me quando la stampa migliore avrebbe preso questo accordo, il giornalismo deteriore sarebbe anche obbligato, anche per legge a rispettare quei limiti fissati dagli uomini liberi in favore di quegli uomini che liberi non saranno mai per difetti di istruzione, di cultura, di raziocinio, di educazione morale”. Sarebbe bello. Ciò implicherebbe un ritorno in grande stile dell’etica. Ma la Vecchia Signora non capisce, Salerno si spiega meglio: “Basta togliere ogni risalto, ogni seduzione morbosa dalle notizie di certa gente”. Per salvare la libertà, che è così grande e la mente dell’uomo è così angusta senza di essa. E quanto ai poveri di spirito: “non fingiamo di volerli elevare mentre facciamo di tutto perché sprofondino”. Molti “poveri di spirito” all’epoca stavano diventando, da contadini/proletari che erano, dei piccoli borghesi, dei piccoli consumatori. Oggi invece la categoria annovera coloro che confondono la libertà d’opinione col valore delle opinioni, gli webeti arroganti con poca cultura e poca coscienza del funzionamento dei mass media. Sono loro i figli di Medea, cresciuti. E con addosso la paura di perdere la loro posizione privilegiata di piccolo borghesi, spesso credono il falso.

La sfuriata di Salerno finisce in una crisi isterica. Il giorno dopo, ci avverte Vinciguerra/Bianchi “I giornali diranno il resto”. Ma Vailati dà il suo parere di dottore. Non è certo della guarigione di Salerno che lo spettatore deve interessarsi, perché chiedersi se lui guarirà è come chiedersi se la società guarirà dai mali da lui denunciati. Era il 1959, ribadisco. Enrico Maria Salerno ha vissuto una vita intensa e una sfavillante carriera ma la società non è guarita affatto. Anzi, delle due si è complicata ulteriormente.

“Penso che ognuno di voi debba interpretare da sé questa esperienza”, conclude il dottore, “pone dubbi…disordinati, farraginosi… ma essenziali…dev’essere chiarita nell’animo di ognuno che se ne senta partecipe e cointeressato”. Dov’era Pasolini, grande bersaglio dei cine/tele giornali dell’epoca, quel 9 giugno? Già a lavoro per preparare il giro attraverso le coste d’Italia per il reportage che lo avrebbe impegnato da luglio a settembre commissionato dalla rivista “Successo”? Sarà lui anni dopo ad iniziare a mettere un po’ d’ordine nelle riflessioni buttate là da Cajoli in questo bizzarro esperimento della RAI degli esordi.

Siamo partiti dal raccontare il falso tramite la rete e siamo approdati all’insistere sulle tragedie morbose della televisione passando per il rapporto fra il reale ambiguo e la percezione dello spettatore/lettore/ascoltatore. Fino a mettere in guardia da chi narra il reale attraverso i media in maniera poco realistica al fine di ottenere uno scopo: il reale è una cosa, la narrazione sul reale è un’altra. I media non sono certo da condannare in toto: non lo voleva Cajoli e non lo vogliamo noi. Però se proprio la reintroduzione dell’etica è impossibile in un mondo neo-capitalista, almeno che si promuova l’educazione alla percezione- visto che non è da darsi per scontata. E si rifletta bene sul concetto di “opinione”. Perché tutti sono capaci di schierarsi con A. piuttosto che con B. a pelle, ma il mondo non si può decifrare coi mezzi di una partita di calcio, tifando Juventus invece che Roma o Napoli. Un’opinione di valore invece la si conquista studiando, confrontandosi, provando, chiedendo, tenendosi aggiornati, leggendo con consapevolezza delle proprie fonti e a fine di essere veramente liberi di scegliere con la propria testa, come Volonté, che copione recitare. O che emozioni provare quando la morbosità dei trend di nera del momento invece i sentimenti li induce. Vladimiro Cajoli ci vide lungo e la gittata del suo sguardo andò molto più in là del 1979, anno in cui morì. Dall’introduzione dei TG sulle reti Mediaset (all’epoca Fininvest) negli anni Novanta e soprattutto da quando la concorrenza ha portato alla misurazione dei dati di ascolto dei telegiornali, stragi, uccisioni, cataclismi, rapine, morti terribili sono aumentate esponenzialmente come notizie- sugli avvenimenti positivi si scivola spesso con superficialità. Ai giorni nostri, infine, l’induzione alla paura inizia a diventare un problema di distorsione della realtà collettivo aggravato dall’affiancarsi di un mezzo labirintico come internet per cui occorre veramente una mappa seria per districare il cervello. I figli di Medea è una perla nascosta negli anfratti degli esordi del broadcasting italiano, poneva interrogativi e tentativi di soluzione in tempi assolutamente non sospetti. Un proto-reality show molto interessante.

 

 

 

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