Preghiere coraniche in “basic English”
Alfonso M. di Nola
Numerosi e ripetuti viaggi compiuti dall’antropologo Clifford Geertz (quattro sue opere fra il 1973 e il ’90 sono già state tradotte in italiano) gli consentono di avanzare un confronto fra due città molto distanti fra di loro per costume e lingua e partecipanti in comune della sola religione islamica, peraltro definita secondo quadri indipendenti: da un lato la città di Sefrou, nella periferia di Fez in Marocco, e dall’altro il centro di Pare, nella zona centro-orientale di Giava, negli ultimi anni divenuta sede di numerosi abitanti, fino al punto di rendersi amministrativamente autonoma in concorso con altre importanti città dell’isola.
Il confronto, condotto attraverso l’analisi delle culture, delle vicende politiche, della religione e della struttura urbanistica si trasforma in un rischioso discorso di parallelismi, la cui essenza è fondata, a quanto sembra, sulla totale arbitrarietà delle aree chiamate in discussione, che potrebbero essere state sostituite da qualsiasi altro riferimento regionale. Ma lo scopo dell’autore, il quale si fonda sulla perfetta conoscenza delle due zone e sulla corrente loro visitazione, vuole essere il tentativo di ridefinire le mutazioni antropologiche profonde di due centri passati negli ultimi anni dagli aspetti arcaici e tradizionali a una cultura entrata, sotto l’influenza degli Occidentali, nel giro di una modernizzazione spesso disordinata e confusa.
Bisogna aver presente che il paese marocchino esce dal Protettorato francese solo intorno al 1957, portandosi nella propria cultura le incancellabili presenze, anche linguistiche, del paese che lo aveva dominato e recuperando il suo antico regime monarchico. Invece Pare era divenuta indipendente nel territorio indonesiano, liberato dal dominio olandese nel ’50, costituendosi come un territorio culturale ricco di lingue, usi costumari e religiosi, che conservano in alcune aree anche popolazioni tribali senza scrittura. Queste radicali diversità sono raffrontate soprattutto nell’ultimo capitolo dedicato alla modernizzazione, cioè al processo che tenta di cancellare le strutture arcaiche e sostituirle con quelle che appartengono alla cosiddetta modernità e alla post-modernità: termini che, per la loro origine squisitamente occidentale, non appaiono nel patrimonio lessicale originario delle due nazioni e che sono stati sostituiti, attraverso mutamenti e adattamenti, da espressioni puramente occidentali. Il contrasto della modernizzazione con il patrimonio arcaico si fa nei due paesi molto più stridente di quanto non avvenga in Occidente, a motivo delle radicali istanze che si sovrappongono, per la presenza dell’Islam, ai fenomeni di mutamento socioeconomico. Nel saggio Oltre i fatti (Il Mulino, Bologna 1995) diviene, perciò, particolarmente influente l’ultimo capitolo, nel quale la contrapposizione si manifesta al di fuori di ogni teoria e in forma discorsiva attraverso esempi che nascono dalla frequentazione dell’autore e che cercano di fissare il travaglio dello sviluppo e del progresso che spinge all’abbandono di quelle consuetudini intimamente connesse alla realtà locale. Mentre a Pare, sotto l’impulso degli inviti di Sukarno, rivolti alla trasformazione radicale, venivano a formarsi quartieri con grattacieli e sistema urbanistico efficiente e imponente, restavano nella loro importanza le antiche scuole musulmane annesse alle moschee, le cosiddette madrase di varie tendenze, da quella strettamente tradizionalista a quella riformista. L’esempio delle crisi che accompagnano l’accesso alla modernità è fornito dalla vivace discrizione della conclusione di un corso di basic English, in una madrasa diretta da un borneano immigrato, con scarse conoscenze di giavanese e limitate nozioni di inglese. La festa di fine corso si svolse nel campus davanti alla casa del capo del villaggio, con la partecipazione di circa 400 persone e dei diplomandi, maschi e femmine, le donne coperte dal tipico scialle islamico, gli uomini in giacca nera e camicia bianca, tutti aderenti al più rigoroso movimento musulmano.
Dopo una rappresentazione elementarmente costruita in inglese e indonesiano, con assordante trasmissione di musica popolare americana, si aprì un servizio religioso con letture coraniche e recitazione di preghiere in arabo, indonesiano e inglese. Seguirono per oltre un’ora varie specie di mimi gestiti da bambini e adulti, anche con il ricorso a parole e gesti osceni, provocando disagio e incomprensione, poiché veramente, anche per gli indigeni, non si riusciva a comprendere il significato delle performances. Al termine di questa disordinata esibizione, si tornò agli elementi religiosi con una predica islamica in perfetto inglese. La manifestazione si concluse con un altro sermone e preghiere coraniche. L’insieme di gestualità, discorsi e canti, fra loro sconnessi, probabilmente serviva a insistere sulla necessità di apprendere l’inglese e, insieme, recuperare l’essenza della tradizione islamica.
Corrispondentemente a Sefrou la crisi è rappresentata da un’altra vicenda, che anche qui esprime l’inconciliabilità delle nuove forme culturali con i tratti dell’antica cultura. Geertz punta soprattutto sul contrasto che si è venuto a creare fra le arcaiche strutture architettoniche strette intorno alla medina e l’improvviso provvedimento che intendeva dare un unico colore beige alla variopinta ricchezza di colori delle case di nuova costruzione che esibivano la ricchezza dei proprietari. Gli stessi fenomeni contraddittori che accompagnano le mutazioni nei due paesi studiati dall’autore si verificano, del resto, anche nel nostro paese, dove i nuovi tipi di costruzione lentamente vanno cancellando la ricchezza e varietà delle antiche case contadine.
[da il manifesto, 18 aprile 1996]