Raimon Panikkar: «Alzare barriere fra religioni è un suicidio culturale»
Marco Dotti
Tra coloro che più hanno insistito sul valore del dialogo come antidoto allo “scontro fra civiltà” c’è Raimon Panikkar: teologo, figura dal pensiero fecondo, a tratti mistico ma sempre incredibilmente concreto. Due suoi libri editi in questi giorni da Jaca Book richiamano alla necessità etica del dialogo: utopia o ultima possibilità?
Il primo, L’acqua della goccia (pagine 288, euro 25), è un diario. O meglio: frammenti dai diari, curati e raccolti da Milena Carrara Pavan. Il secondo libro è un’antologia, curata dall’economista e antropologo Serge Latouche: Pluriversum (pagine 240, euro 18). Sottotitolo: Per una democrazia delle culture.
Oltre la tolleranza che schiaccia
Osserva Latouche nel saggio che apre Pluriversum, «non so se il termine pluriversalismo compaia nei testi pubblicati da Raimon Panikkar. Io non ve l’ho trovato o ritrovato. Per contro, l’idea vi è ben presente nell’ambito dell’analisi dell’irriducibile diversità culturale e dell’impostura rappresentata dall’universalismo occidentale».
Il pluriversalismo (pluri-versum) di Panikkar si colloca, quindi, in contrasto con l’universalismo (uni-versum) occidentale ed eurocentrico: punto che emerge con particolare evidenza nella critica che Panikkar rivolge alla logica riduzionista inerente ai diritti dell’uomo e alla globalizzazione intesa come fattore omologante.
Partiamo dalla critica ai diritti dell’uomo. In un saggio originariamente apparso nel 1982 sulla rivista francese “Diogène” e ora raccolto in Pluriversum, Panikkar si chiede se i diritti dell’uomo siano una nozione occidentale. La risposta è affermativa. Dovremmo allora rinunciare a reclamarli o a metterli in pratica? La risposta è: no. Ma proprio il mancato rispetto, a Oriente come a Occidente, dei più elementari fra i diritti dell’uomo impone un’altra, forse più radicale, domanda. La ragione di questa trasgressione universale, si chiedeva Panikkar, non va forse trovata nel fatto che i diritti dell’uomo, «nella loro forma attuale, non rappresentano un simbolo universale abbastanza abbastanza forte da suscitare un riconoscimento concorde»?
Oggi – prosegue Panikkar, in un testo scritto nel 1982, quando l’avvento del mondo “post-” era ancora di là da venire – non c’è cultura né tradizione, non c’é ideologia né religione che non solo possa arrogarsi la pretesa di risolvere i problemi dell’uomo nel suo complesso, ma ma neppure possa pretendere di «parlare per l’umanità nel suo insieme». L’unico antidoto a ogni forma di monoglottismo è il dialogo.
Dialogo che per Panikkar – e qui troviamo la radice della sua critica alla globalizzazioneintesa come una «nuova torre di Babele» uniformante e omologante, e perciò intrisa di violenza – è tutt’uno con il pluriversalismo, ossia l’apertura alla lingua dell’altro.
A patto che si presenti come dialogo intra-culturale e non come dialogo interculturale. L’apertura alla pluralità, allora, non può essere una sua velata sottomissione attraverso gli arnesi della tolleranza. Non basta tollerare l’altro, per accoglierlo in sé e aprirsi a un vero pluralismo. Il pluralismo parte, al contrario, dall’assumere consapevolezza della propria contingenza.
La ratio dialogica di Panikkar è fondata sun un’idea molto forte di relatività culturale (per distinta dal relativismo) che considera legittimi e validi gli elementi caratterizzanti una data cultura nell’ambito e nel mito di quella cultura. Per Panikkar, in altri termini, non esistono universali culturali, ma esistono invarianti umani – parlare, relazionarsi, mangiare, etc. – che si rivestono di culture e segnano l’uomo in quanto homo religiosus, ossia capace di porsi domande sulle cose ultime.
La verità, spiega Panikkar, è sempre relazionale e il dialogo che la riguarda è sempre frutto di un’esperienza. L’esperienza della nostra contingenza. Contingenza che, conclude, «significa che tocchiamo (tangere) i nostri limiti e l’illimitato ci tocca (cum-tangere) tangenzialmente».
In una conversazione con Henri TIncq, apparsa su Le Monde martedì 2 aprile del 1996, Raimon Panikar si chiedeva: «Perché Yaweh, distruggendo il sogno di Babele, non ha voluto un governo mondiale, un mercato mondiale, una banca mondiale? Perché ha preferito, per consentire agli uomini di comunicare, piccole capanne a misura d’uomo, con finestre e strade, e non autostrade dell’informazione?». La risposta gli appariva chiara: affinché i rapporti umani rimangano personali».
Il mito della torre di Babele è il «sogno di un’unica lingua». Per questo, anziché cercare di «ricostruire una nuova torre, possiamo forse costruire delle vie di comunicazione e perfino di comunione tra le capanne dei nostri diversi mondi limitati».
Per Panikkar, il pluralismo non può dunque ammettere un super-sistema o un punto di vista esterno e superiore ai sistemi culturali senza che, per questa sola ammissione, si condanni all’autodistruzione.
Per Panikkar, il pluralismo dialogico non può ammettere un super-sistema ideologico o un punto di vista esterno e superiore, pertanto mai veramente esterno, ai sistemi culturali senza che, per questo solo fatto, si condanni all’autodistruzione. Occorre decentrare il dialogo contro ogni pretesa omologante(tolleranza, diritti dell’uomo) e contro ogni presupposto inglobante (globalizzazione).
Questa strategia di decentramento è evidente, per Panikkar, tanto nelle strategie che dovrebbero marcare il cosiddetto dialogo delle civiltà, quanto per quelle relative al dialogo tra le religioni.
«Se non riusciamo a decentralizzare la “cultura”, le culture», osservava in una conferenza organizzata dal Centro Studi “L’altrapagina” a Città di Castello, il 22 novembre 1983, e se non riusciremo «a pensare che ogni piccolo villaggio, ogni piccola città e, in ultima istanza, ogni persona è il centro stesso di tutto l’universo; se non superiamo il complesso di sentirci emarginati perché non viviamo a New York, non parliamo il cinese o l’inglese o il russo, non troveremo mai una soluzione al problema del dialogo tra civiltà».
L’ubiquità della scienza e della tecnologia moderne, dei mercati mondiali, delle organizzazioni internazionali e delle multinazionali, così come le innumerevoli migrazioni di lavoratori e la fuga di milioni di rifugiati – per non parlare dei turisti – rende inevitabile, e insieme indispendabile, l’incontro tra cultura e religioni
Il dialogo fra le religioni è, oggi più che mai, un incontro indispensabile, ineludibile. Esso è the unavoidible dialogue, come recita il sottotitolo originale di un volumetto, L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni, tradotto dall’inglese da Giuseppe Jiso Forzani e pubblicato dalle edizioni Jaca Book nel 2001.
Se nel corso della storia e delle vicende umane è stato naturale e persino inevitabile che le religioni si siano incontrate, incrociate, talvolta scontrate solitamente in seguito a eventi di natura politica o commerciale, oggi il dialogo non è più un lusso o una questione collaterale. L’incontro non avviene per osmosi lenta o graduale, ma per continui gradi di accelerazione. «L’ubiquità della scienza e della tecnologia moderne, dei mercati mondiali, delle organizzazioni internazionali e delle multinazionali, così come le innumerevoli migrazioni di lavoratori e la fuga di milioni di rifugiati – per non parlare dei turisti – rende inevitabile, e insieme indispensabile, l’incontro tra cultura e religioni».
Panikkar descrive tutto come una necessità vitale che si articola su tre livelli: 1) livello personale; 2) livello delle tradizioni religiose; 3) livello storico.
A livello personale, Panikkar constata un incrinarsi, nei Paesi occidentali, dell’elemento dell’individualismo come base del mito moderno. Al principio dell’individuazione che intende l’individuo come monade senza finestre, secondo Panikkar si va a poco a poco sostituendo, anche se in forme non sempre facili da avvertire, un principio di singolarità.
In questo senso il dialogo è tipico dell’uomo in quanto animal loquens, ma non si può limitare alla forma linguistica di uno scambio privato di idee. Tanto all’esterno, dove assume la forma costitutiva dell’essere (inteso come fascio di relazioni), quanto all’interno del soggetto dove la singolarità assume la forma della comunione interiore (mentre l’individuo tende a soffocare il dialogo interiore come loneliness).
A livello di tradizioni religiose, in un contesto che tende a escluderle sempre più dallo spazio pubblico, le religioni non hanno più il monopolio sull religione. In un simile contesto, il dialogo in sé diventa uno sforzo religioso.
A livello storico. L’uomo, essendo «una componente essenziale del cosmo» deve aprirsi al rischio dialogico. Un rischio che, osserva Panikkar, non tralasci nulla per principio. Se «religione implica agora, kuruksetra, il luogo dove gli Uomini – insieme alla terra, in basso, e al cielo, in alto – si raccolgono per indagare in sincerità sulle cose che li riguardano» allora la verità che si pone in dialogo deve essere colta come relazionale.
Scriveva Panikkar in un testo del 1990, significativamente titolato Le religioni hanno il monopolio della religione?, tradotto nello speciale che la rivista “InterCulture” gli dedicò nel giugno del 2011: «L’incontro e il dialogo fra religioni, ideologie e visioni del mondo rappresentano un imperativo per gli uomini del nostro tempo. Ciò che un tempo era uno splendido isolamento, oggi è diventato una misera segregazione. Questo stesso dialogo è uno sforzo religioso». Per questo, il dialogo non è una semplice discussione. Scaturisce da sorgenti più profonde.
La verità, insegna allora Panikkar, è sempre relazionale e il dialogo che la riguarda è sempre frutto di un’esperienza. L’esperienza della nostra contingenza. Contingenza che, conclude, «significa che tocchiamo (tangere) i nostri limiti e l’illimitato ci tocca (cum-tangere) tangenzialmente». Sapersi aprire a questa contingenza, lasciarsi toccare dall’altro è ciò che Panikkar chiama saper cogliere la pluriversità del mondo.
[cite]
philosophy and social criticism
issn: 2037-0857
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