philosophy and social criticism

Le guerre bestiali di Rembrandt Bugatti

Francesco Paolella

Quella di Rembrandt Bugatti è, da un certo (cinico) punto di vista, soltanto la storia di un disadattato, di un uomo rimasto per tutta la vita estraneo alla vita, ai margini, in una separazione dolorosa e sempre più faticosa dal mondo.

Ma Rembrandt Bugatti è stato un artista, un artista che ha avuto un certo riconoscimento, avendo peraltro successo fra fine Ottocento e primi del Novecento.

E’ stato uno scultore consacrato agli animali – anche quando ritraeva un uomo, non ricercava che un animale più evoluto.

Uno scultore animalista che cercava nel suo lavoro, nella sua missione (cogliere la vita dell’animale, il suo movimento, vivere con lui e per lui quanto più possibile), riposo e consolazione da quella estraneità così pesante.

Bugatti era più che mai un aristocratico, che viveva delle sue opere (e dell’aiuto del fratello, il celebre Ettore, quello delle automobili) e che ai suoi modelli (gli animali dello zoo) invidiava la loro beata inconsapevolezza.

Un uomo triste, solitario, muto, che camminava per le strade di Parigi e di Anversa (camminava sempre, ogni giorno, diretto verso il giardino zoologico) ingobbito, appesantito da quella estraneità.

Con gli animali, Bugatti riusciva a instaurare una sorta di empatia sentimentale. Amava senza dubbio gli animali, la loro compagnia. Ma non potremmo dire che li amasse tout court – fra l’altro, il nostro mangiava carne nei ristoranti.

Piuttosto, Bugatti aveva bisogno degli animali, li cercava, viveva con loro, nonostante tutti i fastidi e i pericoli che potevano procurare; stava con loro nell’illusione di potersi salvare, di trovare in loro una liberazione (spirituale addirittura?), del resto impossibile.

Così quando la guerra, la prima guerra mondiale, costrinse le autorità belghe ad eliminare gli animali costretti nello zoo di Anversa, per paura di fughe di bestie feroci per la città ormai assediata dai tedeschi, per Bugatti fu la fine: crollava il suo mondo fantastico e senza parole.

L’ultimo periodo della vita di Bugatti, ormai ridotto in povertà e forse già condannato dalla malattia, fu una specie di salto giù nell’abisso, nell’assurdo del dolore, fino al suicidio, estrema rivendicazione di dignità. Assoldò un giovane emigrante italiano e lo crocifisse, sul serio: lo legò per lunghe ore a una croce con degli stracci bagnati, per poter avere finalmente un modello umano (e non-umano allo stesso tempo); e fra i sospiri e i dolori di quel finto-Gesù, desideroso solo di qualche soldo, Bugatti riuscì a dar forma alla sua ultima opera.

La figura di Bugatti può ricordare, per certi versi e paradossalmente, quella del monomaniaco Achab sul Pequod. Il nostro scultore animalista viveva l’ossessione per gli animali e per i loro corpi, odiando allo stesso tempo le normali relazioni esistenti fra uomini e animali (da compagna, da passeggio, da esibizione).

Preferiva contemplarli, contemplando forse in essi la propria malattia, ovviamente mortale.

[cite]

 

tysm review
philosophy and social criticism
vol. 28, issue no. 30 november 2015
issn: 2037-0857
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