Riforme e contro-riforme
di Christian Marazzi
Uno dei pochi ad aver previsto l’esito delle elezioni italiane, in particolare il risultato a dir poco devastante della lista Mario Monti, presidente del consiglio uscente benedetto dai mercati finanziari globali, è stato Wolfang Münchau, vice-direttore del Financial Times (leggi l’articolo in pdf → “Austerity is the obstacle to real economic reform”, FT, 25 febbraio 2013). Sembra incredibile, ma è è così. E come ha fatto? Rimettendo il campanile in mezzo al villaggio, ossia ragionando sul significato della parola “riforma”, quella parola di cui più o meno tutti da tempo si riempiono la bocca e che ormai, quasi per riflesso automatico, viene associata all’altra parola che va per la maggiore, e cioè “crescita”economica. L’editorialista del prestigioso quotidiano economico-finanziario ricorda che negli anni ’60 e ’70, quando si parlava di “riforme”, si intendeva normalmente aumento dei diritti dei lavoratori, delle prestazioni sociali e degli investimenti dello Stato sociale.
Negli ultimi anni, invece, quando si pronuncia la parola “riforma”, si intende deregolamentazione del mercato del lavoro e della finanza e “riforma” delle pensioni, nel senso dell’aumento dell’età pensionabile se non anche la riduzione, via privatizzazione, delle rendite pensionistiche. A essere precisi, queste ultime “riforme” dovrebbero essere chiamate “contro-riforme”, proprio perché vanno in direzione opposta alle riforme che hanno fatto la storia dello sviluppo economico e sociale dei trent’anni gloriosi che hanno fatto seguito alla seconda guerra mondiale.
Ma la cosa più grave è quella associazione tra (contro)-riforme e crescita economica, quella promessa secondo cui esiste un legame virtuoso tra liberalizzazione dei mercati del lavoro e di quelli finanziari, austerità e crescita economica. Ebbene, questo legame non esiste. Ci sono paesi, si pensi alla Francia, che hanno tra i più elevati PIL pro capite pur avendo un mercato del lavoro regolamentato, comunque più regolamentato di altri, come l’Inghilterra. E che dire della liberalizzazione dei mercati finanziari, di quella “riforma” (contro-riforma, appunto) tanto perseguita in questi ultimi vent’anni? Si può veramente sostenere che questa “riforma” abbia contribuito alla crescita economica di medio lungo periodo, quando invece ha contribuito, eccome, a creare una bolla speculativa dopo l’altra?
Per non parlare delle misure di austerità, specie in Europa, portate avanti con miope determinazione nel nome della riduzione dei debiti pubblici. Suvvia, tutti oggi capiscono che l’austerità, fatta di alta pressione fiscale e tagli sistematici alla spesa pubblica, genera solo decrescita, recessione e addirittura aumento del debito pubblico quale conseguenza della riduzione delle entrate fiscali. A voler essere seri, se proprio si vuole riformare il mercato del lavoro, se lo si vuole flessibilizzare per facilitare, come si dice, l’entrata dei giovani nel mondo del lavoro, bisogna prevedere, almeno nel breve termine, un aumento della spesa sociale, non certo una sua diminuzione, un aumento dovuto alle misure di aiuto a chi perde il lavoro e deve essere riqualificato per poter uscire dalla disoccupazione.
Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti. Non si scherza con il linguaggio, quando si spacciano per riforme misure che, di fatto, sono contro-riforme, quando si illudono i cittadini sui benefici delle misure d’austerità senza fare niente per realmente promuovere la crescita e la creazione di posti di lavoro, ecco che le parole si incarnano in comportamenti materiali, cioè in rancore e rivolta. E nel momento stesso in cui te ne accorgi, è troppo tardi.
[ringraziamo l’autore per averci concesso l’autorizzazione a pubblicare l’articolo, originariamente apparso qui]
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tysm literary review, Vol 1, No. 3 – march 2013
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