Rima del diluvio. Julian Cope dal vivo, un incontro
Alessandro G. De Mitri
Absolute [Young] Poetry, Monfalcone, Teatro Comunale, 1 ottobre 2010
Il luogo è il Teatro Comunale di Monfalcone, cittadina industriale e marittima del nord-est estremo, l’evento è il festival di poesia Absolute Poetry, indebolito dai contrasti tra l’organizzazione e l’Amministrazione, malgrado il calendario eccellente. Nella prima parte si sono alternate sul palco poetesse di valore, l’italiana Tiziana Cera, l’inglese Kat Francois e la siriana Maram Al-Masri, assieme al performer Dome Bulfaro, sospeso tra musica e teatro; prima di Julian assistiamo alla breve esibizione, raccontata e quasi didattica, del rapper Kento, non molto originale ma sufficientemente convincente. La sera seguente sarà illuminata, tra gli altri, dalla magnetica presenza di Francesca Beard e dal commovente concerto tanguero di Horacio Ferrer, paroliere di Piazzolla.
Di fronte ad un pubblico di poco più di duecento persone, Julian Cope entra in scena poco dopo le undici, per un set acustico di un’ora scarsa, quindici canzoni. È alto, magro ed invecchiato, vestito da biker con pantaloni infilati negli stivali, giubbotto con le frange e lunghi capelli biondi sotto il cappello militare, occhiali da sole. La chitarra acustica gli è stata prestata da un musicista locale: la sua è rimasta schiacciata nella stiva dell’aereo. Sottofondo di tutta l’esibizione, suoni di pioggia e vento.
Cope dà vita ad un concerto indubbiamente piacevole anche se non eccezionale, condizionato dal comportamento “da teatro” del pubblico, che applaude calorosamente alla fine dei brani ma non risponde agli incitamenti del musicista durante le esecuzioni, e dal volume troppo basso della chitarra; tutte difficoltà che finiscono per stemperare il clima intimo tipico di una serata da solista. Julian, di suo, è impeccabile: si pavoneggia sul palco scimmiottando atteggiamenti da rockstar che ricordano il Lou Reed degli anni settanta, scherza introducendo le canzoni (“questa è una di quelle canzoni ‘Pa-Pa-Pa’ che scrivo ogni tanto”, dice per introdurre “Greatness & Perfection Of Love”), si concede un siparietto con il roadie che gli accorda la chitarra, camminando impettito sul limitare del palcoscenico per guardare in faccia gli spettatori, crea insomma un’atmosfera da rock ‘n’ roll acustico auto-parodistica e, a tratti, irresistibile. L’unico segno di stanchezza si intuisce nella voce, sempre caratteristica e intonata ma a tratti stanca e lievemente afona.
I brani, spogliati degli arrangiamenti dei dischi originali, rivelano le loro strutture a tratti folk, in altri momenti vicine ad un rock quasi “bluesato”. Sono tutti classici, nessun brano dai dischi più recenti, quelli autoprodotti e selvaggi; il meno datato proviene da “20 Mothers”. Frequenti le concessioni ai momenti più pop, pescati dai primi dischi e dal songbook dei Teardrop. Dominano “Fried”, “Peggy Suicide” e “Jehovahkill”, naturalmente, e c’è spazio anche per “Skellington”.
Sfilano così in scioltezza “Soul Desert”, “Autogeddon Blues” (“una canzone sugli incidenti”), “King Of Chaos” e “Great Dominions”, entrambe eseguite al piano con uno stile elementare e martellante, “”Sunspots” (“questo dovrebbe essere il suono di un’automobile che corre, woaaaaaashhhh”), una rilassata “Robert Mitchum” parzialmente in francese, venata da uno humour irresistibile, “una canzone dal repertorio dei Teardrop – e dei Bunnymen” ovvero “Books”, le grandi canzoni dei primi anni Novanta come “Pristeen” e “Double Vegetation”, fino all’unico bis di “Out Of My Mind On Dope & Speed”, che richiama sotto il palco i fans.
Julian Cope inizia forse ad essere il migliore imitatore di sé stesso, ma il suo talento rimane ineguagliabile.
Tracklisting:
- Soul Desert
- Mad Max
- Autogeddon Blues
- King Of Chaos
- The Great Dominions
- Sunspots
- Robert Mitchum
- (Read It In) Books
- The Greatness & Perfection Of Love
10. Pristeen
11. Double Vegetation
12. Julian H. Cope
13. Fa-Fa-Fa-Fine
14. I’m Your Daddy
15. Out Of My Mind On Dope & Speed
DOPO IL DILUVIO – QUATTRO CHIACCHIERE CON SAN GIULIANO
Nei camerini Julian, rivelatrice maglietta dei Neu!, è rilassato e loquace. Ha appena finito di rispondere a qualche giornalista locale e si concede al rito degli ammiratori di lunga data. “È bello rincontrare le persone, anno dopo anno”, risponde a chi gli rammenta di avergli già parlato a Bologna, o a Roma. Bottiglia di birra leggera messicana in mano, il Nostro sembra a tratti lievemente “fuori”, ma tutto sommato coerente: battute, grandi sorrisi, equivoci linguistici (“Ago, A-R-G-O? oh, you mean Ago, like Agostini! Ago, A-go, an interesting name – it’s a God’s name, y’ know?”), foto ricordo con ghigno e occhiali da sole, vinili contemplati con stupore, copie di Jehovahkill e di Japrocksampler da autografare che saltano fuori un po’ ovunque. L’atmosfera è gradevole.
Gli facciamo i complimenti per il concerto, “peccato sia stato un set così breve”.
“È quello che mi hanno chiesto,” risponde. “Quaranta minuti. Di solito suono due ore! Ma è un festival di poesia, mi sono adattato al tempo concesso; non potevo recitare poesie, non l’ho mai fatto.” Sembra comunque aver gradito il contesto, si ferma un attimo per salutare il giovane rapper calabrese Kento, con il quale ha, evidentemente, fraternizzato nel backstage.
“Sarebbe stato interessante vedere un concerto elettrico. Suoni con il gruppo solo in Inghilterra?”
“No, suono elettrico anche all’estero, ma in questo periodo non faccio molti concerti. Sono molto impegnato , sto scrivendo due libri, mi portano via molto tempo.”
Prima di chiedergli a che punto sia, se abbia trovato un editore, JC si è lanciato nel suo argomento preferito.
“Sto scrivendo un libro sulle vite dei grandi profeti,” dice, alzando la voce. Le altre persone nella stanza aguzzano le orecchie, il brusio diminuisce. “Il fatto è che noi conosciamo soltanto la vita di Cristo, non ne sappiamo molto degli altri profeti”. Si volta a scherzare con il suo roadie. “Sto cercando di scrivere da una prospettiva nuova, critica. Di affrontare il problema delle religioni. Vedi, io sono un ateo. Un adoratore di Odino, anche, ma è un fatto culturale; sono piuttosto un ateo in senso militante, come Carlyle (Thomas Carlyle, matematico, germanista ed illuminista scozzese del primo ottocento, proveniente da una famiglia religiosa, fu saggista aspramente polemico nei confronti dell’ipocrisia delle convenzioni sociali, approdando alla fine a posizioni di estremo individualismo controverse ed antidemocratiche, anticipatrici delle tematiche di Nietzsche, NdR), capisci?” Alza il tono della voce, infervorato.
“Le religioni organizzate come strutture ideologiche per il controllo delle masse?” azzardo.
“Controllo delle masse?” ripete, riflettendoci sopra per un istante. “Si, direi di si”. Sorride. “La religione limita la crescita dell’individuo. Il male,” il tono di voce si fa ironico e declamatorio al tempo stesso, “sta in due città, Roma e la Mecca. Bisognerebbe bruciarle. Però,” indica il responsabile dell’agenzia che lo ha portato in Italia, “a Roma ci vive anche lui. Forse dovrei trovare un modo per risparmiarlo.”
Rome wasn’t burned in a day? “Salvare il giusto,” butto lì, citando Blake. Julian sta abbracciando il tour manager.
Ritorna a parlare del libro.
“Sto cercando di scrivere da una nuova prospettiva, che faccia sapere alla gente quello che sta dietro la storia, cose che di solito non si conoscono. Il mio scopo è quello di analizzare il sistema di valori del mondo occidentale, il suo destino. Dove stiamo andando?” Un fosco paesaggio nietzschiano emerge fumoso dalle sue riflessioni.
È ovvio che non stia parlando dal punto di vista del conflitto tra civiltà. Il tono si fa spiritato; con un personaggio come lui è difficile capire dove finisca l’autoironia, di sicuro i temi della libertà dell’individuo dalle strutture ideologiche e di un’ecologia della mente sono dominanti nel suo lavoro degli ultimi vent’anni. Si avvicina, sempre con gli occhiali da sole, ed alza di nuovo la voce. Si rivolge a me, e a tutti i presenti: “Il punto è: cosa c…o vogliamo dalla vita?”, sillaba.
What the fuck do WE want?
Superare il capitalismo nella fase della globalizzazione grazie a Julian H. Cope. Inutile chiedergli della sua produzione recente, delle ristampe Universal dei vecchi classici, del rock come mitologia moderna. Questo disse l’Arcidruido del Wessex, 2010 C.E.
“Grazie mille, Mr. Cope.”
“Thank you very much, man.”
Monfalcone, 1-5 ottobre 2010
tysm, n. 1, dicembre 2010
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