philosophy and social criticism

Sarajevo

BRIDGES OF SARAJEVO, (aka PONTS DE SARAJEVO), Marc Recha segment, 2014. ©Rezo World Sales

SOTIRIOS PASTAKAS 

a Raffaella Marzano

 

Una pausa a microfono aperto

 

un «Grazie» con voce strozzata

occhi velati,

si rompe anche la voce

crolla come un ponte.

Un ponte è la voce

che unisce le due sponde

del Miliatska

per camminare su e giù

la gente, incontrarsi e scambiarsi

abbracci. Un ponte per far

camminare le poesie.

Sento la guerra

nella voce di Josip Osti,

colpi di mitraglia,

raffiche di Kalashnikov.

Amore e pace

nella voce di Jack Hirschman,

il perdono dato ai torturatori

nella voce di Carmen Yanez,

l’umorismo mortale serbo

negli scherzi

di Sinan Gudjevic,

la robustezza nella voce

di Tony Harisson

mentre narra

i suoi spettacoli

al Teatro Antico di Epidauro,

davanti al monumento

della Fiamma Eterna

e le sue esperienze

come corrispondente di guerra

dall’assedio di Sarajevo.

Perché la voce

che meriterà la poesia

deve essere provata

in tutte le condizioni,

deve aver camminato

su ponti fatti saltare

per divenire un ponte

essa stessa. Deve

aver cantato

non solo Bella Ciao

ma anche tutte le canzoni popolari.

La voce che articolerà

un giorno

il Poema

avrà già detto molte barzellette,

risolto vari scioglilingua

nonsense e calembour

Prima della recita

Jack Hirschman ci ha detto

di Edipo a New York,

all’unico ristorante

il Basartsia che serviva

cevapcici insieme ad un bicchiere

di chiaretto,

e dopo la recitazione

ha cantato per noi balalaike

e “fiume amaro dentro me”,

chiamato motherfucker dai tassisti

gli amici stretti

le amanti occasionali

e ufficiali,

la sua stessa madre.

Perché la poesia

e’ un gioco di scacchi

con pezzi enormi

fra la gente.

Ha parole soldati

e capitani parole

torri corpose

cavalli scapestrati,

poesie maschie da Re

e femminili da Regine.

Perché la poesia

ha sempre uno dei due

i colori sono sempre nero

o sempre bianco.

Solamente le non riuscite

rimangono come una partita

di scacchi in corso,

insieme bianchi e neri

l’incompiuta

l’infinita

l’ermafrodita.

Quelle che non hanno camminato

mai agli antipodi,

non stanno in piedi

-perché la traduzione

e’ la borsa dei canguri

e quel che scriviamo

deve reggersi sui due piedi

in tutte le lingue,

ha bisogno di farsi strada

nel mondo senza paura,

sia nei viali illuminati

sia nei vicoli ciechi dei drogati,

divenire una strada

semplice e tranquilla

come piaceva a lui

da battezzare con il suo nome

Izet Sarajlic,

una piccola strada

nel labirinto della città.

La traduzione della poesia

e’ questa marsupiale

pita kebab

le cipolle infarcite nelle viscere,

un bicchiere di latte acido,

questo sole a nascondino

tra le nuvole. E’ Raffaella

che ci fa cenno

dalla tavola d’osteria,

il sorriso di Eloy Santos,

il rap di Deborah Mayer,

la calvizia verticale

del poeta di Dubrovnik,

la introversa poetessa turca

i talismani

e le borse a tracolla di Aggie Falk,

la lente dell’occhio

di Mario Bova, il vigile

guardare e la gentilezza innata

di Sergio Iagulli, la languida

passione nella voce di Maram al Masri.

Sono tutte queste pietre

le une accanto alle altre

a formare il ponte lastricato

con le poesie sopra il Miliatska

questi dieci anni,

perché la poesia è sempre

la scommessa di chi

riesce a rubare dall’assurdo

la causa della sua esistenza,

a disarmarlo,

a renderlo indolore per noi.

La poesia è sempre

il kappa-o finale

dell’ afasia, del lutto,

della mancanza di volontà del destino,

ha il naso rotto

di Paul Polansky.

Tutti i poeti sono pugili

anche se sono inetti

nella vita quotidiana

anche se non sanno guidare

sostituire una lampadina

o inchiodare un telaio

al muro e tremano

come le foglie di betulla

alle raffiche di Kalashnikov,

perché i poeti

si fanno leccare

da tutte le lingue del mondo

fino al punto

che la morte non avrà

nessun potere su di loro,

perché la morte non possiede

ponti di parole,

sui suoi ponti

non camminano poesie.

La morte è un fiume

che fluisce attraverso

ponti crollati,

voci non create

nessun fonema da distinguere

l’ infinito sconosciuto dei verbi.

La morte non ha voce

strade case piazze

ne’ biblioteche ha la morte.

Questa città che ci e’ stata data,

sta guardando la morte,

pronta a riempirla di edera

viti, rampicanti,

a far camminare i vermi

a farli salire

con la segreta speranza

spuntassero loro le ali.

La morte un colle verde

di ossa in germoglio

dell’erba voglio,

le sempreverdi parole

di Izzet, che dalla sua tomba

qui in alto le disperde

ogni giorno nel cielo

di Sarajevo.

 

 

[cite]

 

tysm review
philosophy and social criticism
vol. 28, issue no. 30 november 2015
issn: 2037-0857
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