Sarajevo
SOTIRIOS PASTAKAS
a Raffaella Marzano
Una pausa a microfono aperto
un «Grazie» con voce strozzata
occhi velati,
si rompe anche la voce
crolla come un ponte.
Un ponte è la voce
che unisce le due sponde
del Miliatska
per camminare su e giù
la gente, incontrarsi e scambiarsi
abbracci. Un ponte per far
camminare le poesie.
Sento la guerra
nella voce di Josip Osti,
colpi di mitraglia,
raffiche di Kalashnikov.
Amore e pace
nella voce di Jack Hirschman,
il perdono dato ai torturatori
nella voce di Carmen Yanez,
l’umorismo mortale serbo
negli scherzi
di Sinan Gudjevic,
la robustezza nella voce
di Tony Harisson
mentre narra
i suoi spettacoli
al Teatro Antico di Epidauro,
davanti al monumento
della Fiamma Eterna
e le sue esperienze
come corrispondente di guerra
dall’assedio di Sarajevo.
Perché la voce
che meriterà la poesia
deve essere provata
in tutte le condizioni,
deve aver camminato
su ponti fatti saltare
per divenire un ponte
essa stessa. Deve
aver cantato
non solo Bella Ciao
ma anche tutte le canzoni popolari.
La voce che articolerà
un giorno
il Poema
avrà già detto molte barzellette,
risolto vari scioglilingua
nonsense e calembour
Prima della recita
Jack Hirschman ci ha detto
di Edipo a New York,
all’unico ristorante
il Basartsia che serviva
cevapcici insieme ad un bicchiere
di chiaretto,
e dopo la recitazione
ha cantato per noi balalaike
e “fiume amaro dentro me”,
chiamato motherfucker dai tassisti
gli amici stretti
le amanti occasionali
e ufficiali,
la sua stessa madre.
Perché la poesia
e’ un gioco di scacchi
con pezzi enormi
fra la gente.
Ha parole soldati
e capitani parole
torri corpose
cavalli scapestrati,
poesie maschie da Re
e femminili da Regine.
Perché la poesia
ha sempre uno dei due
i colori sono sempre nero
o sempre bianco.
Solamente le non riuscite
rimangono come una partita
di scacchi in corso,
insieme bianchi e neri
l’incompiuta
l’infinita
l’ermafrodita.
Quelle che non hanno camminato
mai agli antipodi,
non stanno in piedi
-perché la traduzione
e’ la borsa dei canguri
e quel che scriviamo
deve reggersi sui due piedi
in tutte le lingue,
ha bisogno di farsi strada
nel mondo senza paura,
sia nei viali illuminati
sia nei vicoli ciechi dei drogati,
divenire una strada
semplice e tranquilla
come piaceva a lui
da battezzare con il suo nome
Izet Sarajlic,
una piccola strada
nel labirinto della città.
La traduzione della poesia
e’ questa marsupiale
pita kebab
le cipolle infarcite nelle viscere,
un bicchiere di latte acido,
questo sole a nascondino
tra le nuvole. E’ Raffaella
che ci fa cenno
dalla tavola d’osteria,
il sorriso di Eloy Santos,
il rap di Deborah Mayer,
la calvizia verticale
del poeta di Dubrovnik,
la introversa poetessa turca
i talismani
e le borse a tracolla di Aggie Falk,
la lente dell’occhio
di Mario Bova, il vigile
guardare e la gentilezza innata
di Sergio Iagulli, la languida
passione nella voce di Maram al Masri.
Sono tutte queste pietre
le une accanto alle altre
a formare il ponte lastricato
con le poesie sopra il Miliatska
questi dieci anni,
perché la poesia è sempre
la scommessa di chi
riesce a rubare dall’assurdo
la causa della sua esistenza,
a disarmarlo,
a renderlo indolore per noi.
La poesia è sempre
il kappa-o finale
dell’ afasia, del lutto,
della mancanza di volontà del destino,
ha il naso rotto
di Paul Polansky.
Tutti i poeti sono pugili
anche se sono inetti
nella vita quotidiana
anche se non sanno guidare
sostituire una lampadina
o inchiodare un telaio
al muro e tremano
come le foglie di betulla
alle raffiche di Kalashnikov,
perché i poeti
si fanno leccare
da tutte le lingue del mondo
fino al punto
che la morte non avrà
nessun potere su di loro,
perché la morte non possiede
ponti di parole,
sui suoi ponti
non camminano poesie.
La morte è un fiume
che fluisce attraverso
ponti crollati,
voci non create
nessun fonema da distinguere
l’ infinito sconosciuto dei verbi.
La morte non ha voce
strade case piazze
ne’ biblioteche ha la morte.
Questa città che ci e’ stata data,
sta guardando la morte,
pronta a riempirla di edera
viti, rampicanti,
a far camminare i vermi
a farli salire
con la segreta speranza
spuntassero loro le ali.
La morte un colle verde
di ossa in germoglio
dell’erba voglio,
le sempreverdi parole
di Izzet, che dalla sua tomba
qui in alto le disperde
ogni giorno nel cielo
di Sarajevo.
Trascrizione di Sotirios Pastakas
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 28, issue no. 30 november 2015
issn: 2037-0857
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