philosophy and social criticism

Schermi globali

Vanni Codeluppi

unbekanntSono in molti oggi a chiedersi se la televisione sia sul punto di morire. In effetti, il suo apparecchio di trasmissione – il televisore – si è progressivamente ridotto e tra qualche anno sarà niente di più che una sottile membrana applicabile ovunque. Ma è soprattutto nei contenuti trasmessi che sembra essersi sempre più indebolita l’identità della televisione e la sua capacità di influenza sulla società. Sembra cioè che si siano perse quelle originali caratteristiche che facevano della televisione un mezzo di comunicazione unico nel panorama mediatico. Al momento attuale è difficile dire se effettivamente la televisione stia morendo, ma alcuni volumi usciti di recente offrono strumenti utili per riflettere sul radicale processo di cambiamento in corso per il mezzo televisivo.

Tra cornice e flusso

Nel saggio La fine della televisione (Lupetti-Editori di Comunicazione, 2009) Jean-Louis Missika ha raccontato con chiarezza che cosa è accaduto nella recente storia della tv. All’inizio degli anni Ottanta, scrive Missika, ha cominciato a svilupparsi quello che Umberto Eco ha descritto come il passaggio dalla «Paleotelevisione» alla «Neotelevisione», cioè il passaggio a una nuova fase nella quale la televisione, parlando sempre meno del mondo esterno e sempre più di sé e del suo rapporto con il pubblico, tende a inglobare lo spettatore. In sostanza, dunque, la Neotelevisione si disinteressa della qualità dei programmi trasmessi perché a contare è soprattutto la sua capacità di costruire relazioni sociali.

Ne consegue che anche la struttura dei singoli programmi si disgrega e la televisione si trasforma in un enorme flusso senza inizio né fine. A dire il vero, la comunicazione di flusso rappresenta una specifica caratteristica dei media elettronici. In precedenza infatti i messaggi erano definiti da precisi confini: giornali e manifesti, ad esempio, proponevano una fruizione concentrata e dotata di limiti temporali. Il modello dominante insomma era quello della fruizione dell’opera d’arte collocata all’interno di un’apposita cornice. I media elettronici – prima la radio, poi la televisione e soprattutto Internet – hanno invece introdotto e progressivamente sviluppato un modello di comunicazione basato sul flusso. Un modello, cioè, che prevede una comunicazione attiva senza interruzioni e alla quale l’individuo ha la possibilità di accedere in qualsiasi momento. La televisione della prima fase – la Paleotelevisione – era ancora in grado di conservare nei suoi programmi una parvenza di struttura, successivamente disgregata dalla Neotelevisione.

Pochi anni dopo la comparsa della Neotelevisione, il 17 aprile 1989, a Rai 3 è nato anche Blob, programma di montaggio di immagini provenienti da trasmissioni televisive già trasmesse, che incarnava in maniera esemplare il nuovo modello neotelevisivo. Mostrava infatti chiaramente che parlare di sé era divenuto l’obiettivo primario della tv e intensificava inoltre quella tendenza verso una comunicazione di flusso che è propria del mezzo televisivo. Blob, però, pur essendo una trasmissione figlia della Neotelevisione, rappresentava anche un esperimento d’avanguardia, poiché cercava, portando all’estremo le caratteristiche della Neotelevisione, di modificarne la logica. Come ha sostenuto Pier Aldo Rovatti, nel numero monografico dedicato alla televisione dalla rivista Aut Aut (n.336, ottobre-dicembre 2007), il motore principale del linguaggio di Blob è sempre stato la ricerca di contrasti tra le immagini: «Il gioco molteplice dei contrasti è la molla inventiva che mette in vibrazione ogni sequenza dandole una dimensionalità composita, mai riducibile al semplice dato (a una immagine semplice, unidimensionale)». Questo, nell’interpretazione di Rovatti, consente a Blob di produrre una «distanza», di stabilire cioè una separazione rispetto al flusso invasivo delle immagini, che tende soltanto a produrre prossimità e vicinanza. Per ottenere questo risultato Blob accetta la logica del palinsesto, ma si manifesta al suo interno «producendovi cesure e disturbi». Proprio questo però fa di Blob un programma dalla natura strutturalmente ambigua, a un tempo interna ed esterna alla logica televisiva. Non è un caso che Blob possa essere considerato anche un programma morale perché, attraverso i collegamenti logici che stabilisce tra i contenuti dei programmi, tende a ricostruire un proprio ordine nel disordine del flusso televisivo. Nessuna meraviglia allora se da qualche tempo Blob ha visto ridimensionarsi il suo ruolo. Da che cosa deriva questo fatto? Dalla politica che ha voluto censurarlo? In parte, ma soprattutto dalla «blobbizzazione» della televisione, che negli ultimi anni ha man mano ridotto le differenze tra Blob e il normale flusso televisivo.

Onnipresenti telecamere

Se le differenze tra Blob e la televisione si sono ridotte, però, è anche perché negli ultimi anni è comparsa sulla scena sociale Internet. La televisione ha dovuto adeguarsi alla concorrenza esercitata dalla Rete ed è entrata nella fase della Transtelevisione, una fase nella quale la televisione tende a caratterizzarsi anch’essa per una diffusione «reticolare» nella società, con il risultato di produrre un effetto «anestetico». Non solo infatti gli schermi si diffondono ovunque, ma si moltiplicano le telecamere che inquadrano quanto essi trasmettono. È come se tutta la realtà sociale fosse entrata dentro gli schermi appunto perché inquadrabile dalle telecamere. E la televisione non si presenta soltanto come reale, come reality tv, ma è la «vera realtà». Non ci può essere una dimensione differente: la realtà è quella che già esiste e basta inquadrarla con l’obiettivo di una telecamera per vederla. Ciò avviene perché la televisione non si limita oggi a creare nuove forme espressive o a trasformare in flusso i suoi contenuti, ma assume un’identità autonoma. Dà vita cioè a un mondo che sembra vivo e continuamente a portata di mano. Ed è questa sensazione di prossimità del mondo televisivo a coinvolgere gli spettatori in profondità. Ne deriva che gli individui vengono influenzati per quanto riguarda la loro capacità di attribuire un senso alle relazioni sociali e all’intera realtà che li circonda.
Insomma, nonostante l’arrivo della Rete e di nuovi modelli televisivi che sottraggono spazio alla tradizionale tv analogica (digitale satellitare, digitale terrestre, con protocollo Internet, mobile tv e via dicendo), la televisione continua attivamente a operare. Anzi, ancora oggi può essere considerata il più importante strumento in grado di dettare agli attori sociali i ritmi e i temi primari della vita collettiva. Negli ultimi anni l’invadente retorica sui new media ha in parte oscurato questo fondamentale ruolo sociale esercitato dalla televisione. Ma è necessario chiedersi se ha senso continuare a impiegare oggi l’espressione «nuovi media». Nel volume Il mondo che siamo. Per una sociologia dei media e dei linguaggi digitali (Liguori, 2009) Davide Borrelli ha giustamente proposto di prendere congedo da tale espressione, in quanto si tratta di «una specie di termine ombrello dai contorni semantici ormai sempre più indeterminati e generici, usato spesso con obiettivi e punti di vista diversi e per definire fenomeni e oggetti alquanto eterogenei se non contrastanti».

I media procedono da sempre per integrazione progressiva. Procedono cioè sovrapponendosi l’uno con l’altro e spesso ibridandosi tra loro. Così, i vecchi media non sono scomparsi. Di fronte al sopraggiungere di tecnologie innovative, hanno semplicemente ridimensionato il loro ruolo e inglobato parte dei loro contenuti e delle loro capacità comunicative all’interno di tali tecnologie. E questo sta accadendo anche alla Neotelevisione.

L’industria del gossip

Sembrerebbe che, nonostante l’attuale moltiplicazione di schermi, non sia cambiato molto rispetto al rapporto tra spettatore e schermo che vigeva all’epoca del cinema delle origini. È questa d’altronde la tesi sostenuta da Gilles Lipovetsky e Jean Serroy in L’écran global. Culture-médias et cinéma à l’âge hypermoderne (Seuil). Per Lipovetsky e Serroy, infatti, è stato il cinema a creare il concetto di schermo, facendo apparire per la prima volta un grande spazio luminoso rettangolare al cui interno magicamente si manifesta la vita riprodotta. Oggi quello del cinema è però solo uno dei tanti schermi della enorme «schermosfera» in cui viviamo. Ma se il cinema ha progressivamente ridotto la sua centralità, questo non comporta che si sia indebolito dal punto di vista della capacità di esercitare un’influenza culturale. Anzi, la tesi di Lipovetsky e Serroy è che tale capacità nel tempo si sia rafforzata: proprio la perdita di egemonia sul piano istituzionale ha consentito al cinema di diventare più flessibile, diffondendo il proprio modello agli altri schermi e all’intero immaginario culturale, addirittura imponendo agli individui di guardare la realtà sociale come se fossero davanti allo schermo del cinema.

Ma in cosa consiste per Lipovetsky e Serroy questa «cinematografizzazione del mondo»? Innanzitutto, i contenuti di tutti gli schermi sono sempre più spesso forniti dal cinema, che, lungi dallo scomparire, appare oggi più che mai vitale e capace di rinnovarsi in continuazione: le varie forme espressive (dai telefilm agli spot pubblicitari, dai videoclip ai videogiochi) tendono del resto in misura crescente a riprodurre il modello narrativo del cinema, seppure semplificandolo e accorciandolo. Infine, il cinema oggi diffonde sempre più nei media e nell’intera società il suo modello estetico, basato sulla spettacolarizzazione, sullo star system e sull’industria del gossip. Sono però anche le infinite forme di riproduzione delle esperienze quotidiane consentite dalle nuove tecnologie comunicative ad adottare il modello del cinema. Seguendo l’esempio fornito alle origini dai fratelli Lumière, la vita umana si ritrova infatti ad essere sempre più spesso sotto l’occhio dell’obiettivo. E addirittura il suo valore sociale dipende dall’esistenza di tale riproduzione basata sul modello cinematografico.

Strettamente connaturato all’idea di movimento prodotto attraverso uno strumento meccanico, il cinema è nato come arte della modernità. Ma sin dall’inizio si è presentato anche come fascinazione, perché dotato della magia suscitata dalle immagini in movimento sullo schermo – quella magia che gli consente oggi di essere ipermoderno e di rimanere in sintonia con le nuove tecnologie della comunicazione.

Se la tesi di Lipovetsky e Serroy fosse vera, allora l’avvento della Transtelevisione non comporterebbe la scomparsa (da molti temuta) del ruolo svolto sinora dalla televisione come medium di massa in grado di tenere unita la società e di consentire quindi lo sviluppo di quel dibattito plurale che sta alla base della vita democratica. Infatti il cinema potrebbe essere un collante capace di attribuire carattere collettivo ai molti e differenti volti assunti dalla Transtelevisione. Ridimensionato come momento di spettacolo con una partecipazione di massa, il cinema potrebbe cioè continuare a svolgere un ruolo ecumenico collegando attraverso le sue immagini e i suoi contenuti gli infiniti schermi di oggi.

[da il manifesto, 11 luglio 2009]