Scrivere digitale
di Francesco Paolella
Roberto Maragliano, Scrivere: formarsi e formare dentro gli ambienti della comunicazione digitale, Luca Sossella Editore, 2019
Si parla tanto di analfabetismo funzionale, del fatto che ormai sempre meno persone sappiano comprendere il senso di un articolo di giornale, eppure, tutti scrivono continuamente. Tutti scriviamo, e mai come in passato forse, perché tutti siamo cittadini, reali o “virtuali”, cittadini della rete e di mille comunità diverse. Come si spiega questa contraddizione? O meglio: cosa ci dice questa contraddizione del nostro rapporto con le scritture?
Dobbiamo chiederci: la scrittura, intesa in senso classico, dottorale, autorevole, è irrimediabilmente sul viale del tramonto? Non si è mai scritto così tanto, dicevamo, ma è altrettanto vero che ad essere in crisi sono le regole stesse dello scrivere, per non dire del prestigio dello scrivere “alto”.
La questione è che si tratta di decidere quale ruolo vogliono dare alla scrittura nella nostra esistenza: le parole scritte possono appartenere solo alle minuzie della vita quotidiana (gli sms, la lista spesa, le didascalie delle nostre foto) oppure – in alternativa – alla scrittura complessa, da intellettuali… Si tratta forse di due mondi separati?
E la scuola, per parte sua, ci deve presentare solo la scrittura difficile dei romanzi? La scrittura (e la lettura) vengono con facilità relegate negli angoli polverosi e noiosi, o come se venissero nascoste in torri inaccessibili.
Stiamo entrando in un epoca in cui le nuove forme di scrittura potrebbero davvero arrivare ad esiti impensati, e lo stesso oggetto-libro, come prodotto-finito potrebbe cambiare in modo rivoluzionario.
“Alto” e “basso”, mai come in questo momento, dovrebbero invece incontrarsi. Non ha senso rifugiarsi nella spocchia da nazigrammar… Ha ragione Maragliano: la scrittura è e deve essere riconosciuta sempre più, e specie proprio oggi che siamo nel regno del digitale, come strumento di dialogo.
La scrittura deve essere plurale, non deve essere contrapposta all’oralità come l’intelligente allo stupido, il ricco al povero o l’originale al banale. Non possiamo banalizzare scritture semplici come i messaggi che tutti usiamo ogni momento:
«Queste stesse istanze di marcatura, costruzione di senso, organizzazione logica stanno, in un qualche modo, anche nelle pratiche di chi chatta o lancia sms, o anche in quelle di chi si predispone a registrare un messaggio vocale al cellulare. Sbaglieremmo se le intendessimo come patrimonio esclusivo di chi scrive editoriali di giornali, o romanzi, o saggi. O di chi, a scuola, fa bei componimenti o ineccepibili tesine» (pagine 22-23)
Altro tema essenziale colto molto bene da Maragliano: è cambiata irreversibilmente la materialità della scrittura, con un salto come mai è avvenuto in passato. Pensiamo non soltanto alla scomparsa della grafia personale, o, molto più semplicemente, alla possibilità, che solo i nuovi dispositivi danno, di cancellare e ricancellare all’infinito quello che si scrive, senza lasciare traccia… Oppure riflettiamo ancora sul fatto che oggi la scrittura sia il più delle volte sempre più apertamente dialogica: la velocità della condivisione, l’istantaneità degli scambi, il nostro modo di comunicare insomma ha reso più manifesto questa apertura (almeno potenziale) agli altri, apertura che passa anche dallo scrivere. La tecnologia può molto ma, da sola, non può ovviamente risolvere la questione del senso né quella dell’immaginazione. Anzi, le infinite possibilità, le idee, gli spunti, i vocaboli, tutto ciò che passa dalla rete, se è possibile, non fa che complicare la creatività propria di ogni scrittura. Ovvero: «Questa semplificazione dell’atto materiale e di parte di quello ideativo non comporta una più agevole gestione del compito di realizzare testi» (pagina 51). Uomo e macchina devono, al solito, collaborare. Tutto è più semplice, ma anche più complesso.
Il bisogno di condividere il mondo è sempre in noi: oggi le parole che servono per soddisfare questo bisogno, tendono sicuramente a liberarsi molto di più dai vincoli della scrittura “seria”, ad associarsi ad immagini e a convivere con emoticon di ogni tipo, ma, appunto, al fondo quel bisogno rimane identico. Si tratta forse allora di inventare nuove grammatiche e nuovi oggetti in cui spingere quel bisogno di scrittura. Mai come in questo caso, la nostalgia è pericolosa; mai come in questo caso, serve una nuova “grammatica della fantasia”, sdrammatizzando gli errori e gli strafalcioni che tutti facciamo.
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