philosophy and social criticism

Il racconto della fine

di Francesco Paolella

Francesco Brancato, che si occupa di teologia dogmatica, ha senza dubbio ragione: la teologia, questa scienza sempre alla ricerca di segni di speranza ancora nascosti nel mondo, ha molto da guadagnare dalla frequentazione dell’arte e della letteratura in particolare, anche di quelle più urticanti e disperate. «La teologia trova […] nei linguaggi propria della cultura (arte, letteratura, musica ecc.) un’interpretazione non-religiosa di quanto è oggetto della sua stessa riflessione. Ciò fa sì che essa sia in grado di ritornare sulle questioni che la interessano e che la impegnano direttamente da altre prospettive» (pagina 69). La questione, semmai, è quella di verificare quanta teologia, o, più in generale, quanta “speranza” il mondo sia in grado di tollerare, di quanto cielo abbia ancora bisogno la terra. È perfino scontato sottolineare come il paradiso sia ormai irrimediabilmente fuori moda, di quanto temi come la riconciliazione, la pace universale, e la stessa liberazione degli uomini, siano scomparsi dal nostro orizzonte. L’eternità è scomparsa e siamo rimasti nella prigione della storia. L’alienazione ha corroso quella speranza e ha sepolto l’ambizione di andare oltre. Di più, conseguenza di questo terribile, universale addomesticamento della morte e della speranza, è scomparso anche il futuro: manca anche l’immaginazione, sia pure per finzione, di un mondo davvero nuovo. 

Resta il mistero del male, restano il dolore e il morire come sciagure di tutti e di ciascuno; resta, in altre parole, il nostro inferno: per nessuna persona sarà mai possibile risolvere il disagio e la noia del vivere, sarà mai possibile realizzarsi compiutamente nel tempo. In questa prigione (a volte comoda, a volte meno) che è il mondo, l’uomo può comunque riflettere sul proprio posto: e la letteratura moderna non è, come è noto, che un scavo ininterrotto di questo inferno. Pirandello e Mann, Kafka e Borges non hanno fatto che illuminare l’alienazione e l’isolamento dell’uomo moderno, l’assurdità delle sue pretese, del suo ottimismo. Il nichilismo e lo scetticismo ovunque dominanti, ma più ancora l’apatia e l’indifferenza verso tutto ciò che non è masticabile e subito vendibile, hanno dunque cancellato non solo la speranza propria della spiritualità e delle fedi, ma hanno anche sepolto la coscienza della nostra radicale insufficienza e, forse, la stessa possibilità di reagire allo scandalo del dolore e della morte. La letteratura, i romanzi tengono almeno viva e ben presente l’angoscia dell’uomo, ci fanno sentire le urla che salgono contro il male del mondo e contro il suo possibile creatore. La questione non è allora più nemmeno quella dell’ateismo, che pure ha vinto indubbiamente e che, almeno, rappresenta un tentativo di protesta contro Dio.

Il vero inferno, al di là di ciò che ci insegna l’escatologia cattolica, è una solitudine soffocante e una assenza infinita. L’inferno è il vuoto che ci attornia. Romanzi che raccontano di apocalissi storiche (dalla miseria economica ai Lager e ai disastri atomici) sono ovviamente occasioni privilegiate per rappresentare quel vuoto e per ricordarci l’impossibilità di vedere qualcosa di nuovo e di umano. Torniamo soltanto ai libri di Corman McCarthy, e al suo La strada su tutti, e alla violenza ineliminabile che trasuda da ogni pagina, e a un mondo in cui la disperazione non è più nemmeno una tentazione ma l’unico orizzonte possibile.

Lo scandalo della croce, la follia della resurrezione non riescono più a parlarci, non sanno più dialogare con la nostra cultura. L’umanità non si sente più peccatrice, e non è più bisognosa di perdono: essa è soltanto ed essenzialmente vittima – vittima dello sfruttamento, del clima, della malattia o di un dio cattivo e silente. Non serve più il giudizio, né valgono più l’espiazione e la redenzione. Manca soprattutto lo spirito profetico: e autori come Dostoevskij o Bernanos sembrano lontanissimi dal nostro sentire e allo stesso tempo attualissimi.

Gli scrittori non possono più essere profetici. Anche per questo, è stato davvero “eroico” lo sforzo compiuto dall’autore di questo volume, il quale ha cercato, appunto, di tenere viva la prospettiva di una speranza possibile in un contesto, come quello letterario fra Otto e Novecento, affascinato dalla morte.

Sarà possibile partire, o meglio, ripartire davvero da una fine? Sarà possibile recuperare la fiducia nella possibilità di uscire dal regno dell’identico e della noia? Di uscire dal dominio infinito della morte? Riferendosi, in particolare, al Beckett del Finale di partita, Brancato scrive: «Ogni cosa – tutte le cose sono in balìa della morte, anzi, sono “quasi” morte, “stanno per” morire, soffrono di una malattia “mortale”, ma non riescono ad approdare alla fine. Nessun vero futuro, dunque, neppure se questo ha il nome “morte”» (pagina 179).

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TYSM REVIEW
PHILOSOPHY AND SOCIAL CRITICISM
ISSN: 2037-0857
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