Medici e medicina durante il fascismo
di Francesco Paolella
Giorgio Cosmacini, Medici e medicina durante il fascismo, Pantarei, Milano 2019
Ci si potrebbe chiedere: cosa può mai cambiare ad essere ammalati quando vige un regime democratico oppure una dittatura? Non contano soltanto i progressi della medicina, le terapie disponibili, le innovazioni della chirurgia? A dire il vero, la medicina ha anche un ruolo politico molto preciso nella vita di una società e il suo funzionamento dipende chiaramente anche dagli indirizzi del governo di turno. E non si tratta semplicemente di risorse più o meno disponibili, di posti letto mancanti o di liste d’attesa troppo lunghe. Sono l’organizzazione stessa della classe medica, la scelta delle priorità su cui investire, l’eventuale discriminazione fra malattie o fra malati, a contare e a pesare, talvolta, sulla salute delle persone o sulla loro stessa esistenza.
Tutto ciò è particolarmente evidente se torniamo alla medicina durante gli anni del fascismo. Giorgio Cosmacini, senza dubbio uno dei più importanti storici della medicina italiana, ci riporta con questo suo nuovo studio alle politiche sanitarie del regime mussoliniano e alle lotte della medicina sociale (contro la malaria, contro la tbc, contro la sifilide soprattutto), riviste dal fascismo come espressioni di una vera e propria “medicina politica”, volta al risanamento della stirpe e, poi, della razza. Il ventennio nero, come si sa, è stato un lungo periodo in cui i corpi stessi degli italiani, il loro vigore, la loro virilità e la loro prolificità, sono diventati un campo di battaglia, uno spazio dove esprimere le ambizioni imperiali ed eugenetiche del regime e, dalla seconda metà degli anni Trenta, la medicina è divenuta uno strumento per la realizzazione di una politica razzista e discriminatoria.
L’analisi puntuale della biografie dei più importanti medici italiani è molto utile per comprendere la pervasività dell’ideologia fascista anche in campo sanitario: l’adesione di tanti “luminari” al regime non è stata soltanto il frutto di una scelta opportunistica per mantenere (o raggiungere) posizioni di potere, ma anche il risultato di una convergenza autentica fra le esigenze della classe medica e quelle del regime stesso. Il fascismo era, secondo una simbologia molto usata dalla retorica del regime e, in particolare, da Mussolini stesso, la medicina, dolorosa per qualcuno ma necessaria, per combattere le malattie (sociali, politiche, morali…) che stavano uccidendo l’Italia. In questo senso, tanti medici vollero mettere a disposizione del regime la loro opera e le loro parole: bonificare l’Italia, liberarla da mali atavici, favorire l’aumento della popolazione, individuare in essa gli elementi per qualsiasi motivo pericolosi o dannosi.
Anche la medicina ha funzionato come un veicolo della propaganda fascista e, per parte sua, il regime ha cercato di nazionalizzare il mondo scientifico e le sue scoperte: «Nell’ottica del regime, la scienza non è sovranazionale e la sua finalizzazione all’uomo non è una scelta etica che la preserva da applicazioni disumane; è una scelta politica che fa di essa una attività tecnica e pratica con etichetta nazionalistica e marchio fascista» (pagina 65). Ma, come dicevamo, è stato Mussolini stesso che si è sempre voluto presentare come medico (o chirurgo) della nazione: «Io che ho il polso della nazione nella mani, ne conto diligentemente i battiti»; «il nostro aspetto è la crudeltà del chirurgo»; «applicheremo i metodi più drastici anche al paziente più ribelle» (pagina VIII).
Le pagine più interessanti del libro sono – in una specie di contrappasso – però quelle che Cosmacini dedica alla storia clinica del corpo di Mussolini, alle sue malattie (vere o presunte), al suo inevitabile declino fisico e, poi, alla sua morte violenta. Rifacendosi anche al bel libro di Sergio Luzzatto sul Corpo del duce (1998), Cosmacini ci racconta qui dell’assistenza operata dai diversi medici personali del duce e ci mostra una volta di più quanto sia stretto il rapporto fra salute e potere: quanto, in altri termini, il destino politico di un uomo di potere sia legato a doppio filo alle sue condizioni fisiche e, per converso, quanto la perdita del potere (e specialmente di un potere assoluto) possa compromettere quelle.
Da ultimo, non smette mai di stupire quanto sia stata “dolce” e iniqua l’epurazione dei fascisti dall’Italia dell’immediato dopoguerra. Come in tanti altri settori strategici, anche in quello medico tanti personaggi compromessi col regime, e anche negli aspetti più osceni di quello (come il razzismo di Stato), non sono stati davvero espulsi dal mondo accademico, ma hanno potuto tornare presto in cattedra, e senza dover neppure far vedere troppo di aver mutato le proprie idee. In una formula, la solita “pacificazione” italiana.
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