philosophy and social criticism

Senza madre?

Francesco Paolella

 

La GPA (gestazione per altri, oppure, forse meglio: gestazione per conto di altri) è una questione cruciale del nostro tempo. Suscita riflessioni scandalizzate oppure già rassegnate, ed espone tutti al disagio che si prova davanti a mutamenti di cui non si possono comprendere bene i contorni né immaginare gli effetti. Tanto più, se pensiamo al fatto che forse, in un futuro ormai non più lontano, la pratica di mettere al mondo bambini voluti (progettati) da altre persone, non sarà il problema più grave e urgente con cui avremo a che fare in materia, e mi riferisco ovviamente all’ipotesi di poter realizzare uteri artificiali.

Per l’autrice, Lucetta Scaraffia, la GPA rappresenta un elemento particolarmente problematico (e problematico è dire poco) in una più generale crisi della maternità imperante nella nostra società. In altri termini, Scaraffia non è semplicemente contro questo tipo di pratiche, ma lo è, per così dire, perfino troppo, ponendo fra le cause di questo modo così “originale” di dare la vita tutta una serie di fenomeni che la stessa considera aberrazioni e degenerazioni prodotte dall’occidente moderno: la libertà sessuale, la pornografia di massa, la crisi della famiglia tradizionale, il controllo delle nascite, le pratiche più o meno apertamente eugenetiche tuttora lecite, la separazione fra procreazione e sessualità, il ruolo sempre più invasivo della medicina, il consumismo imperante e, sullo sfondo ma in fin dei conti sempre centrale, la possibilità di abortire date alle donne. Come ben si intende, l’autrice rivendica una visione iper-tradizionalista, e che arriva a contestare alcuni elementi essenziali che caratterizzano, piaccia o no, il nostro vivere contemporaneo (l’autodeterminazione del soggetto, la procreazione consapevole, la libertà economica come assoluto al pari di ogni altra libertà). Tutto ciò emerge chiaramente, come pure emerge la profonda critica che Scaraffia fa al fatto che sempre più donne abbiano voluto sottrarsi alla funzione materna come fine centrale della propria esistenza. In tutto ciò c’è molta nostalgia per un mondo (esistito chissà quando, verrebbe da chiedersi), che sarebbe stato più umano, per non dire più attento alla morale e nel quale la persona umana sarebbe stata ancora “sacra”.

Troviamo in questo libro tante idee e tanti spunti che meriterebbero di essere approfonditi: ad esempio, il fatto che oggi, a differenza che nel passato, i figli non siano più il frutto di una relazione consolidata, ma finiscano per essere investiti del ruolo di essere lo stesso fondamento delle famiglie, il collante che le fa stare in piedi: «il bambino è diventato una sorta di valore rifugio, il punto base intorno al quale si può tentare di allacciare legami familiari» (p. 24). Oppure – e qui ci avviciniamo di più al tema della GPA – il fatto che si sia ormai affermato un nuovo diritto, un «diritto al figlio», il diritto cioè a realizzare ad ogni costo (cioè secondo i prezzi del mercato) il proprio “progetto parentale” e il desiderio che ne è alla base.
D’altra parte, Scaraffia, davanti a un quadro oggettivamente complicato e dal quale emergono esempi di GPA discutibili, non riesce però ad andare oltre a delle pur legittime lamentazioni. Se, per contrastare la promiscuità sessuale, che considera come una vera e propria catastrofe sociale, Scaraffia non sa proporre in alternativa altro che le vecchie castità e fedeltà, è chiaro che si hanno pochi argomenti per ostacolare fenomeni ben più seri come appunto la GPA, se non, appunto, rinunciare. Purtroppo, però, non viviamo il tempo del sacrificio e della mortificazione.

Mi sembra che Scaraffia insista poi fin troppo sulle intenzioni di chi sceglie la strada della GPA. I “committenti” – ci ricorda l’autrice –, ovvero quelli che pagano tutta l’organizzazione che viene messa in campo per ottenere un neonato (dai medici ai legali alle “donatrici” dietro compenso di ovuli e di utero), avrebbero un desiderio e un egoismo così forti da piegare ad essi ogni valore, ogni dovere sociale, la dignità femminile e la stessa futura salute psichica del bambino. Di sicuro si tratta di pratiche “estreme” e delle quali – come dicevo – è difficile tenere conto di tutte le conseguenze. Ma perché prendersela solo con le intenzioni di chi ricorre alla GPA? Non dovremmo allora allargare lo sguardo a tutte le coppie che vogliono, per vie “naturali”, avere un figlio? Non sarebbe meglio mettere in campo una specie di selezione preventiva su chiunque voglia concepire un figlio? E quante donne hanno anche oggi figli magari soltanto per rispondere a un obbligo sociale o per poter esibire un trofeo o per altri motivi meno nobili o meschini? Come bene si vede, è rischioso inoltrarsi nel campo delle intenzioni. Dovremmo forse attribuire a ciascuno una patente di genitorialità?

Ciò detto, resta più che mai aperta la questione della GPA. E’ fin troppo facile ricorrere ad immagini forti: donne usate come incubatrici, la diffusione di un «turismo procreativo» nei paesi del terzo mondo al pari del turismo sessuale, l’avvento di una «delocalizzazione delle gestazioni», la cessione del proprio corpo in analogia con la prostituzione, o il paragone con il traffico di organi…

Scaraffia va anche oltre, parlando esplicitamente di violenza sociale e di consenso estirpato a donne costrette a vendere ciò che di più sacro possiedono. La libertà di quelle gestanti, che vivono in India o in Thailandia, sarebbe del tutto illusoria. Anche ammesso ciò, ben si vede che per arginare tali fenomeni servirebbe davvero un altro mondo, in cui lo sfruttamento e la miseria fossero banditi. La questione è stabilire fino a che punto queste pratiche siano tollerabili e fino a che punto sia utile regolarle e accettarne le conseguenze (e le conseguenze qui sono delle persone).

Si leggono spesso storie terribili, in cui donne povere o poverissime sono “deportate” in luoghi dove vengono controllate per far sì che tutte le richieste dei committenti siano rispettate. Dei loro travagli fisici (pensiamo anche alle donatrici di ovuli) e dei loro traumi emotivi nessuno sembra occuparsi. I committenti, da contratto, decidono tutto e iniziano a essere genitori (fatto singolare, a pensarci) già prima della nascita del bambino. La madre gestatrice scompare e scompare, questo è forse il punto più delicato, la sua stessa libertà. Che succederebbe, infatti, se decidesse di ripensarci? E se decidesse, per qualsiasi ragione, di abortire?

«Negli Stati Uniti, dove l’operazione costa più cara – si parla di cifre intorno ai 150.000 dollari, dei quali solo 20.000 vanno alla madre surrogata – le norme del contratto regolano ogni dettaglio. Severe clausole impediscono alla madre surrogata di tenere il bambino: per prevenire questo pericolo è vietato che la gestante sia anche la madre biologica. Vengono stabiliti poi i requisiti richiesti alla gestante: condizioni di salute e di alimentazione, stile di vita, il fatto che abbia già avuto altri figli, al fine di garantire il suo buon equilibrio psichico. Inoltre, in caso di malformazione del nascituro, è sempre previsto l’aborto, al quale la gestante non può sottrarsi. Ci sono stati casi però in cui la donna si è rifiutata di abortire tenendosi il figlio, mentre i committenti hanno rinunciato al bambino che non corrispondeva al loro “progetto”. E non hanno pagato» (p. 88).

Questo è uno degli argomenti più forti utilizzati da chi è contrario alla GPA, ed è forse il più efficace. Che ne è della libertà della donna, una volta iniziata la “procedura”?

In tutto ciò, nascono e nasceranno dei bambini. Gli studi sul loro sviluppo non sembrano ancora abbastanza sicuri su cosa significhi essere venuti al mondo attraverso una GPA. Al di là del fatto che si pensi alla GPA come una pratica liberante o, al contrario, semplicemente violenta, ci sono mille questioni che emergono anche sul futuro di quei bambini, questioni di cui si fa fatica a parlare perché paiono ancora troppo grandi e, per così dire, persino “astratte” o spesso capziose, ma che hanno anche a che vedere col loro diritto a conoscere, e sulle conseguenze della GPA sulla loro vita familiare, sociale e affettiva.

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