Storie anatomiche
Francesco Paolella
Il mondo di oggi, tutto insieme pre-moderno, moderno e post-moderno, cerca inutilmente di emanciparsi dal sacro, dal religioso; dal bisogno, in particolare, di attribuire un potenziale, una dose più o meno forte di energia ad oggetti (amuleti, reliquie, talismani) che sarebbero capaci di garantire salute, successo, visibilità o, semplicemente, un contatto con ciò che sta in alto (il divino, il genio, l’eroico).
Ecco che il mercato delle reliquie, alimentato da questo culto feticistico, non può conoscere crisi: e non parliamo soltanto di reliquie religiose, ma anzi anche di reliquie laiche, profane. Uomini politici, artisti, scienziati, filosofi: di quanti geni del passato oggi conserviamo un brandello del loro corpo – un dito, una vertebra, o magari il pene, come nel caso di Napoleone?
Ma sono sempre stati prima di tutto il cranio e il cervello le prede ambite per collezionisti, ammiratori e discepoli. Anche tanti scienziati, come antropologi ed anatomopatologi, hanno cercato in quei resti, più o meno efficacemente conservati, di poter scoprire la fonte, la causa del genio. Una indagine antropometrica, una volta tanto di moda, o una analisi dei tessuti o ancora del patrimonio genetico, potevano e possono essere una occasione unica per rivelare qualcosa della vita di Beethoven, di Galilei o di Descartes, delle loro abitudini quotidiane, delle loro malattie o magari della causa della loro morte. E sullo sfondo rimane sempre l’illusione di scoprire il perché e il percome di una mente così alta, di una intelligenza così prorompente.
In questa direzione, il caso forse più famoso è quello del cervello di Einstein, le cui vicende rappresentano al meglio questa commistione di idolatria, curiosità scientifica e interessi economici. E’ facile intuirlo, un pezzo (anche minimo) del corpo di un grande del passato (come una fettina di cervello o una ciocca di capelli) è di per sé un bene commerciabile, il cui valore economico – specie se ne è acclarata l’autenticità senza alcun dubbio – non può che crescere.
In queste storie di reliquie, anatomisti e collezionisti – storie scritte da Antonio Castronuovo – prima o poi compare sempre una vendita o un’asta. Si può lasciare in eredità ai propri figli il dito di un pittore o il cranio di un filosofo, ma prima o poi capita sempre che arrivi il momento di un passaggio di proprietà, così che quel prezioso oggetto si perda in giro per il mondo.
E queste storie non fanno che ribadire ancora una volta che il potere della morte non è arginabile. Non c’è raccomandazione o volontà testamentaria che tenga: dopo la mia morte, il mio corpo non è che un oggetto ingombrante, marcescente, ma dal quale è possibile che qualcuno ricavi qualcosa. Viene subito da pensare all’ottima prassi della donazione degli organi. Ma, molto raramente, esiste un tipo di ricavo molto diverso. Il caso più eclatante è senza dubbio quello della mummia di Lenin.
Siamo di nuovo alla religione.
E proprio come per la reliquie dei santi o per gli “strumenti della Passione”, disseminati in mille e mille chiese in Europa, può capitare di imbattersi in due diversi crani di Descartes o in una sterminata quantità di ciocche di capelli che sarebbero tutte provenienti dalla chioma romantica di Beethoven.
Questo culto laico di reliquie, ambite principalmente da eruditi, scienziati e musicofili, stride forse un po’ con la modesta ambizione di un saggio pragmatico come Jeremy Bentham, il quale pure volle farsi mummificare e diventare una “autoicona”, una statua di se stesso. Ma in questo caso, non si voleva tanto consegnare un pezzo di osso o di carne all’immortalità, quanto piuttosto rendere utile un corpo morto, a vantaggio di chi ancora viveva:
«In nome della teoria utilitaristica, Bentham deplora infatti la biasimevole abitudine di seppellire cristianamente le salme dei personaggi in vista, siano essi ministri, generali o poeti; in parole povere si chiede: che senso ha gettare via tanta preziosa materia? Lasciare che tanti corpi vadano incontro alla putrefazione? Ciò non procura forse un grave danno alla collettività? Perché non mummificarne i cadaveri per poi deporli, acconciamente abbigliati, in teche di vetro a maggior gloria dei posteri? Perché insomma non renderli utili? Poiché consente ricerche anatomiche ed esperimenti chirurgici dopo la morta, il corpo ha un enorme valore per l’umanità. E’ dunque possibile trarre un vantaggio dai cadaveri, preservandoli anziché disfarsene, con ulteriori vantaggi: il risparmio di denaro che deriva dall’evitare un notaio, un prete e l’impresa funebre, dispendio tale che, nel caso di un povero, “sono i risparmi di una famiglia a finire in fondo alla tomba”» (p- 63-64).
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 30, issue no. 33 april 2016
issn: 2037-0857
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