philosophy and social criticism

Terremoto Rimbaud e altri Sismi

M. D.

Lunedì 25 maggio 1891 Isabelle Rimbaud fu raggiunta da notizie sconfortatanti sulle condizioni di salute del più irrequieto tra i suoi quattro fratelli, Arthur, di ritorno dall’Abissinia. D’un tratto, scrive Philippe Besson , le «parve di ritrovare le paure di un tempo», quando temeva «di vederlo andare alla perdizione». La figura del poeta che Besson ci consegna nel suo romanzo, I giorni fragili di Arthur Rimbaud (trad. di Francesco Bruno, Guanda, Milano 2006) è quella di un uomo all’apparenza debole, sfigurato dalle sue visioni africane, mutilato nel fisico, disilluso e, per qualche strano paradosso, incapace di vivere gli ultimi giorni di agonia con la medesima intensità che aveva segnato quelli della gioventù, fra fughe improvvise «verso il sole del sud», amori burrascosi e la lotta per la Comune parigina. La sua figura viene rivisitata in filigrana attraverso i silenzi della madre – «dura, orgogliosa, aspra» la definì Victor Segalen – i buchi di memoria dei compagni di un tempo e, soprattutto, le notazioni e le deformazioni del ricordo («bisogna alterare i ricordi, o la vita diventa insopportabile») della sola donna che occupò gli ultimi suoi anni di vita, la sorella Isabelle. Assistente premurosa, osservatrice tardiva ma a suo modo attenta delle variazioni d’umore di Arthur Rimbaud, nel 1920 Isabelle pubblicò, presso l’editore Bloch, un volume di materiali titolato Mon frère Arthur. Fu allora accusata di aver contribuito a ridare forza a quel filone più «mitologico» che critico in cui da sempre si avvolgeva tanto l’opera, quanto, manco a dirlo, la vita del fratello. È opinione altrettanto comune che la donna sapesse ben poco di tutte queste faccende. Besson, al contrario, pur con le forzature tipiche del caso sembra porsi su tutt’altra sponda, condividendo il giudizio di Segalen che, sulle tracce del «doppio Rimbaud», fece visita alla sorella, nell’inverno del 1905. Segalen, allora di ritorno da Gibuti, si ritrovò davanti una donna «anziana, dal viso tondo, occhi chiari, naso e labbra che la rendevano simile ad Arthur» la quale di continuo, «evocava davanti a me il fratello», parlando «con lentezza e intensità». Alla fine, Segalen si convinse di una cosa: che Isabelle «avesse fino in fondo sentito il fratello». Senza una gamba, devastato dalle misteriose visioni di Aden, più che dalla cancrena, Rimbaud non poteva più camminare. Niente più fughe a Londra, Livorno, Milano o Siena, niente più arresti, come era successo nell’agosto del 1870, quando fu sorpreso senza biglietto, durante il suo primo viaggio da adolescente a Parigi. Dello splendido sovversivo che aveva fatto perdere moglie e testa a Verlaine, condividendo con lui, secondo le parole di Mallarmé, una «miseria orgiastica», rimanevano un corpo mutilato, volto al declino, e una mano che ormai si piegava solo per scrivere note di credito, lettere asettiche e commissioni d’acquisto. «Nel momento in cui apro questo diario, amputano Arthur. Lo privano della facoltà di camminare da uomo libero. Lo colpiscono in quella che è stata l’essenza della sua vita: muoversi». Comunque si vogliano vedere le cose, a Isabelle non sfuggì che se c’era stato un terremoto-Rimbaud, tanto nella poesia, quanto nella vita culturale francese, questo era dovuto non solo a questioni di stile (di cui capiva ben poco), ma anche, soprattutto, a una certo «modo di essere» del fratello. Una maniera di essere, e di vedere le cose, che dovette risultare invisa alle autorità allertate da «fonti interne», tanto che persino dopo l’amputazione della gamba cercarono di rintracciare il poeta, renitente alla leva, per imporgli la coscrizione forzata. Da sempre sotto osservazione, spiato, controllato, interrogato, Rimbaud fu, al pari di altri scrittori, oggetto di un copioso «dossier de police». Sotto gli occhi dei delatori e dei «flics» finirono non solo la sua burrascosa relazione con Verlaine, ma soprattutto, il suo acceso antimilitarismo, il suo spirito anarchico, il suo fervore comunardo, il «salmodiare dell’attualità», il «canto di guerra parigino» del maggio 1871 (a cui, probabilmente, non partecipò mai direttamente, ma con le cui idee intrattenne «una complicità intima») e proprio quella «maniera d’esistere» di cui parlava Isabelle dalla quale, nella seconda metà della sua vita dedicata al commercio e al silenzio, il suo mito sarebbe stato ancora accresciuto. Alcuni di questi documenti, noti agli studiosi, vengono ora pubblicati, in forma integrale, da Bruno Fuligni che nella Police des écrivains (Editions Horay, pagine 168, euro 12) offre al grande pubblico la possibilità di confrontarsi direttamente con il «rapporto di polizia», uno dei «vizi occulti» più praticati dalla Terza Repubblica e, non c’è da dubitare, anche da quelle a seguire, sebbene in Francia oltre il 1945 non fosse dato spingersi. Nulla di significativamente nuovo è venuto fuori, tra appunti e schede, sulle «aberranti» attitudini politiche e sulle private «virtù» di Rimbaud, sulle speculazioni finanziarie di Victor Hugo, sulle bizzarrie di Feydeau, fino ai profili di Aragon, figlio «naturale» del prefetto di Parigi, mancato suicida a Venezia nel 1928, e a Henry Miller, scambiato per una spia tedesca, o sul preoccupante successo di un’opera sottilmente perversa come quella di Colette o del suo sfruttatore, il marito Willy. Purtroppo, osserva Fuligni, non è facile risalire a prima del 1871, poiché gli archivi della Prefettura furono dati alle fiamme proprio durante la Comune. Su Rimbaud, resta però una nota di Lombard, un ufficiale incaricato di seguirlo ovunque. Preoccupato dalle intemperante politiche e dal fervore morale di Verlaine, ma anche dalle possibili ripercussioni «sull’ordine pubblico» del suo incontro col giovane e irrequieto Rimbaud, l’ufficiale offrirà un’analisi precisa e attenta della questione, in un dossier riprodotto in fac-simile da Fuligni. «In quanto a morale e talento», vi si legge, questo «Rimbaud, di quindici o sedici anni, era e rimane un mostro». Un «talento», si direbbe, eppure, aggiunge l’investigatore, «le sue opere sono incomprensibili e rivoltanti». È da giudizi di valore di questo tipo, per quanto scombinati – ben più che dai dettagliati rapporti sulla vita privata, come quelli che conseguono, in questo caso, al famoso colpo di pistola con cui Verlaine cercò di rimediare alla fuga dell’amante, portandolo direttamente in tribunale, prima che Rimbaud rinunciasse a ogni azione legale – che traspare tutta la paura di un potere che, al di là degli scandali morali, temeva proprio quella che l’ingenua provinciale Isabelle definiva una «maniera di essere», un modo poetico, ma non meno radicale, di declinare la propria dissidenza, o, se preferiamo, una dissidenza declinata in chiave poetica. Un altrove, per fortuna «inclassificabile», con tutte le conseguenze politiche del caso.

[da il manifesto, 3 settembre 2006]

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