Tutti sul piedistallo
di Francesco Paolella
Simon Blackburn, Specchio delle mie brame. Il narcisismo: pregi e difetti, Carbonio Editore, 2019
Nell’epoca del narcisismo di massa – per il quale le persone non sono certamente meno sole, ma soltanto più disposte a condividere la propria solitudine – anche le critiche al narcisismo (sempre al narcisismo degli altri) sono pressoché universali. In ogni momento e in chiunque (e specialmente nelle galassie dei social) possiamo trovare atteggiamenti fastidiosi di esibizionismo più o meno gratuito: come in un gioco di specchi, ognuno rincorre con ansia l’invidia degli altri, cercando di imporsi a un pubblico, in realtà quasi sempre indifferente o, appunto, soltanto infastidito. Ma al di là di tutto, tutti quei fenomeni che classifichiamo senza molta precisione sotto il nome di narcisismo, hanno molto a che vedere con la parte più intima di noi stessi, con le nostre emozioni più nascoste e con l’idea stessa di ciò che siamo ai nostri occhi e di ciò che crediamo di essere per gli altri. Tanto nell’umiltà quanto nell’orgoglio, dobbiamo riconoscere delle potenti passioni che possono essere tanto positive quanto negative per la nostra esistenza e, soprattutto, per le nostre relazioni nel mondo, con gli altri. Quanto è difficile – posto che sia davvero possibile – sapersi osservare con obiettività (anche se mai imparzialmente)! Quale sarà mai il mio io autentico? Dove rimane nascosta la mia integrità? Dove si trova il giusto mezzo della mia autostima? Queste questioni sollecitano la filosofia morale, come si può intendere facilmente, andando ben al di là dei facili moralismi e delle sentenze da sociologia spicciola.
Questo libro di Simon Blackburn, libro appena tradotto da Carbonio, ci porta appunto ad osservare da vicino questi temi, e fra tante incertezze, sempre alla ricerca di un equilibrio solido, rimaniamo come prigionieri in una specie di labirinto. Un punto fermo, a dire il vero, riusciamo però ad ottenerlo: viviamo nell’epoca che ha fatto del narcisismo, inteso come stile di vita, il nucleo più radicato dell’esistenza stessa. Oggi ognuno di noi è chiamato a disprezzare il mondo, per accaparrarsene il più possibile. L’idolatria dell’accumulare, l’avidità ritenuta non più soltanto legittima, ma sbandierata come unico sistema utile per la sopravvivenza, sono la nuova religione e, forse, rappresentano l’ultima religione possibile. In questo contesto, cresce smodatamente il bisogno esasperato di essere invidiati, di sentirsi su un piedistallo. Si tratta, evidentemente, di una illusione, di un autoinganno ogni giorno ripetuto, a cui veniamo spinti dagli altoparlanti totalitari del mercato e della pubblicità. L’ostentazione di sicurezza e superiorità rappresenta il vecchio trucco – un trucco che non funziona mai davvero – di chi ha paura dello sguardo degli altri, di chi ha paura di essere inadeguato, di non riuscire a stare al passo nella competizione continua. Ha ragione Balckburn: tante pubblicità – e specialmente quelle dei prodotti di bellezza e di lusso – ci dicono che non siamo all’altezza, ci respingono, pur vendendoci l’illusione che, tramite il loro aiuto, potremmo migliorare un po’… Vorremmo essere autosufficienti, come i signori di una volta chiusi nella loro fortezza; vorremmo poterci isolare come soltanto i veri ricchi, i veri vip sanno fare (o, almeno, cercano di farci credere). In realtà l’autosufficienza non arriva mai né potrebbe essere mantenuta: e così ci abbassiamo a cercare il consenso, o meglio l’invidia, tra coloro che pure vorremmo soltanto poter disprezzare. Odiamo e amiamo allo stesso tempo il nostro pubblico immaginario. Tutto ciò non è, per noi, che la condanna a rinunciare alla reciprocità, a poter seguire, in un certo senso, la legge morale così come Cristo o Kant hanno provato a insegnarci.
Nulla, neanche l’umiltà è al riparo dall’egoismo:
«Umiliarsi può essere una forma di aggressione: una tattica per sfidare la controparte a fare ciò che vuole, e quindi anche una forma di manipolazione dell’altro. L’odioso Uriah Heep di David Copperfield, che esibisce la sua umiltà come una piaga, ma è divorato internamente dal veleno e dall’invidia, è un buon esempio di tale associazione» (pagine 126-127).
In un mondo di attori, sempre vicini a cadere nella paranoia e, allo stesso tempo, sempre prossimi a cedere all’invidia, non c’è dunque un porto sicuro, se non la capacità di conoscersi e di rispettarsi. Come dicevamo, l’orgoglio o l’autostima non devono essere comunque disprezzati, e nessun finto pudore può cancellare i loro meriti nella vita degli uomini:
«L’autostima è positiva quando implica un giusto apprezzamento delle proprie reali capacità, ma questo vuol dire anche occupare il posto adeguato accanto agli altri nel mondo sociale; ed è negativa quando si tinge di eccessiva fiducia, di ingannevolezza, o della convinzione di poter esigere dagli altri più di quanto sia preparata a dare. In tutte queste cose, quindi, come avrebbe detto Aristotele, bisogna trovare un equilibrio, un giusto mezzo, e potrebbe trattarsi di un mezzo fra più di due estremi. Ideali e interessi in competizione possono sempre trascinarci in direzioni sbagliate. E anche le metafore aristoteliche dell’equilibrio e del giusto mezzo possono risultare troppo semplici, giacché individuare la giusta miscela fra questi atteggiamenti, emozioni e stati d’animo verso se stessi può essere come trovare il centro di gravità di una nuvola» (pagine 197-198).
Si può non essere sempre consapevoli del proprio egoismo; quasi sempre, i posti di vertice, i grandi privilegi spengono lo sguardo orizzontale verso gli uomini, e fanno credere che i dolori degli altri, di chi sta in basso, siano soltanto fisime. Ma tutti, chi più chi meno, siamo talmente portati all’autoreferenzialità da rendere verità universale il vecchio detto secondo il quale chi è sazio non crede a chi è digiuno. Si tratta davvero di una condanna, anche se si potrebbe sostenere che essa ha contribuito molto a far andare avanti il mondo, a farlo progredire. Nessuno è comunque immune dall’invidia:
«C’è infatti una tipologia di persone che occupa completamente l’immaginazione di un riccone: quelli ancora più ricchi di lui. L’invidia alimenta i cleptoparassiti, accelerata dalle esigenze di trasparenza che praticamente rendono gli stipendi di pubblico dominio. I comitati sui compensi sono costituiti da persone che guadagnano somme paragonabili a quelle dei soggetti di cui stabiliscono la paga, o che dipendono da chi fa il loro stesso lavoro, e quindi non accetterebbe di buon grado nessuna iniziativa che cambiasse lo status quo. Il ritornello costante, riferito da questi comitati, è che in altre compagnie si guadagna di più – tutti si confrontano con il quartile superiore in cui rientrano i dirigenti d’azienda – pensando quindi: è ingiusto che io, che valgo esattamente quanto il mio collega, sia pagato solo alcuni milioni, mentre lui ne prende a decine. Nel caso che questa vi sembri un’esagerazione, vi commuoverete al pensiero del povero, sofferente principe Alwaleed bin Talal, la cui fortuna nel 2013 è stata stimata in 20 miliardi di dollari dalla rivista “Forbes”: si è talmente arrabbiato per non essere stato collocato fra i primi dieci uomini più ricchi al mondo – ma solo al primo posto in Arabia Saudita – che ha fatto causa all’editore per diffamazione» (pagine 114-115).
Nessuno vive davvero in pace.
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