philosophy and social criticism

Un dialogo in musica. Conversazione con Gaetano Giani Luporini

Gianluca Pulsoni

Francesco Giani

A quando risale il suo incontro con Carmelo Bene?

zbeneCon l’opera di Carmelo Bene ricordo che, addirittura, quando io era ragazzo, coetaneo – perché aveva un anno meno di me – venne al teatro Virgilio di Lucca a recitare Pinocchio, la prima edizione (poi ne ha fatte tante, e con altri musicisti, Bussotti etc.) e mi ricordo che io rimasi colpito da questo ragazzo che avrà avuto ventuno anni, ventidue forse. E rimasi colpito perché sapeva entrare benissimo nello spirito della favola, della novella, con una voce che non poteva che essere quella… la voce di Pinocchio.  Poi è passato molto tempo, e io seguivo i suoi spettacoli, perché mi interessavano. Un giorno il maestro Bellugi che è un esimio direttore d’orchestra e che ha diretto molte mie musiche mi disse, ‹‹sai io vedrei bene la tua collaborazione con Carmelo perché siete due elementi che vi potete affiatare bene, così fantasiosi. Ti voglio presentare!››. Ora, Bellugi conosceva bene Carmelo perché aveva diretto il Manfred, grandioso poema con la voce recitante e la grande orchestra sinfonica. Carmelo Bene stimava molto Piero Bellugi per cui quando Bellugi parlò di me si incuriosì. Allora io preparai alcuni nastri delle mie composizioni e le feci avere a Carmelo Bene. Gli piacquero e mi prese come musicista suo. Come collaboratore.

Chissà che soddisfazione…

Eh sì, fu una bella soddisfazione perché per me è stata una grande esperienza con un uomo di una cultura spaventosa. Aveva la casa piena di libri. Mi ricordo quando mi invitava nel castello di Otranto, castello sul mare praticamente, si poteva discutere di teologia, di filosofia… aveva studiato con gli scolopi… o coi gesuiti, non ricordo bene. Insomma aveva molta cultura. E niente. Mi dette il primo appuntamento a Venezia perché mi commissionò le musiche del Majakovskij, dei poeti russi… e l’incontro avvenne lì, a Venezia. Ma non mi disse un granché lui, solamente mi commissionò la musica che doveva far parte di questo spettacolo. Mi lasciò completamente libero. Io composi. Una bella partitura, un affare così, un papiro! E lo raggiunsi poi a Roma – lui mi ricordo era al Teatro dell’Opera -e io arrivai da Lucca con questa partitura sottobraccio. Appena mi vide dette una sbirciata e disse: ‹‹Oh… ciao››. Era fatto così, un po’ brusco. ‹‹Oh che m’hai portato? M’hai portato il Tristano? Se dici tutto te, cosa dice la mia voce?? Non è mica merda, eh??›› Io rimasi spiazzato, non sapevo cosa dire. Poi gli dissi: ‹‹senti, se ti va bene, se no io ti lascio qui la mia musica, mi paghi, e io me ne torno a Lucca››. Questo fu il primo impatto. Poi quando vide che anch’io avevo reagito allora lui si ammansì e praticamente il lavoro fatto con un’orchestra di 60 strumentisti mi toccò ridurlo per pianoforte, violino e tromba. E percussioni, molte percussioni. Il percussionista addirittura aveva tutto un arsenale… percussioni anche di altri popoli, insomma proprio tutto un arsenale che faceva anche scena. Infatti poi l’ Adelchi diventò una scena. Allora,dopo aver capito che cosa voleva Bene il nostro rapporto – direi – fu idilliaco, non ci fu più nessuna contestazione, ma ci fu una solidarietà reciproca, una stima reciproca. E niente. Ecco come l’ho conosciuto, il primo impatto.

Che cosa amava Bene del suo lavoro?

Lui veramente mi stimava come compositore – l’ha lasciato scritto, m’ha fatto anche delle dediche belle – ma lui non amava molto la musica contemporanea, o almeno un certo tipo di musica contemporanea. Amava molto Verdi, Bellini, Mozart, Bach, Malher; alla musica del Novecento invece si accostava con una certa circospezione. Però ammirava molto Stravinskij, Debussy etc. Del primo, ad esempio, lo colpivano il senso ritmico e la vitalità, elementi propulsori della sua recitazione. Ma tornando a prima, da quel momento in poi la nostra collaborazione fu fruttuosa e in armonia insomma e nacquero i seguenti lavori: Majakowskij fu il primo, poi mi chiamò per il Pinocchio, poi per E mi presero gli occhi su testi di Holderlin e Leopardi, poi venne l’ Adelchi di Manzoni, poi venne Il coro dei morti da Leopardi, Il concerto mistico – composi le musiche ma non si ebbe la possibilità di darlo, come spettacolo. E l’ultimo fu La figlia di Jorio di d’Annunzio. L’ultimo lavoro che, purtroppo è rimasto incompiuto, era sull’androide. Carmelo in fondo… a proposito dell’androide, vi posso leggere una lettera, che mi mandò. Purtroppo come ho detto questo ultimo lavoro è rimasto così, era su sue poesie, e lui mi scrisse questo:

«caro maestro ti accludo i versi del poema preceduti da una traccia esplicativa, entro una settimana al telefono chiariremo dettagliatamente il tutto, come ripromessoci».

Poi, in caratteri maiuscoli:

«NOI SI MUORE QUANDO SI ARRESTA IL SOFFIO, LA PAROLA. L’ARGOMENTO NASCE COME IDEA CIMITERIALE E ANZITUTTO VERIFICA COME L’IO, NELLA SOLITUDINE, SIA DAVVERO UNA RESSA RUMOROSA DA SPACCIARE. NELL’IMPOSSIBILITÀ DELLA COMUNICAZIONE SOGGETTO-OGGETTO, PERCIÒ ANCHE CON SE STESSI. DALLE CENERI DI QUESTA RELAZIONE È ORIGINATO L’ALONE DELLA VOCE-ASCOLTO, AFFRANCATA DALLA MEDIAZIONE LINGUSTICA COME DALLA SUPERSTIZIONE DEL SE-DICENTE. LA VOCE CERCA IL SUO ASCOLTO COME UNA COMPAGNA CHE NON COMPRENDE MA CHE REAGISCE A VERSI (STIMOLI) ARTICOLATI COME VARIANTI DI UNA MEDESIMA INSENSIBILE INCOSCIENZA. QUELLA APPUNTO DELL’ANDROIDE, INANIMATO, OLTREUMANO. AUTENTICO AUTOMATICO COME UNICA POSSIBILE DESTITUZIONE DELLA VOLGARITÀ DELL’UMANO E DEI SUOI VALORI.

UNA GERARCHIA DI ANDROIDI IN CUI LA PRESCELTA DAL LETTORE-ATTORE SARÀ SORDOMUTA, IDEALE COMPAGNA DI VEGLIA, PURO EVENTO INDESCRIVIBILE, COME CIÒ CHE ACCADE (LA VOCE-ASCOLTO) NON SOTTOINTENDE ALCUN CODICE COMUNE. LA SUA TENSIONE GARANTISCE L’INCOMPRENSIONE ASSOLUTA. LA STESSA CIFRA STILISTICA DEI VERSI SEGUE QUESTO PERCORSO. IL FLUSSO LIRICO PROGRESSIVAMENTE SI RIDUCE A SCHELETRO, TESTIMONIANDO IL PARADOSSO DELLA PAROLA DESTINATA A DIRE IL NULLA DELLA VOCE-ASCOLTO. IL GUASTO STESSO DELL’ANDROIDE NE CANCELLERÀ OGNI TRACCIA COMUNICATIVA, RESTITUENDOLA AL PROPRIO INORGANICO TEATRO».

Questo è ciò che si voleva fare. Di mio amava molto le musiche di Pinocchio e dell’ Adelchi. Nonché quelle per La figlia di Jorio.

Ma avevate mai parlato delle sue caratteristiche come compositore?

No, no. Lui non faceva tanti discorsi. Diceva che si adattava bene a quello che  sentiva, a quello che voleva. Perché, praticamente, non dovevano essere musiche come colonne sonore, nello sfondo, ma dovevano essere musiche che dialogavano con la sua voce, con gli accenti della sua voce che è una voce portentosa (aveva una gamma di sfumature enormi insomma) per cui nasceva tra le mie musiche e la sua voce un contrappunto a due. Contrappunto è un termine musicale che vuol dire punto contro punto, cioè nota contro nota. In modo da tessere un dialogo.

Bene ha spesso insistito sul valore della musicalità. Immaginando che fosse tra i perni teorici dei vostri discorsi, ci può spiegare l’importanza di tale valore nel concepimento di un dialogo tra arte dell’attore e arte dell’ascolto? Ci sono a suo avviso esempi nell’opera di Bene dove l’attore abbia soltanto espresso una intenzione di musicalità ma mai una sua effettiva concretizzazione?

La musica per Carmelo… bisognava comporre in maniera da non sovrapporsi alla sua voce, scarnificarsi, tentare come detto prima questo colloquio, questo contrappunto. Per me la voce di Carmelo era una voce polifonica. Un paradosso? No. ‹‹Bach, nelle sue suites per violoncello ci ha dato meravigliosi esempi di polifonia per un solo strumento, attuata tramite segmentazioni delle frasi musicali in cellule ritmico-melodiche, in cadenze, in pause che richiamano altrettante risposte evitate o contraddette. Anche la voce di Carmelo si attua in una plurivocalità caratterizzata da incisi ritmici, sospensioni, cambi di registri, pause, in un tessuto vocale quanto mai variegato che ricorda la plastica dimensione della polifonia. zzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzNon si trattava dunque di comporre musiche come colonne sonore come ho già detto prima, musiche di fondo, né tantomeno ridondanti ripetizioni della sua vocalità, bensì di dialogare con la sua voce a guisa di un contrappunto che, a seconda dell’andamento fono-drammaturgico, potesse avere valenza di straniamento, di contraddizione o potenziamento della sua dizione. Carmelo aveva la facoltà di captare oltre il contenuto concettuale del testo lo spessore archetipico e adamantino di una musica segreta, racchiusa nella parola, ormai corrotta nella sua pragmaticità. Egli mi parlava di “modalità degli affetti”, non in quanto espressi in una recitazione dell’io psicologico, ma in quanto sottratti ad esso, ed intuiti e detti in una dimensione arcaica, meta-storica e a-psicologica. Il suicidio del proprio ego, in un rito di transustanziazione musicale. La teatralità della voce, nella solitaria invenzione del proprio esserci, esorcizza l’io-soggetto, con l’azione parossistica della sua potenza fonica›› (infatti aveva una potenza enorme). Questo scrissi io. Poi finì così. ‹‹Vorrei terminare con le parole che scrissi a Luisa Viglietti›› – che era la sua compagna – ‹‹in occasione di una commemorazione di Bene, alla quale non potei essere presente. Grazie Carmelo, il tuo spirito anima le mie e le “tue musiche”, nell’eco eterna della tua voce, mai nata e mai morta.››

L’esperienza del Pinocchio reputiamo sia centrale nell’opera di Bene. Come andò dal suo punto di vista quella collaborazione? Parlo sia da un lato professionale-collaborativo, sia da un lato umano, sia da un lato estetico e valutativo.

Non mi disse tante cose anche lì, mi lasciava libero. Sulla fatina mi disse, ‹‹sai è una bambina un po’ cattiva.›› Mi ricordo era un’estate dove lui era a Forte dei Marmi. Aveva preso una villetta in affitto proprio nell’interno e mi invitò li dove stetti qualche giorno. Però non mi disse nulla. Quando poi sentì le musiche gli piacquero molto, disse ‹‹sono molto carine, non sono banali, sono molto adatte al lavoro.›› Poi niente. La prima fu data a Pisa, al Teatro Verdi – bellissimo spettacolo – dove c’erano altri due attori. Le luci erano belle, tutte tagliate così, orizzontalmente. Poi l’ha ridato parecchie volte ma sempre cambiato, ma come le ho viste (le luci) a Pisa non le ho più viste, dopo è sempre stato (ogni spettacolo) con un taglio.

Come valuta adesso, a distanza di molti anni, il lavoro sul Pinocchio?

Che devo dire… Si, mi sembra che sia un lavoro riuscito, anche come musiche, ogni tanto le risento. E dico, Toh! Mica male! Orecchiabili, anche un po’ modernine… ma, voglio dire… insomma, questi lavori sono un po’ tangenziali nella mia carriera da musicista.

Ma quella collaborazione comunque andò… bene.

Si. Dopo la prima fu il Majakovskij, poi vennero il Pinocchio, l’ Adelchi, poi ancora E mi presero gli occhi poi su su, come detto prima, fino all’ “androide” non realizzato. E il Concerto mistico anch’esso non realizzato. C’erano i soldi e c’era tutto – si doveva fare, mi sembra, al comune dell’Aquila, ma al comune dell’Aquila c’era l’assessore che doveva firmare un atto di pagamento etc.. Ma non lo firmava mai.

Eh eh!

Forse aveva paura di qualche cosa. Sapete, quando si parlava di Carmelo Bene, a volte c’erano dei pregiudizi… arrivò a dire anche, come un bambino: ‹‹no, no, io non firmo perché anche la mi moglie non vuole!›› E di fronte a un affare così…

L’importanza di Rossini nel pensiero di Bene è palese. Ci può però dire se riscontra, a suo modo di vedere, influenze tecniche rossiniane in alcune opere dell’attore-autore, ed eventualmente motivarcele?

In che senso? Rossini è stato un musicista più che altro “comico”. Ha scritto opere buffe, poi si ha scritto anche un’ opera seria, l’ultima.

Ma lui non parlava male di Rossini…

Lo amava per lo stile, senz’altro. Amava molto Mozart e diceva che era “la musica degli angeli”. Mentre la musica di Bach era “la musica di Dio”. Frasi sentite da altri, gli piacevano e le ha fatte sue. Ora, Rossini e Mozart sono vicini, per cui se amava molto Mozart…
Sapete a chi piaceva molto Rossini? A Fellini.

Ah si?

Io fui chiamato da Fellini, andai a Roma tutto il giorno, passai una giornata con lui. Mi telefonò quando stavo a Lucca, e al telefono: ‹‹buongiorno, sono Federico Fellini. Mi piacerebbe conoscerla, potrei vederla a Roma?…›› E ciò anche una bella lettera. Andai a Roma e stetti tutto il giorno con lui. Era uno che ti guardava così e sapeva già tutto.

E quanti anni aveva?

Eh, si tratta del 1982-83. Lavoravo già con Carmelo, sull’onda degli spettacoli che avevano girato tutta Italia. Allora, siccome era morto Rota (e Fellini diceva: ‹‹ah! Che genio che era. Bastava che io gli parlassi di una scena e lui si metteva al pianoforte e subito improvvisava, con una musica adattissima alla scena che pensavo io. E bella perché a lui il cinema non piaceva e non ha mai visto un mio film.››). Eh, si. Non gli interessavano. Faceva la musica e poi…

Eppure ne ha fatte tante, Rota, non solo di Fellini!

Ne ha fatte tante. Eppure diceva che lui faceva la musica ma poi non è che gli interessava molto il film. Ha parlato anche di Carmelo Bene Fellini: ‹‹non mi fiderei››- disse – ‹‹prenderlo per un film›› (perché sapeva che Carmelo Bene non era facilmente “vincolabile”). Diceva: ‹‹con quella faccia un po’ da delinquente, eh!››. Carmelo delle volte aveva una espressione un po’ delinquenziale. Poi mi disse che dovevo comporgli la musica per E la nave va, però mi disse prima: ‹‹sono molto incerto, se farla scrivere da un musicista questa musica, cioè musica scritta appositamente per il film, oppure di prendere le musiche operistiche dell’Ottocento, Verdi etc.›› E poi mi scrisse una lettera e disse che aveva optato per la musica di Verdi, rifatta (non era la musica originale, tipica). Però, in una bella lettera mi dice, ‹‹sono sicuro che le prossime volte collaboreremo››. Poi stando a Roma e io a Lucca… sai quanta gente c’aveva lì? Anche musicisti. Poi lcominciò a stare male e la cosa non andò avanti.

Bene compositore è stata, che lei sappia, una parentesi? Come giudica i componimenti scritti dall’attore per il teatro di lui medesimo?

I suoi componimenti li pubblicò nelle sue poesie. Al punto che dovevano far parte anche dell’ androide. Del resto ha sempre fatto, ricreato, commedie oppure drammi. Si poi, ci sono anche molti aneddoti che vorrei dire, ho passato più di ventidue anni, dove ci son state delle pause, anche. Poi mi sono trovato in certe cose… tragicomiche: quando si incazzava con le attricette che c’aveva attorno etc. E mi ricordo quella più grossa successe con l’Adelchi. Eravamo a Pavia per la prima e avevano chiamato per il ruolo di Ermengarda una nota attrice italiana, una delle più note all’epoca. Mi ricordo che arrivò per le ultime prove. Io e Carmelo eravamo soli in platea del teatro di Pavia, città longobarda e mandò quest’attrice sulla scena, sul palco a recitare le reazioni di Ermengarda. Mi ricordo che lo vidi andare in su e in giù e mi disse: ‹‹ma lo vedi, lo senti Nino (mi chiamava Nino)? E questa passa per una delle migliori attrici italiane. Ma lo senti che roba? Io non posso… non ha nessuna musicalità, è accademica. Accademica›› Mi disse, ‹‹anche tu che sei un musicista potresti dirgli che non va bene.›› Io poi gli dissi, ‹‹va bè, qualcosa posso anche dirle, ma insomma…›› Dopo ci ritrovammo nel bar del teatro con questa attrice, tutta pimpante – non gli piaceva neanche il modo di fare – e lei mi domandò se era andata bene. Io le risposi, ‹‹sa Carmelo preferisce una dizione più musicale, meno accademica… poi sa, parli con lui perché io…›› ‹‹Come!?›› Disse lei. ‹‹Non va bene??›› Io le dissi, ‹‹parli con Carmelo direttamente.›› Allora si chiusero in camerino, stettero tre ore e li sentivo che vociavano, forse lei ha anche pianto. E niente, fu protestata. Poi sui giornali naturalmente avvenne che era lei non adatta alla sua personalità, a questo personaggio.

Si era accennato al discorso del Bene compositore…

Si, lui come compositore. Non è che creasse dei suoi drammi etc. Lui prendeva dei grandi drammi storici, prendeva spunto da personaggi secondari per sviluppare delle personalità oppure degli aspetti, per approfondire certi aspetti. Per cui naturalmente li creava.

Consiste praticamente in questo la sua attività di compositore.

Si, nel riscrivere.

Ha avuto modo di sentire alcuni suoi componimenti?

Si, si. Sono stato… ho visto le sue interpretazioni, le sue cose.

Le ha apprezzate comunque?

Si, si. Io l’ho sempre stimato.

Poi se c’è qualche altro aneddoto…

Andai a trovarlo (a Pisa) perché sapevo che c’era lo spettacolo. E mi beccò subito. Mi disse, ‹‹guarda, di a questi universitari, a questi fannulloni che a quarant’anni sono sempre all’Università, spiega la mia poetica, quello che intendo come “affetti della musica”.›› Lui non è che detestasse gli “affetti”, parlo di modalità. È un termine musicale, riferito ai modi. La modalità per lui era la modalità degli affetti, ma affetti intesi non in senso psicologico, ma intesi in senso archetipico.

Ecco, questo è quello che ci aveva già detto prima.

Si, archetipico. Cioè una specie di assenza-presenza, in quanto suicidio del proprio ego, per andare nell’oltre. Non era che non ci fossero gli “affetti” nella sua arte, ma non erano gli “affetti” banalmente psicologici. Si rifaceva e delle cose più cosmiche, direi.

E qui io le ho chiesto se lui era religioso.

Si. Una forma di religione ce l’aveva. Non era la religione accademica-istituzionale, quella delle chiese. Che ne avuto assai, anche serviva le messe come me quando era ragazzo! Sempre in chiesa e poi ebbe una reazione, anche perché diciamo la verità, la chiesa cattolica è rimasta ai tempi dei faraoni. Non sono più i tempi. Se c’è una religione oggi c’è una religione interiore, interiorizzata, individualizzata, una religione in senso cosmico, proprio. Poi lui aveva molta cultura, anche teologica. Conosceva bene la teologia, conosceva bene i preti.

Ma che studi aveva fatto?

Il liceo e aveva studiato con gli scolopi credo. O coi gesuiti.

E l’approccio alla musica?

Voleva fare il tenore. Non c’aveva le voci adatte. Poi i suoi inizi…

Aveva studiato per questo?

Si, aveva fatto l’Accademia a Roma. E poi le cantine. Erano tempi in cui lui era giovane, e beveva moltissimo. Mi disse una volta che lui e un suo amico non so quanti litri di alcool. Almeno dieci bottiglie.  Spesso andava in ospedale. È stato martoriato, ha avuto un sacco di malattie. Sembrava ci godesse: ‹‹ah! Mi operano. Si, si. Bene!››.  Ha avuto un po’ di tutto, praticamente due o tre infarti, roba del genere.

Lucca, autunno 2008