Hugo Claus: un filo rosso nel secolo nero
Marco Dotti
Chiunque abbia letto gli scarabocchi politici e umorali di Léon Degrelle, pubblicati in Francia più di quaranta anni or sono e sistematicamente ristampati con il titolo Le anime che bruciano, non tarderà a comprendere le ragioni del ritorno di fiamma di cui gode questo triste personaggio, che si è recentemente avvantaggiato dell’innegabile clamore suscitato oltralpe dalle Benevole di Jonathan Littell. Lo scrittore, da anni ossessivamente concentrato sulla storia del nazismo e dei suoi protagonisti, ha annunciato di essere sul punto di ultimare una biografia «breve, ma riccamente illustrata e con molti documenti inediti» di Degrelle. Si tratta di un lavoro che a più riprese Littel ha assicurato di avere condotto un approfondito studio di taglio «psicoanalitico e linguistico» sull’esponente dell’estrema destra belga, servitogli da modello per il personaggio di Maximilien Aue delle Benevole. Quello che l’eco della stampa ha qualificato come “novità” lo era solo in parte e solo in termini relativi, visto che nel corso degli anni scrittori grandi e meno grandi, da Drieu la Rochelle a Robert Brasillach, fino a Hugo Claus, si sono confrontati non solo letterariamente con il fantasma di Degrelle.
L’insofferenza di questo politico belga verso il «materialismo» e la parabola «degenerata e giacobina» di letteratura, arte e filosofia, il costante richiamo alle radici cattoliche dell’Europa assediata dai barbari, l’insistenza su forme di governo apartitiche e federaliste, unite a una scrittura visionaria e a un invidiabile eloquio polemico di gran lunga superiore a quello del suo maestro Léon Daudet, possono dare l’impressione che il fascista, monarchico e cattolicissimo Degrelle sia una di quelle figure “impolitiche” che si presumono capaci, malgrado o forse proprio grazie alle loro aberranti contraddizioni, di toccare alcuni dei tanti nervi scoperti del nostro tempo.
Ricorrono, negli scritti di Degrelle, espressioni quali «forza dell’amore», «potenza della gioia», «ricerca della felicità», «nostalgia dell’origine» che, se pure si possono in gran parte ricondurre alla suggestione esercitata dalla lettura delle opere di Charles Maurras, già negli anni Trenta contribuirono a identificare un preciso «stato d’animo» misto di boria, ingenuità tardo-romantiche e violenza nutrita dai «buoni sentimenti». Lo scrittore collaborazionista Robert Brasillach, che nel ’36 gli aveva dedicato un volume uscito da Plon col titolo Léon Degrelle et l’avenir de «Rex», osservava che il maggiore fra i suoi debiti letterari, Degrelle l’aveva contratto con il poeta Louis Boumal che nei propri versi fantasticava di una «Vallonia misteriosa, piena di boschi e foreste, un accordo tra la ragione e le forze del sangue e delle terra» e di un legame con il mito della latinità. Mediocre sia come poeta, sia come romanziere, Degrelle riuscì a trovare un gradito ripiego nella politica, fondando nel 1935 il movimento filofascista Rex, e nel giornalismo, di cui apprese alla perfezione trucchi e meschinità. Non fu certamente il primo, ma certamente fu tra i più scaltri nel cogliere le opportunità offerte, quando si trattava di esasperare lo stato d’animo delle classi medie, dall’uso di un vasto numero di mezzi di comunicazione: dalle case editrici – ricoprì l’incarico di direttore dell’editrice dell’Azione cattolica a Lovanio – alla radio, al giornale appunto. Prima di rifugiarsi, al termine della guerra, nell’accogliente e benemerita Spagna di Franco (dove contribuì all’organizzazione della rete Odessa, cercando di legare nuclei di reduci e di neonazisti sparsi per il mondo), Degrelle aveva dato prova del suo «alto» senso di civiltà e del suo delirante istinto geopolitico alimentando col proprio movimento e dalle pagine dell’omonimo giornale – anche questo chiamato «Rex», dal motto evidentemente ossessivo «Christus Rex» – il «sogno di una Grande Borgogna». Sogno che, nelle intenzioni sue e dei fascisti francofoni del Belgio, doveva unificare la Vallonia con l’omonima regione francese ma, in seguito all’invasione tedesca, si era trasformato in un più prosaico tributo a Hitler, a cui il trentaseienne fascista belga offrì il proprio, incondizionato sostegno e una legione di militari pronti a impegnarsi con le Waffen-SS sul fronte orientale.
Questa vicenda, se presa a sé, dice molte cose su un tipo umano più o meno ricorrente a ogni latitudine, ma altrettante può occultarne sul complicato tema del collaborazionismo belga, sulle sue forme striscianti, le sue zone grigie, le sue sottili sopravvivenze. Anche Brasillach, in conclusione del suo scritto sull’avvenire del movimento cattolico-fascista di Degrelle, avvertiva: «se del rexismo si avrà solo l’idea che possono dare alcuni libri, non se ne saprà nulla, come non si sa nulla del fascismo se ci si ferma agli opuscoli di propaganda. Bisogna avere visto in Belgio la passione che suscita il solo nome di Degrelle, bisogna avere visto “il mostro stesso”». Brasillach trascrive anche uno dei nomignoli con cui i tedeschi chiamavano Degrelle, «le bebé belge». In questo senso, il libro forse più istruttivo per descrivere come un contesto di apparente immobilità sia stato messo a soqquadro da una banda di ragazzini guidati dal «mostro» rimane La sofferenza del Belgio di Hugo Claus.
Edito da Feltrinelli nel 1999, il lavoro di Claus descrive la formazione culturale in un contesto gretto e opprimente più della nebbia di Anversa, l’impegno politico e il conseguente disincanto di un giovane, Louis Seynaevel, visto dall’altra parte del paese, quella delle Fiandre e del collaborazionismo interessato dei flamingant, i separatisti fiamminghi pronti a mercanteggiare con chiunque, persino con Hitler o Degrelle, pur di ottenere l’autonomia della loro regione. Il lavoro di Claus è magistrale, non soltanto nella ricostruzione del contesto, ma anche nella sua capacità di modellare i personaggi osservandoli nei loro momenti di massima tensione esistenziale, quando si trovano alle prese con un insieme di condizioni e contraddizioni concrete. Quello che risalta, tanto nella Sofferenza del Belgio, quanto in altre delle numerosissime opere dell’autore nato a Bruges nel 1929, è la tendenza a operare uno scavo su alcuni momenti critici di passaggio (l’infanzia, la formazione scolastica, la scoperta del mondo, il viaggio e il ritorno) e violenza (il colonialismo, il collaborazionismo, l’ingerenza cattolica nella politica del governo e, di conseguenza, nella vita di tutti i giorni) elaborati secondo schemi e ricorrenze mitologiche che, specie nel suo teatro, da Tieste a Een bruid in de morgen (La fidanzata del mattino, nel 1955 portata in scena a Parigi, da Sacha Pitoëff) si fanno evidenti. In un certo senso, la riconosciuta vocazione iconoclasta dello scrittore fiammingo si alimenta, anche sul piano formale, di continui conflitti fra congedi violenti e non meno violenti ritorni (è il caso di Corrono voci, edito sempre da Feltrinelli), fra tentativi di sottrarsi all’autorità familiare e nazionalistica e l’aberrante, morbosa necessità di ritornare sugli stessi luoghi in cui si sa o si presagisce che sono stati infranti dei tabù e dei sottaciuti dogmi sociali. Tema ricorrente, nonché fonte di continui guai giudiziari per Claus che, evidentemente, ha saputo toccare nervi davvero scoperti, è quello della vendetta senza riconciliazione e della violenza in senso lato incestuosa riversata dalla società in un ambito familiare. La bestialità individuale, suggerisce Claus, è sempre una conseguenza diretta o indiretta di una idea nazionalistica eretta a programma educativo, e in questo senso la decostruzione della figura di Degrelle diventa importante, perché illumina un contesto, anziché ricondurlo su un piano di mera perversione individuale. L’universo di Claus poeta non è, in questo senso, meno duro e complesso, perché non serve al romanziere e al drammaturgo per ritagliarsi uno spazio privato o una stanza tutta per sé.
Anche la poesia a Claus serve per scavare nel passato della propria storia e del proprio paese, fra le radici ammuffite dell’«identità» europea che tanto piacevano a Degrelle, senza risparmiare colpi a nessuno. Lo dimostrano, fra le altre, le composizioni risalenti al periodo della sua bohème parigina, sul finire degli anni Quaranta, quando sotto i ponti di Parigi ebbe modo di conoscere Antonin Artaud, a cui non a caso è dedicata la lirica che apre l’auto-antologia Hugo Claus Gedichte. 1948-1993, edita ad Amsterdam nel 1994 o quelle in cui traspare la convinzione di essere vittima di un maleficio, concepito chissà come e chissà da chi proprio nella «terra natale delle Fiandre». Claus, che da parte sua con l’Italia ha sempre intrattenuto un rapporto privilegiato, da traduttore, librettista d’opera e sceneggiatore cinematografico, aspettava da troppo tempo una versione sistematica delle sue poesie. Ora, grazie a Tracce (Milano, 2007) curato e tradotto da Franco Paris per Crocetti editore, il lettore italiano potrà farsi una idea precisa del lavoro di questo insolito e poliedrico autore. Costante è una specie di irritazione, forse persino di imbarazzo, verso «l’impulso poetico» proprio e altrui, filtrato attraverso stili eterogenei e toni che passano dal grottesco al tragico senza soluzione di continuità.
Ogni accenno alla «poesia alta» viene ironicamente frustrato dall’autore che rifugge l’autocompiacimento, anche formale, e tende a riportare tutto, come suo solito, a una «concretezza terrena» fatta di «resti» e tracce «di ciò che era una poesia», convinto che, come tutto il resto, «anche la lingua, con l’uso, si usura».
Le tracce di Claus sono quanto mai simili alle «scorie della vita psichica» di cui parlava Antonin Artaud – che proprio dal Belgio fu espulso, nel ‘37,dopo una serie di attacchi pubblici, misti a ingiurie, contro i gesuiti. Resti di un immaginario fatto a brandelli e di una umanità resa deforme dall’oppressione e dallo sfruttamento che, a più gradi e livelli, la circonda. Anche l’amore, parola abusata negli scritti di Degrelle – è quantomeno un fatto singolare che un fascista non provi imbarazzo per questa parola – diventa, per Claus, materia di irrisione, quando scrive: «amami senza interesse. Sii corrotto come un belga». Di lui, Jean Weisgerber, fra i massimi studiosi di letteratura neerlandese, ha scritto: «verrebbe la tentazione di dire che, pur senza averne l’aspetto, faccia opera di moralista. Ci dà una immagine senza dubbio frammentaria, ma davvero suggestiva, dei costumi del nostro tempo. Concretizza la nostra “situazione” e in questo modo ci forza a prendere coscienza. Strappando da ciò che sembra inarticolato un universo di disperazione e miseria, Claus ci avverte dei pericoli che corriamo».
Quanto ai belgi, non poteva essere più chiaro: «Questo popolo che a quanto si dice si muove tra due poli» – scrive, con buona pace dei nostalgici di Degrelle, Hugo Claus -«crede meno nell’aldilà che nel suo orzo quotidiano. Questo popolo la domenica farà la carità al papa o ai negri, ma soprattutto questo popolo adula con soldi e preghiere per paura delle annate magre i suoi docili padroni».
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tysm review
philosophy and social criticism
vol. 24, issue no. 34, march 2016
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