philosophy and social criticism

Vendere il passato a Luanda

Marco Dotti

José Eduardo Agualusa, Il venditore di passati, traduzione dal portoghese (Angola) di Giorgio de Marchis, la Nuova frontiera, Roma 2008.

Esistono vite irrilevanti? Per Félix Ventura, protagonista dell’ultimo libro del portoghese José Eduardo Agualusa, evidentemente no. Ma Ventura è un tipo insolito, un nero albino che trascorre le sue giornate in compagnia di un geco (voce narrante del romanzo), tra fascicoli e volumi impolverati, falsificando documenti, ricomponendo storie e, soprattutto, vendendo avi, fregi e identità a chiunque ne abbia bisogno e se lo possa permettere. Fosse solo per questo, però, Félix Ventura non si discosterebbe dai tanti falsari che in Africa come altrove si arricchiscono con visti e passaporti falsi. Lui vive in Angola, a Luanda, città violenta e irreale, e questo non è un dettaglio da poco.

A questo particolare si deve poi aggiungere che Ventura non è un banale falsario, ma un genealogista specializzato nella costruzione ex-post di intere reti – ovviamente fittizie – di relazioni e scambi identitari e si può dunque comprendere quanto complesse, ma richieste al tempo stesso possano essere certe sue abilità. La sua professione consiste nel costruire, fino nei più piccoli dettagli, la plausibilità di una discendenza eroica o di un antenato illustre a ministri in cerca di autoglorificazione e prestigio, o un ben più modesto e tranquillo curriculum da fotoreporter o viaggiatore, a torturatori e mercanti di esseri umani macchiatisi di colpe non proprio lievi. E la «plausibilità» – come i giorni felici di cui parlava Huxley, rievocato nel romanzo – non è mai eclatante, vive di piccole cose, Ventura lo sa. D’altronde, anche il biglietto da visita con cui attira i suoi clienti parla chiaro: «assicuri ai suoi figli un passato migliore». Perché per i propri figli, si sa, in mancanza di futuro, i padri vogliono sempre un «passato migliore».

Le sue serate, Ventura le trascorre ascoltando musica e guardando i telegiornali. Taglia, sottolinea, incolla, lavora sulle carte senza sosta, fantastica sul suo di padre, ma anche quando è colto da rêverie riesce a concentrarsi sulla più insignificante fra le notizie. Sempre che questa gli appaia in grado di rivelargli o ricordare qualcuno e qualcosa. Ventura sa che le intuizioni sono tutto, in questo mestiere, e precedere o prevenire le intuizioni altrui è un fatto di vitale importanza. Anche per questo il suo archivio è imponente e comprende oltre a ritagli di giornale, libri e videoregistrazioni. Ma il vero archivio è la memoria di Ventura che dalla sua attenta frequentazione e dalla paziente osservazione degli uomini sa che una sola contrazione del viso, un gesto repentino e irregolare, un eccessivo movimento delle palpebre possono svelare più di qualsiasi «grande verità». Lavora su piccoli indizi, ma al contrario di un investigatore o di uno psicologo, lui deve rendere impenetrabile un castello inquisitorio, non decifrarlo.

«La nostra memoria si nutre, in buona parte, di ciò che gli altri ricordano di noi. Tendiamo a ricordare come nostri i ricordi altrui, compresi quelli fittizi». Il lavoro del venditore di passati muove da queste, elementari, considerazioni, ma non tutto può andare sempre per il verso giusto e anche di questo parla, con ironia e stile, il romanzo di Agualusa. Succede quando un misterioso «cliente» cerca di acquistare una nuova, immacolata identità. Qualcosa irrompe improvviso, stravolgendolo, nell’equilibrio irreale fra passato e presente che circonda la casa e la vita di Félix Ventura. Ci sono conti che prima o poi si devono saldare, e allora anche i ricordi, quelli veri, finiscono con lo sporcare ogni cosa col sangue.

[da il manifesto, 31 ottobre 2008]

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