philosophy and social criticism

Visibile/Invisibile: appunti fra estetica e teologia

Andrea Ponso

L’invisibile potrebbe essere declinato come il luogo salvifico della disattenzione. Quando Benjamin parlava dell’attenzione come la forma più alta di preghiera forse, molto probabilmente, si riferiva a questo; o, meglio, questa è la forza residua che scaturisce dal frammento benjaminiano nel nostro tempo, del tutto coerente, credo, con l’idea appunto attivante e semiogenetica nel tempo, che del frammento il pensatore aveva in mente.

Raffaello Sanzio, "Cristo benedicente" (1505, Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia)

Raffaello Sanzio, "Cristo benedicente" (1505, olio su tavola conservato presso la Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia)

In un tempo in cui l’informazione e il “tempo reale” dell’immagine coprono con la loro palta luminosa e accecante, invischiante, qualsiasi spazio, offuscando qualsiasi specchio degno di fornire riflessione, la disattenzione è forse la pratica estetico-teologica più necessaria. Da questo punto di vista, allora, sarebbero certo da ripensare in maniera nuova e al tempo stesso forse antichissima, alcuni passaggi delle Scritture, tra i quali Giovanni 9, 41 e naturalmente 1Cor 13, 12.

Nel campo dell’estetica si dovrebbe procedere nella direzione di un auto-accecamento volontario che potrebbe avere la forma di una ossessione monomaniaca: guardare fino allo sfinimento un unico punto, fino a sprigionarne la nausea della coazione a ripetere, per lasciare poi fluire, liberi dal nostro controllo, tutti i punti che lo eccedono, come la brezza fresca della rosa dei venti; qualcosa che ci liberi dall’essere crocefissi al nostro essere solo noi stessi (Pessoa); lo stesso male del libro di Giobbe è il cambiamento di una modalità troppo ristretta del vedere perché, come sappiamo, il dolore rende fino ad un certo punto ciechi, cioè chiusi e concentrati nella nostra sventura: non una parola, infatti, nelle lamentazioni dell’uomo Giobbe, sulla perdita dei suoi cari, dopo che è stato colpito nelle ossa e nella carne; ma, in un altro piano, è parimenti da questo accecamento che il protagonista in qualche modo vede e comprende la sua posizione, in quel rumore assordante del corpo in distruzione, in quella morsa che lo prende fino al midollo. E cosa vede? Non vede quello che l’esegesi corrente vorrebbe farci vedere: non c’è una svalutazione delle possibili risposte alla tremenda domanda di Giobbe, ma piuttosto un’apertura che tiene conto narrativamente di tutte le possibili risposte, senza tuttavia decidersi per nessuna: l’Altissimo entra in campo con la sua voce per porre fine alla costruzione immobile di un senso, di una spiegazione. Ma “parola di Dio” è e rimane tutto il libro, l’intera narrazione, ogni parola, ogni iod, tragicamente.

Anche l’intervento della Parola attraverso i profeti ha caratteristiche vicine ad un accecamento, magari questa volta legato alla vista: la preparazione della bocca per fare spazio alla profezia è in qualche modo anch’essa una sorta di accecamento, qualcosa che nasce nel punto cieco dello stomaco o della testa, nel punto cieco del tempo, di ciò che ancora non si sa. Il frastuono, lo stridore e il buio dell’Apocalisse di Giovanni, la sua musica, sono una conferma delle pratiche classiche di divinazione dei profeti. [1]

È in questa disattenzione/confusione da fine del mondo che può ancora nascere uno sguardo visibile, solo in questo abbandonarsi al rumore di fondo, sempre più incombente e terribilmente consueto, che possiamo pensare di rivedere l’umano oltre l’umano – non in senso trascendente, poiché tale oltre non è altro che l’umano che si percepisce come non ridotto alla cornice dell’io, del soggetto.

Oppure, per tornare ora all’estetica, di quella ossessione maniaca, di quella monotonia, lasciare sprigionare al suo interno, nella sua forma chiusa e claustrofobica, tutta la grazia, illuminando il nostro sguardo, rendendolo strabico, cioè capace di guardare, dalla stessa direzione, in più direzioni. Ecco la vertigine, ecco il tragico: perché la vertigine non può che nascere dalla percezione dei margini, dei corrimano, delle ringhiere e dei profili. Come da un ritratto umanissimo di Cristo, anche da quello più basso e degradato, tra torsioni e bestemmie disarticolate – da Caravaggio fino a Bacon – può e deve sempre resuscitare quello sguardo inclassificabile, né sentimentale né disumano e giudicante, che troviamo invariabilmente nell’arte altissima delle icone russe: uno sguardo affidabile,[2] che non si impone ma chiede una ancora impensata forma di fiducia.

Anche la teologia ha un suo stile, una bellezza che non riguarda il risultato relativo al bello, quanto piuttosto il poiein relativo ai movimenti del pensiero. Allora, la riflessione sulla divinità, soprattutto in ambito cristiano, deve muoversi risolutamente contro la rappresentazione: deve, come ricorda Pierangelo Sequeri,[3] disfare i fili della stessa rappresentazione del divino, mostrando l’invisibile – un invisibile che non è la metafisica o l’ab-soluto quanto piuttosto, nel nostro tempo, quei tratti di umano o, meglio, di più che umano, che ci mostrano Cristo rompere la presunta e presuntuosa pantomima che spesso il cristianesimo gli ha affibbiato, vale a dire l’eternizzazione, l’evanescenza di un passaggio solo in immagine e non nella carne: Cristo piange alla morte di Lazzaro; Cristo urla come un animale sulla croce, quasi bestemmiando e nello stesso tempo cita/compie la Scrittura entrando fino in fondo nella tradizione anche nel momento estremo e quasi animale dell’urlo mediante la citazione precisa del salmista: ecco, da dentro la tradizione, la Scrittura, il codice dato sa sprigionare l’umano in intensità, senza tuttavia togliere nemmeno una iod; Cristo dice, dopo la resurrezione, ai discepoli, che tornerà per bere con loro; lo stesso Verbo fatto carne non può essere e stare nell’immutabilità/visibilità dei suoi contorni, pure abitandoli kenoticamente fino in fondo:

Se la parola di Dio non è altro che il corpo incarnato di Cristo (Agostino, De sermone Domini in monte, XXX, 3) tale logos sarà sfigurato e leso alla stessa maniera del corpo e del verso stridulo dell’agnello sgozzato e ritto sulle zampe posteriori, perché è un logos vivo come un animale o un vivente animato in modo tale da andare a cavallo o camminare a piedi, come fa l’Amèn, o avere una voce che picchia alla porta a pugni.[4]

Egli è umano anche in questa dis-umanità, in questo smembramento tragico del logos – sono note, e contrastanti le identificazioni di Cristo con Dioniso, ma non è questo lo spazio per una analisi precisa.

La morte di Dio non è una invenzione nietzschiana, è il cristianesimo stesso, se finalmente avremo la forza di depurarlo da certe riduzioni semplicistiche del pensiero greco e platonico in particolare. Il Dio della metafisica muore volontariamente, non è più ab-soluto – e con ogni probabilità non lo è mai stato: basterebbe leggere il linguaggio concretissimo della bibbia ebraica per capirlo senza troppe difficoltà, o pensare all’idea di verità che tale sapienza porta con sé, del tutto lontana da un modello che non sia verificabile nel farsi della storia e del racconto come fedeltà ad una promessa e in cammino.

E in questo struggente contatto con la concretezza del vivente, del bìos, il Figlio non è più come prima: non sarà più come prima; non potrà più liberarsi (e non lo vorrà più) di quello che nella carne è stato: la gioia, la condivisione, il tradimento, il dolore estremo, l’abbandono, la stessa morte; non è un caso che lo stesso Cristo trasfigurato porti ben visibili i segni della sua morte e che inviti addirittura a toccare: non è, questo, un bisogno di prove certe e scientificamente sicure: esso è forse uno struggimento dell’umano in Cristo, un bisogno di condivisione… Cristo poteva mostrare la sua potenza con ben altri “segni” che questi, a ben vedere.

Tutte cose che ormai siamo abituati a vivere solo in immagine, come invisibili o come pellicole virtuali sottilissime, che possono essere appunto trapassate da parte a parte dal nostro sguardo. Ecco allora che l’invisibile, il divino, viene sulla terra per mostrarci oggi quello che per noi è invisibile/invivibile: vale a dire la vita stessa, il corpo, l’essere-con, il dolore, l’antropologico… direi quasi il fisiologico nietzchiano (senza facili esaltazioni vitalistiche che non sono altro che modi rovesciati di cancellare la consistenza dell’essere qui mediante l’oppio non più della religione ma dello spettacolare integrato). È il senso estetico, ma non solo estetico, dell’angelo necessario di Wallace Stevens:[5] ristabilire un contatto materico con l’esistente, senza tuttavia cadere nell’oggettivazione di tanta teoria scientifica malamente declinata.

Estetica e teologia dovrebbero essere un buco nella carne, uno spiffero d’aria, di respiro, letteralmente ruah (spirito, nella giusta traduzione dall’ebraico: qualcosa di concretissimo insomma, che l’alfabeto ebraico appunto ci fa sentire e percepire nel ritmo stesso, affannato, di certi passaggi biblici), che sappia ridare vita a morte reliquie, a placche inerti che si depositano sulla pelle del mondo come una pellicola (reliquie massmediatiche, reliquie dell’informazione e della formazione intellettuale, musei del rimpianto culturale ed estetico, cariatidi pesanti di quello che ciecamente continuiamo a chiamare “politica”); come il soffio/profezia di Ezechiele 37, 1-14 alle ossa inerti del mondo, come il Galateo e gli ossari zanzottiani.

Dunque, non l’invisibile come altro mondo, metafisico, staccato, assoluto: ma piuttosto come paradosso presente di un visibile/vivibile non più vivibile. Come se tutto si fosse capovolto e fosse appunto il visibile stesso a non essere più rintracciabile e percepibile se non come eternizzazione che lorda tutto [6] o come oggetto disponibile della scienza (del resto, ogni scienziato sa bene, se ha il coraggio di chiamarsi tale, che ogni teoria coerente è possibile grazie ad una approssimazione che non è altro che un restringimento del campo del visibile, un mettere nel buio o per lo meno nella penombra, l’immensa e non controllabile molteplicità dell’evento in causa).

Dunque, da questo punto di vista, rimane sempre valida l’ingiunzione di Chauvet: «Chi fa morire la mancanza di Cristo rifà di lui un cadavere».[7] E con questo è salva anche la dottrina cristiana che, giustamente, mantiene pur sempre la differenza tra umano e divino e non produce una melassa indifferenziata dei due attributi e che non è, se rettamente intesa, niente di ideologicamente orientato verso una semplicistica superiorità da accettare fideisticamente senza presupposti.

La redenzione potrebbe essere proprio questo. E la stessa lacerazione portata negli ambiti dell’estetica classica dall’evento della croce di Cristo, ben delineata da Auerbach,[8] non fa che dimostrarlo.

Se mai esistesse una vita eterna in senso cristiano la frase pronunciata da Cristo ai discepoli nel giorno di pentecoste, « Vado avanti a prepararvi un posto», non potrebbe avere che questo significato: vado ad abituare il Padre, la Divinità, all’umano, con tutto il suo peso, con tutta la sua lacerazione e incompiutezza. Con tutta la sua struggente e tragica grazia.

Dopo aver abituato lo stesso umano all’umano.


Note

[1] Cfr. Gianni Garrera, Super Apocalypsim musica, in Apocalisse di Giovanni. Con un saggio sulla musica della fine del mondo, Diabasis, Reggio Emilia 2003.

[2] Cfr. Pierangelo Sequeri, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1996.

[3] Ibid.

[4] Gianni Garrera, Super Apocalypsim musica, cit., p. 73.

[5] Cfr. Wallace Stevens, L’angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, trad. di Gino Scatasta, Coliseum, Milano 1988 e Note verso la finzione suprema, a cura di Nadia Fusini, Arsenale, Venezia 1987.

[6] Andrea Zanzotto Rivolgersi agli ossari in Il Galateo in bosco, Mondadori, Milano 1978. Proprio su questo testo, tra le altre cose, sarebbe interessante un confronto con il passo del profeta Ezechiele.

[7] Louis Marie Chauvet, Simbolo e sacramento. Una rilettura sacramentale dell’esistenza cristiana, trad. di Armido Rizzi, Alberta Rizzi, Leumann, Torino 1990.

[8] Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. di Alberto Romagnoli e Hans Hinterhauser, Einaudi, Torino 1956.

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ISSN:2037-0857

L’invisibile potrebbe essere declinato come il luogo salvifico della disattenzione. Quando Benjamin parlava dell’attenzione come la forma più alta di preghiera forse, molto probabilmente, si riferiva a questo; o, meglio, questa è la forza residua che scaturisce dal frammento benjaminiano nel nostro tempo, del tutto coerente, credo, con l’idea appunto attivante e semiogenetica nel tempo, che del frammento il pensatore aveva in mente.

In un tempo in cui l’informazione e il “tempo reale” dell’immagine coprono con la loro palta luminosa e accecante, invischiante, qualsiasi spazio, offuscando qualsiasi specchio degno di fornire riflessione, la disattenzione è forse la pratica estetico-teologica più necessaria. Da questo punto di vista, allora, sarebbero certo da ripensare in maniera nuova e al tempo stesso forse antichissima, alcuni passaggi delle Scritture, tra i quali Giovanni 9, 41 e naturalmente 1Cor 13, 12.

Nel campo dell’estetica si dovrebbe procedere nella direzione di un auto-accecamento volontario che potrebbe avere la forma di una ossessione monomaniaca: guardare fino allo sfinimento un unico punto, fino a sprigionarne la nausea della coazione a ripetere, per lasciare poi fluire, liberi dal nostro controllo, tutti i punti che lo eccedono, come la brezza fresca della rosa dei venti; qualcosa che ci liberi dall’essere crocefissi al nostro essere solo noi stessi (Pessoa); lo stesso male del libro di Giobbe è il cambiamento di una modalità troppo ristretta del vedere perché, come sappiamo, il dolore rende fino ad un certo punto ciechi, cioè chiusi e concentrati nella nostra sventura: non una parola, infatti, nelle lamentazioni dell’uomo Giobbe, sulla perdita dei suoi cari, dopo che è stato colpito nelle ossa e nella carne; ma, in un altro piano, è parimenti da questo accecamento che il protagonista in qualche modo vede e comprende la sua posizione, in quel rumore assordante del corpo in distruzione, in quella morsa che lo prende fino al midollo. E cosa vede? Non vede quello che l’esegesi corrente vorrebbe farci vedere: non c’è una svalutazione delle possibili risposte alla tremenda domanda di Giobbe, ma piuttosto un’apertura che tiene conto narrativamente di tutte le possibili risposte, senza tuttavia decidersi per nessuna: l’Altissimo entra in campo con la sua voce per porre fine alla costruzione immobile di un senso, di una spiegazione. Ma “parola di Dio” è e rimane tutto il libro, l’intera narrazione, ogni parola, ogni iod, tragicamente.

Anche l’intervento della Parola attraverso i profeti ha caratteristiche vicine ad un accecamento, magari questa volta legato alla vista: la preparazione della bocca per fare spazio alla profezia è in qualche modo anch’essa una sorta di accecamento, qualcosa che nasce nel punto cieco dello stomaco o della testa, nel punto cieco del tempo, di ciò che ancora non si sa. Il frastuono, lo stridore e il buio dell’Apocalisse di Giovanni, la sua musica, sono una conferma delle pratiche classiche di divinazione dei profeti. [1]

È in questa disattenzione/confusione da fine del mondo che può ancora nascere uno sguardo visibile, solo in questo abbandonarsi al rumore di fondo, sempre più incombente e terribilmente consueto, che possiamo pensare di rivedere l’umano oltre l’umano – non in senso trascendente, poiché tale oltre non è altro che l’umano che si percepisce come non ridotto alla cornice dell’io, del soggetto.

Oppure, per tornare ora all’estetica, di quella ossessione maniaca, di quella monotonia, lasciare sprigionare al suo interno, nella sua forma chiusa e claustrofobica, tutta la grazia, illuminando il nostro sguardo, rendendolo strabico, cioè capace di guardare, dalla stessa direzione, in più direzioni. Ecco la vertigine, ecco il tragico: perché la vertigine non può che nascere dalla percezione dei margini, dei corrimano, delle ringhiere e dei profili. Come da un ritratto umanissimo di Cristo, anche da quello più basso e degradato, tra torsioni e bestemmie disarticolate – da Caravaggio fino a Bacon – può e deve sempre resuscitare quello sguardo inclassificabile, né sentimentale né disumano e giudicante, che troviamo invariabilmente nell’arte altissima delle icone russe: uno sguardo affidabile,[2] che non si impone ma chiede una ancora impensata forma di fiducia.

Anche la teologia ha un suo stile, una bellezza che non riguarda il risultato relativo al bello, quanto piuttosto il poiein relativo ai movimenti del pensiero. Allora, la riflessione sulla divinità, soprattutto in ambito cristiano, deve muoversi risolutamente contro la rappresentazione: deve, come ricorda Pierangelo Sequeri,[3] disfare i fili della stessa rappresentazione del divino, mostrando l’invisibile – un invisibile che non è la metafisica o l’ab-soluto quanto piuttosto, nel nostro tempo, quei tratti di umano o, meglio, di più che umano, che ci mostrano Cristo rompere la presunta e presuntuosa pantomima che spesso il cristianesimo gli ha affibbiato, vale a dire l’eternizzazione, l’evanescenza di un passaggio solo in immagine e non nella carne: Cristo piange alla morte di Lazzaro; Cristo urla come un animale sulla croce, quasi bestemmiando e nello stesso tempo cita/compie la Scrittura entrando fino in fondo nella tradizione anche nel momento estremo e quasi animale dell’urlo mediante la citazione precisa del salmista: ecco, da dentro la tradizione, la Scrittura, il codice dato sa sprigionare l’umano in intensità, senza tuttavia togliere nemmeno una iod; Cristo dice, dopo la resurrezione, ai discepoli, che tornerà per bere con loro; lo stesso Verbo fatto carne non può essere e stare nell’immutabilità/visibilità dei suoi contorni, pure abitandoli kenoticamente fino in fondo:

Se la parola di Dio non è altro che il corpo incarnato di Cristo (Agostino, De sermone Domini in monte, XXX, 3) tale logos sarà sfigurato e leso alla stessa maniera del corpo e del verso stridulo dell’agnello sgozzato e ritto sulle zampe posteriori, perché è un logos vivo come un animale o un vivente animato in modo tale da andare a cavallo o camminare a piedi, come fa l’Amèn, o avere una voce che picchia alla porta a pugni.[4]

Egli è umano anche in questa dis-umanità, in questo smembramento tragico del logos – sono note, e contrastanti le identificazioni di Cristo con Dioniso, ma non è questo lo spazio per una analisi precisa.

La morte di Dio non è una invenzione nietzschiana, è il cristianesimo stesso, se finalmente avremo la forza di depurarlo da certe riduzioni semplicistiche del pensiero greco e platonico in particolare. Il Dio della metafisica muore volontariamente, non è più ab-soluto – e con ogni probabilità non lo è mai stato: basterebbe leggere il linguaggio concretissimo della bibbia ebraica per capirlo senza troppe difficoltà, o pensare all’idea di verità che tale sapienza porta con sé, del tutto lontana da un modello che non sia verificabile nel farsi della storia e del racconto come fedeltà ad una promessa e in cammino.

E in questo struggente contatto con la concretezza del vivente, del bìos, il Figlio non è più come prima: non sarà più come prima; non potrà più liberarsi (e non lo vorrà più) di quello che nella carne è stato: la gioia, la condivisione, il tradimento, il dolore estremo, l’abbandono, la stessa morte; non è un caso che lo stesso Cristo trasfigurato porti ben visibili i segni della sua morte e che inviti addirittura a toccare: non è, questo, un bisogno di prove certe e scientificamente sicure: esso è forse uno struggimento dell’umano in Cristo, un bisogno di condivisione… Cristo poteva mostrare la sua potenza con ben altri “segni” che questi, a ben vedere.

Tutte cose che ormai siamo abituati a vivere solo in immagine, come invisibili o come pellicole virtuali sottilissime, che possono essere appunto trapassate da parte a parte dal nostro sguardo. Ecco allora che l’invisibile, il divino, viene sulla terra per mostrarci oggi quello che per noi è invisibile/invivibile: vale a dire la vita stessa, il corpo, l’essere-con, il dolore, l’antropologico… direi quasi il fisiologico nietzchiano (senza facili esaltazioni vitalistiche che non sono altro che modi rovesciati di cancellare la consistenza dell’essere qui mediante l’oppio non più della religione ma dello spettacolare integrato). È il senso estetico, ma non solo estetico, dell’angelo necessario di Wallace Stevens:[5] ristabilire un contatto materico con l’esistente, senza tuttavia cadere nell’oggettivazione di tanta teoria scientifica malamente declinata.

Estetica e teologia dovrebbero essere un buco nella carne, uno spiffero d’aria, di respiro, letteralmente ruah (spirito, nella giusta traduzione dall’ebraico: qualcosa di concretissimo insomma, che l’alfabeto ebraico appunto ci fa sentire e percepire nel ritmo stesso, affannato, di certi passaggi biblici), che sappia ridare vita a morte reliquie, a placche inerti che si depositano sulla pelle del mondo come una pellicola (reliquie massmediatiche, reliquie dell’informazione e della formazione intellettuale, musei del rimpianto culturale ed estetico, cariatidi pesanti di quello che ciecamente continuiamo a chiamare “politica”); come il soffio/profezia di Ezechiele 37, 1-14 alle ossa inerti del mondo, come il Galateo e gli ossari zanzottiani.

Dunque, non l’invisibile come altro mondo, metafisico, staccato, assoluto: ma piuttosto come paradosso presente di un visibile/vivibile non più vivibile. Come se tutto si fosse capovolto e fosse appunto il visibile stesso a non essere più rintracciabile e percepibile se non come eternizzazione che lorda tutto [6] o come oggetto disponibile della scienza (del resto, ogni scienziato sa bene, se ha il coraggio di chiamarsi tale, che ogni teoria coerente è possibile grazie ad una approssimazione che non è altro che un restringimento del campo del visibile, un mettere nel buio o per lo meno nella penombra, l’immensa e non controllabile molteplicità dell’evento in causa).

Dunque, da questo punto di vista, rimane sempre valida l’ingiunzione di Chauvet: «Chi fa morire la mancanza di Cristo rifà di lui un cadavere».[7] E con questo è salva anche la dottrina cristiana che, giustamente, mantiene pur sempre la differenza tra umano e divino e non produce una melassa indifferenziata dei due attributi e che non è, se rettamente intesa, niente di ideologicamente orientato verso una semplicistica superiorità da accettare fideisticamente senza presupposti.

La redenzione potrebbe essere proprio questo. E la stessa lacerazione portata negli ambiti dell’estetica classica dall’evento della croce di Cristo, ben delineata da Auerbach,[8] non fa che dimostrarlo.

Se mai esistesse una vita eterna in senso cristiano la frase pronunciata da Cristo ai discepoli nel giorno di pentecoste, “Vado avanti a prepararvi un posto”, non potrebbe avere che questo significato: vado ad abituare il Padre, la Divinità, all’umano, con tutto il suo peso, con tutta la sua lacerazione e incompiutezza. Con tutta la sua struggente e tragica grazia.

Dopo aver abituato lo stesso umano all’umano.

Note

[1] Cfr. Gianni Garrera, Super Apocalypsim musica, in Apocalisse di Giovanni. Con un saggio sulla musica della fine del mondo, Diabasis, Reggio Emilia 2003.

[2] Cfr. Pierangelo Sequeri, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale, Queriniana, Brescia 1996.

[3] Ibid.

[4] Gianni Garrera, Super Apocalypsim musica, cit., p. 73.

[5] Cfr. Wallace Stevens, L’angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, trad. di Gino Scatasta, Coliseum, Milano 1988 e Note verso la finzione suprema, a cura di Nadia Fusini, Arsenale, Venezia 1987.

[6] Andrea Zanzotto Rivolgersi agli ossari in Il Galateo in bosco, Mondadori, Milano 1978. Proprio su questo testo, tra le altre cose, sarebbe interessante un confronto con il passo del profeta Ezechiele.

[7] Louis Marie Chauvet, Simbolo e sacramento. Una rilettura sacramentale dell’esistenza cristiana, trad. di Armido Rizzi, Alberta Rizzi, Leumann, Torino 1990.

[8] Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. di Alberto Romagnoli e Hans Hinterhauser, Einaudi, Torino 1956.

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