philosophy and social criticism

Volevo parlare la bella lingua del mio secolo

Paolo Spaziani

Tutto nasce o sorge dalla cosiddetta poesia moderna, cent’anni di poesia moderna mi hanno condotto fino qui, dice Debord in La Vraie Scission dans L’Internationale.

La poesia moderna nasce più o meno, lasciando perdere pedanterie storiografiche, con la Rivoluzione Industriale, cioè nel momento in cui la borghesia al suo apogeo delegittima, declassa l’arte, non ne ha più bisogno per autorappresentarsi. Baudelaire scriverà che l’aureola del poeta è caduta nel fango. La poesia non riflette più, non è più una valvola di sfogo di una certa società ma corre da sola la sua corsa, come una potenza astratta che verifica o sperimenta certe ipotesi. I poeti sono definitivamente dei declassati, sganciati fuori dal processo produttivo.

La poesia moderna, è facile verificarlo, è stata erranza, sfrenatezza dei sensi, elaborazione di una condotta sperimentale che evade tutte le richieste di una società produttiva, ricerca di altri stati di coscienza tramite droghe o altri procedimenti, dandysmo antifunzionale e eversivo, liberazione dell’estetica a scapito della funzione (mi vengono in mente le notazioni di Agamben sull’annodamento della cravatta in Brummel), scoperta della dimensione della strada e quindi deriva senza centro, agnizione della miseria terrificante della dimensione urbana e nello stesso tempo delle sue enormi possibilità di gioco, di reinvenzione, rifiuto del lavoro (il “j’ai horreur de tous les métiers” rimbaldiano). La poesia moderna è stata da subito anche alleata dei grandi rivolgimenti sociali (Baudelaire fa il ‘48, Rimbaud e Villiers de L’Isle-Adam sono comunardi). Rifiuto della realtà positiva e positivista come vengono poste dal Capitale, promessa di una reinvenzione assoluta del principio di Realtà e contemporaneamente liquidazione delle vecchie metafisiche. Alla fine tutto questo produce non solo una simbolica ma un vero e proprio immaginario, sempre più sarà una minaccia sociale ben precisa, difficilmente recuperabile.

La borghesia, il Capitale, liquida i vecchi tempi ciclici delle società precedenti soltanto per poi bloccare la vita in nuovo pseudo ciclo astratto basato sul lavoro e sulle istanze produttive che divengono sempre più insopportabili, offre loisirs che costano e questo è già la partenza dello Spettacolo.

La poesia invece scopre che il tempo è irrevocabile, non va in nessun altro posto che quello dell’invenzione assoluta, libera una gratuità.

E’ un percorso di trasgressione dentro il solco del logos delle istituzioni poetiche che alla fine lascerà voragini, posso rammentare Ce qu’on dit au poète à propos de fleurs di Rimbaud, Les Illuminations o Un Coup de Dés Jamais n’Abolira l’Hazard oppure procedere in linea retta verso Poésies I e II?

Comprensibile che questo percorso tocchi anche una punta di massima nell’autonegazione per inverarsi: mantenersi nella provincia separata nell’arte è un ritardo consolatorio, la poesia deve investire la realtà stessa e modificarla con i suoi poteri. Maintenant je peux dire que l’art est une sottise dirà Rimbaud, La poésie doit avoir pour but la vérité pratique, dirà Lautréamont.

E’ questa la verità in pillole sulla poesia moderna, i Poètes Maudits verlainiani sono Poètes absolus, absolus davvero perché sciolti da qualsiasi vincolo, la poesia davvero si pone come una macroindagine senza formule sulle possibilità della vita, su quello che potrebbe essere.

Si tratta ancora di individui isolati, erranti, con consapevolezze critico-estetiche fantascientifiche, in anticipo immane sul loro presente (anticipo che permane anche nel futuro), impubblicati e dispersi.

Saranno le avanguardie del ‘900 a chiarificare meglio certi nessi, a renderli programmatici, a canalizzare le eversioni, puntualizzare le alleanze. A questo punto (Debord data il procedere dello Spettacolo dagli anni ’20) si tratta ancora di piccole élites ma con una certa capacità reale di estendere influenze. Sto parlando, obviously, del Dadaismo, del Surrealismo, del modo di organizzare certe esperienze tipico della prima metà del Novecento.

Ed è qui che entra in gioco Debord che negli anni ’50 riprende questo filo, le prassi iniziali del suo jeu portano le premesse della poesia e dell’arte moderna al termine, la poesia d’ora in avanti dovrà uscire fuori dalla sua provincia separata e modificare il reale, sarà la Storia un immane romanzo in versi da comporre, con pretese smisurate però, le stesse pretese che può avere solo ed esclusivamente la poesia. L’arte esce definitivamente dalla sua sede e mette in gioco i suoi procedimenti per distruggere definitivamente il Principio di Realtà nel cuore del reale stesso. Questo diviene possibile, ed è l’avventura dell’I.S., con un vecchio alleato che è l’hegelo-marxismo o con quelle correnti di contestazione sociali che datano quanto la poesia moderna e vengono dalla stessa congiuntura storica.

Non si potrà certo pensare che quello di Debord sia stato un marxismo square (nient’affatto la teodicea meccanicistico-utilitaria di certi militants autoritari da lui molto derisi) ma piuttosto mossa su scacchiera, Krieg e nient’altro, la teoria si autodissolve nell’adempiere la congiuntura (Das Kapital analizza ma Debord cerca un oltre, outrance-azzardo istantaneo che rompe il continuo, riprende invece abbondantemente l’umorismo di quelle pagine, è lo stile stesso di Marx che permuta e ibrida, si amalgama bene al tono di predizione della poesia moderna), quello che conta è fare la mossa meno giustificata e dunque quella che altera veramente le configurazioni della probabilità, decisa spinta al baratro, cambiare quattro carte prima di un rilancio e scorrere una scala reale tra le dita, ma in piena cognizione dei paradossi della logica, la logica come estetica addirittura, una logica qualitativa: l’arma teorica a lunga gittata viene smontata come un carillon, ne vengono isolate le componenti più efficaci di analisi immediata, e infine ne viene estinto il tradizionale andamento teologico-spiraloideo, ateleologicamente esplode di botto, senza residui, come insubordinazione totale e diretta (l’attacco libertario di La Vraie Scission).

Possibile allora che il Debord théoricien che piace tanto agli intellettuali non sia mai esistito a meno di pensare la teoria radicale come incessante autoestinguersi e negarsi, confutazione permanente dell’esistente come spettro di frequenza di pura negatività che si irradia su tutto (si vedrà nitidamente solo a luce spenta).

Debord destruttura gli scacchi e inventa nuovi giochi e del marxismo fa un uso analogo alla poesia moderna, davvero cadavres exquis del suo “teatro” (così nel gergo dei chirurghi, viene in mente irresistibilmente Mme Bistouri), entrambi rilanciati oltre i loro limiti, modifica chimicamente il marxismo fino ad avere una combustione immediata, amplia il raggio d’azione della poesia moderna, poesia come strategia sconfinata di ogni processo a venire.

La puntata su cui giocherà per i 15 anni dell’I.S. sarà che questo tempo irrevocabile che la poesia moderna scopre nell’erranza possa coincidere con il divenire storico marxiano, questa è la grande scommessa, questo si verificherà negli anni immediatamente successivi al ’68, fino a circa la prima metà dei Settanta.

Uno dei grande gesti della poesia moderna è quello di riscrivere il presente storico da un’ottica aliena, antiretorica e visionaria: gli edifici, la moda, i loisirs visti da un’angolazione liquefacente, corrosiva, non tanto parodistica ma sotto il segno del fugace. Quello che la società vende capziosamente come eterno o definitivo la poesia se lo annette come transeunte, come segnacolo di ebbrezza e rovina. Debord cercherà di collegare questo gesto onirico alla logica del feticcio marxiano. Altra scommessa politico-poetica che porterà ai tre film che vanno dal ’73 al ’78.

Noi abbiamo dato solo voce a idee che sono nella testa di tutti, dice l’I.S. Abbiamo davanti una società capitalista quindi sacrificale, il sacrificio delle vite come nelle società precedenti sull’altare della produzione. Società che, contemporaneamente obnubila la vista con la parata teocratica di immagini di bonheur che si collocano in un empireo irraggiungibile, lo Spettacolo è l’ultimo esito della Metafisica occidentale, separa la vita dalla vita, defrauda la vita rendendola immagine irraggiungibile, il mondo delle merci è l’ultima metamorfosi religiosa, si potrebbe dire.

Ed è qui che la prognosi della poesia moderna e quella del marxismo collidono, per un istante solo però. Nella Vraie Scission, nel ’72, Debord annuncia la fine dell’I.S. perché non ci può più essere una teoria separata dalla prassi, la diagnosi era solo per i prodromi della rivolta, dopo Mai ’68 si tratta ormai di impadronirsi direttamente della vita ed autogestirla direttamente. E quindi anche la filosofia viene sterminata nella vita diretta, muore come la poesia nel momento stesso in cui inventa direttamente la realtà in una scala 1:1, abbattere ogni forma di potere, ogni forma di separazione perché l’esistenza di un pensiero che ancora anticipa o giudica il movimento sarebbe ancora separazione, ritardo. E’ il fuoco che brucia anche i presupposti che l’hanno scatenato, se li perde letteralmente per strada mentre continua a ardere, un’anarchìa che finalmente elude non solo l’archìa ma anche ogni archè che la dovrebbe giustificare, iato davvero in cui anche il domani è trapassato, remoto.

Debord citerà la famosa frase di Lautréamont “Je veux que ma poésie puisse être lue par une jeune fille de quatorze ans” , questa frase si è inverata, dirà, perché quello che diciamo tutti sono in grado di capirlo, vogliamo una libertà totale.

puissance, justice, histoire, à bas!” diceva Rimbaud cento anni prima e improvvisamente è diventato vero, l’ateleologia della poesia moderna sembra improvvisamente aver sterminato la Storia che è diventata vita diretta, la poesia corre le strade. Quello che era chiamato l’accesso al Nord-ovest della vera vita è diventato un fatto collettivo.

Antiche profezie trovano compimento: le idee della poesia moderna da retaggio di pochi erranti, si sono fatte avanguardia e poi presa della città, il ’68 è stato libro vivente dei poemi e l’occupazione della Sorbonne, luogo feticcio del sapere, il suo sonetto più caustico; la profezia di Debord al momento di farsi esecutore testamentario di un certo lascito si è realizzata, un altro Tempo che viene da lontano è riuscito a far svoltare la Storia.

La Vraie Scission dans l’Internationale è un testo-proclama in cui lo spettro della poesia moderna apparentemente abbandonata è più presente che mai. Da Baudelaire in avanti l’artista è sempre colui che proclama e stende programmi, non è certo un’artista intimista ma è sempre colui che declama davanti a un pubblico che è l’intera epoca storica nel suo complesso, persino il mite Mallarmé o l’iniziatico Stefan George sono pienamente nel rifiuto del continuum storico-contingente, illimitata è la pretesa di uno sganciamento della poesia dal funzionale, la poesia sospende il referente e libera la gratuità facendo fuori qualsiasi aspetto operativo della langue (su questi aspetti di Mallarmé la stupefacente ricognizione, le chirurgie estetiche di Stefano Agosti). Questa programmaticità è evidente per Rimbaud o Lautréamont, per loro, al contrario, la poesia deve essere didattica visionaria o prolegomeni a un cambiamento radicale. Ma quello che intendo dimostrare è il rapporto assolutamente storico, per così dire in faccia ai tutti e al tutto che hanno questi artisti. E non tanto perché debbano farsi ascoltare, come possono pensare moralisti e reazionari ma perché l’artista sa, dalla Rivoluzione Industriale in avanti, che o parla all’altezza della propria epoca, Lettres du Voyant o Manifeste du Surréalisme, come da un palcoscenico eversivo, oppure sparisce e diventa un impiegato o un passacarte o un emarginato che è del tutto più probabile, lasciato solo davanti alla cupezza delle masse anonime, ostili e divise come le vuole il Capitale, inevitabilmente ottuse nell’attesa che gli operai diventino dialettici come sta accadendo infatti in quel ’72 dove scioperi selvaggi mettono in crisi la Francia e anche l’Italia. Quindi l’artista moderno è sempre stato influenzato dal teatro come luogo in cui non si viene ascoltati o si riflette qualcosa ma dove si enuncia un’alterità inoppugnabile, è il luogo di una produzione di un’io che non è certo psicobiografìa ma invenzione lirica ovvero suprema finzione eversiva (qualcosa che veicola esigenze ben più stringenti che non le solite idiozie anagrafiche o i giochi di ruolo). Mais ce moi est absolument hors être et donc hors notion, hors conception direbbe un altro poeta moderno ovvero Antonin Artaud, che conosceva dunque benissimo questi presupposti sia del teatro che della poesia moderna, è un io (corporeo e/o fantasmatico) che agisce finalmente nel tempo ineffettuale e dunque qualitativo, appunto Irrevocabile. Io che enuncia un altro Principio di Realtà come contraltare a una società mercantile che ritira ogni identità che non sia fungibile e produttiva. Il poeta capisce con largo anticipo che chi è fuori dalla produzione è morto o molto peggio, è come non fosse mai esistito. L’Industria ruba da subito voce all’artista, caso quasi legislativo: Edison scippa il fonografo a Charles Cros, poeta.

L’Io (Je est un autre) è la creazione del poeta come contrattacco, come singolarità assoluta, ed è evidentemente un “gesto” rivoluzionario perché infrange anche i giochi di ruolo dell’immaginario societario, giocati sulla retribuzione delle identità garantite.

Molti protagonisti affermano che nel maggio anche i cretini sembravano essere diventati intelligenti ma appunto Debord regola i conti con vecchi amici nel frattempo diventati cretini e che si cullano ancora delle teorie di qualche anno prima. L’entrata nella nuova decade è sconvolgente, crisi petrolifere mettono in ginocchio l’assetto del vecchio Capitale che per la prima volta non ha il triplo presupposto di avere materie prime illimitate, possibilità di manodopera a basso costo e mano libera nei licenziamenti. La rivolta operaia comincia a crescere, crescono i movimenti di autogestione in generale, si registra un immaginario di massa basato sul sabotaggio e sul rifiuto del lavoro “jamais nous ne travaillerons, ô flots de feux!” direbbe Rimbaud.

La Société du Spectacle del ’73 è altra cosa rispetto al libro del ‘67, l’operazione politica è completamente diversa. Non è più tempo per le teorie ma queste vanno confrontate con le immagini del presente, entrambe devono bruciare all’aria del tempo storico, è qui che entra in gioco davvero l’altro gesto fondamentale dell’arte moderna, si confronta apocalitticamente con il gusto dell’epoca e la rivela.

Credo che la congiuntura degli anni ’70 sia decisiva per un problema che comincia farsi strada, la bellezza delle pin-up e qui voglio davvero essere completamente frivolo per essere completamente serio, anzi pressoché tragico.

Cantare l’effimero, l’epocale è stato sempre un gesto dell’arte moderna, Baudelaire e la passante che scorre per un istante sui grandi boulevards, come irrevocabilità pura, immagine di bonheur che non tornerà, una malinconia che si oppone alle magnifiche sorti e progressive che promuovono fungibilità e i ripetitivi pseudo-cicli di sopravvivenza. Baudelaire teorizza in uno dei suoi testi straordinari (“Il a cherchè partout la beauté passagère, fugace, de la vie présente, le caractère de ce que le lecteur nous a permis d’appeler la modernité. Souvent bizarre, violent, excessif, mais toujours poétique.”) che è Le Peintre de la Vie Moderne questo rapporto fondamentale tra effimero e poesia, è un saggio su Costantin Guys che faceva croquis sui passanti, sui landò, sulle dinamiche degli oggetti, sulla bellezza delle dame d’aujourd’hui-jadis, sull’elemento variabile e incostante dell’elemento storico, perché la moda è strettamente correlata con il fuggevole, con la morte (sorella della morte avrebbe detto Leopardi), con l’Irrevocabile. E, se disvelata, con il gusto preciso e segreto del presente storico. E sulla sconfinata ilarità che parla in termini di Ultimismo di taglio e sul bordo quindi del lugubre estatico, nel 1972 Jean-Jacques Schul potrà scrivere: “…le dernier film: dans ce mot, la morte et la mode se joignent: dernier en date mais aussi y en aura-t-il un autre? La mort est la plus moderne des choses..”l

E’ un rapporto critico-poetico che la poesia moderna ha sempre stretto con la sua epoca dove l’elemento storico viene percepito in una maniera allucinatoria, grave di intendimenti non mai pienamente determinabili. Come Rimbaud che arriva a Londra nei Settanta del secolo precedente nell’avveniristico quartiere dei Docks e scrive Villes, la visione dell’Acropole officielle. Sarà sistematico nelle migliori pagine del Surrealismo, Nadja di Breton oppure il miglior Aragon, un libro chiave come Le Paysan de Paris e della meraviglia ritrovata e iperbolica con le odi alle pompe di benzina nei Roaring Twenties (non quello istupidito ideologicamente che poi si è messo a cantare per davvero le acciaierie staliniane). Senza contare gli exploits segreti e perversi, di Miss Satin alias Marguerite de Ponty alias Stéphane Mallarmé, che sulle pagine de La Dernière Mode, realizza e radicalizza la quest del libro assoluto nell’evemenzialità più svanita (cfr. qui le indagini di Roger Dragonetti, Un Fantôme dans le Kiosque).

E’ un rapporto ambiguo, complesso, come due forme di scrivere la Storia che si incrocino sullo stesso terreno e per ottenere esiti diversi, da un lato una funzionalità schiacciante, il lavoro e la merce, dall’altro la gratuità liberata, l’irrevocabile, la jouissance di questo irrevocabile che si dilata a dimensione tragico-estatica e poi anche oltre, diventa ebbrezza sconvolgente, del tutto ineffettuale.

Ma l’indicazione magica che mette in atto il fenomeno è che questo tempo irreversibile o irrevocabile una volta sganciato dall’asse societario scopre un’altra forma di reversibilità, il massimo di immediatezza e il massimo di sapere, pensiero che si è saputo sino al silenzio, massimo di impersonalità e unicità di esperienza, è questo il senso del palindromico In girum imus nocte et consumimur igni, l’accesso al tempo irrevocabile, al tempo di rovina dell’identità fornita dal Capitale consente anche lo sterminio per reversibilità di tutti i contrari-diadi su cui si fonda l’identità fornita d’ordinanza al soggetto, al cosiddetto buon cittadino del Capitale.

Il poeta moderno enuclea il segreto della moda, la connivenza con il passeggero, la morte, ma così facendo emancipa il segno, non è più vessillo di merce o ideologia ma oggetto gratuito, quindi estetico, in un divenire sganciato da ogni funzionalità. E’ questo rapporto con la morte che sgancia il poeta moderno dal ricatto societario, è proprio del vivente in quanto storico incontrare la morte e dunque una malinconia deflagrante che distrugge tutto davanti a sé, sfuggendo così al ricatto dalle retoriche pseudo-cicliche, irrompendo per forza di rottura in un Tempo liberato. E grazie alla cognizione-agnizione della morte, oltrepassare la morte stessa (la muerte que mata la muerte avrebbe detto Juan de la Cruz) nella dimensione qualitativa di un nuovo tempo dove finalmente la singolarità può vivere fuori dalla servitù della retorica della sopravvivenza positiva che altro non è se non morte in vita. E’ l’incontro haschischino con la morte che sgancia Baudelaire da una dimensione funzionale, è la rovina che gli fa incontrare oggetti e forme di poesia che poi sono lo chic assoluto della dimensione della poesia moderna, tutto il décor che sappiamo oggi e che era in situazione. (Proprio la categoria dello chic, come facilità e abilità triviale o di convenzione, che Baudelaire ancora dileggerà come monstruosité moderne nel Salon du 1846 andrà a innervare Les Fleurs, Baudelaire vi attingerà a piene mani, trasvalutando follemente questa facilità come dopo forse non sarà più possibile, suprema leggerezza).

E’ la rovina del tempo e dell’identità che precipita il tempo degli incontri in una dimensione qualitativa, questa galleria di affascinanti ratés. Nel momento dell’ineffettuabilità assoluta c’è l’invenzione di un’estetica che si può abitare con geniale spensieratezza, come anche il disastro, è questo il micidiale canzonettismo di Baudelaire. Come Rimbaud forse scopre per intero la logica del gusto e dello stile dell’estetica moderna in Alchimie du Verbe, con il suo efferatissimo gusto voyou. Cosa esiste di più eversivo che la scoperta del pianeta dell’inconsequenzialità?

Il richiamo alla morte non ha niente a che vedere con il delirio suicida-omicida fascista (mai finito purtroppo, presente anche nelle “democrazie” del consenso obbligato) ma è metafora vera del Tempo dell’Irrevocabile che si sgancia dai cicli della sopravvivenza o della morte-in-vita dell’immaginario ciclico capitalista. Questa fine della sopravvivenza è il Tempo finalmente liberato dai cardini, inconseguente, ma dove ogni decisione diventa possibile, la poesia, la gioia rivoluzionaria.

Lautréamont lo ha detto molto bene: “Il faut savoir arracher des beautés littéraires jusque dans le sein de la mort; mais les beautés n’appartiendront plus à la mort. La mort n’est ici que la cause occasionelle. Ce n’est pas le moyen, c’est le but, qui n’est pas elle.”

L’epoca ruba i desideri e li congela in rappresentazioni vuote, vendute come definitive, il poeta moderno si impossessa di questi vuoti a perdere, li immette operativamente nel flusso, le rappresentazioni vengono investite dal tempo, tornano vive e dunque moriture, fugaci. Da rappresentazione inerte di un oggi eterno tornano ad essere detriti che riflettono oggettivamente un tempo in divenire, allegorie di rovina e liberazione. Da riflesso della vita mancante della morte tornano spettralmente in vita per dichiararsi catastrofe estatica e irrevocabile.

I film di Debord si costruiranno quindi sulla logica di questo un doppio furto (“les exploiteurs doivent être à leur fois exploités). Appunto sulla composizione della Société du Spectacle:

Si très souvent, au lieu de pollution-guerre-urbanisme-affreux encombrement, on avait en images la beauté de ce monde: les filles, les décors modernes. Lle commentaire théorique serait parfait là. Avoir tout ce qu’il y a de beau dans les films “spectaculaires” par exemple télévisés (émissions sur la mode, sur les vedettes), danse, mouvements de camera comme, le 31 décembre 1971, sur Marie Laforêt, de dos et de profil”

Per la composizione dei film Debord non utilizza mai immagini grottesche, autosatiriche o che contengano in sé un elemento patentemente comico ma immagini discrete, mai derise direttamente dal commento, epocalmente tipiche, sexy come queste baigneuses che sorgono dalle onde.

La società spettacolare dei Settanta nella sua tarda modernità è ancora una società che crede esasperatamente alle sue immagini, declinano in chiave glam una liberazione del costume che infatti esiste e preme minacciosa dal basso, la moda forse per l’ultima volta lancia segnali pericolosi, ultimativi, presi alla lettera, iperrealizzati, sono la scia della catastrofe, l’ultima moda, la moda ultima.

È una società in cui, come già Debord scrive nel ’67 ,“il vero è un momento del falso”, è dai tempi dell’urbanismo unitario che parla dell’esproprio dei segni, che dalla loro volatilità immateriale devono essere riportati non al funzionale-fungibile dello scambio ma all’uso irrevocabile, alla loro dimensione dunque mortale di godimento, rimessi in circolazione, i segni come desideri di nuovo in libertà, non rappresentativi di una Storia, ma storici. Sono due concezioni dell’effimero che si scontrano, lo scambio e l’uso.

Questo sarà il cinema che farà Debord: volutamente cristallizzato e geometrizzato in una solitudine da teca intoccabile mimando un divenire storico con procedimenti estetici assolutamente contrari, carrellate mai così ottiche, in sberleffo planimetrico, sulle affiches degli schiavi dello Spettacolo, evoluzioni in macrofoto su mappe di Parigi e Firenze che retrogradano a grafismi negativi, macchie astraenti, pittoricismi perimetrali che procedono da noluntas espressiva, scacchiere, istantanee, doppiate per sempre dall’inesorabilità lontanissima della voce che elide ogni pathos nel ritmo e quindi, senza paradossi, lo innalza, elissi entomologizzante che divora il reperto; con immagini rubate compone un ritmo astratto che scorre tra le immagini, un flusso acquatico, tra Shelley e Sternberg, flusso che non è solo critica ma emozione gioioso-malinconica, epicedio-catastrofe o apocalisse di un Nuovo, il famoso Nuovo baudelairiano da ricercare nel gouffre.

Le stesse immagini spettacolari risentono già di una crisi, mostrano quasi un algore caratteristico del periodo di grandi scontri, i Settanta guardano alla moda della Grande Depressione, le assassine sensuali e le aderenze dei ’40 e poi verso un raffinato bizarre che percorre già da tempo le strade prima di ogni accordo prestabilito, i dettagli proliferano sull’insieme quasi in un moto pulsionale, le linee rette compongono asimmetrie volumetriche, la diagonale infila la figura in un dinamismo eccentrico, circola la metafora della grande catastrofe che è anche l’orgasmo, l’orgasmo uccide il Capitale (“ci deve essere qualcosa di più in alto delle Corporations!” “C’è l’orgasmo..”- extrait di un romanzo).

L’asimmetria è l’ultima parola della moda come quella della musica è l’alea che dopo Darmstadt viaggia a grandi passi verso quelle composizioni grafiche di Stockhausen o Donatoni dove i segni diagrafici cercano quasi di richiamare una musica che li abiti piuttosto che produrla.

Insisto su questo punto perché mi sembra fondamentale, Barthes e i miti d’oggi, la semiologia della moda o Baudrillard, tutti si interrogano, Pasolini scrive quasi esclusivamente sul costume, atterrito, sembra quasi un nuovo Concilio di Nicea psichedelico sul destino delle immagini, le immagini al loro apogeo che attendono quale iconoclastia le sterminerà.

Pasolini ad esempio è ossessionato dal flusso d’immagini, va nelle strade e si rende conto che a livello di segni non è più in grado di distinguere l’operaio e il borghese ma questo non è appunto il segno della morte della società di classe ma la sua liquidazione parodica, dirà così. Ci sono un paio di foto che dicono di lui molto di più di certi interventi: a Venezia ’68 dove parla intervistato mentre contesta la Biennale circondato da serissimi, provincialissimi highbrows, dove è costretto al ruolo di intellettuale di dissenso, vestito all’ultima moda Sixties molto solare e ottimista, con una polo a losanghe e pantaloni a tubo sulle scarpe ma davanti al microfono prevale una sorta di ansiosa stanchezza dei tratti, l’épuisement solerte di chi deve farsi ascoltare a tutti i costi.

E poi foto del ’75 già nel vento drammatico di un’epoca in cui lo scontro si fa per la vita e la morte, già vestito con la cattiveria della nuova moda giovanile, cuoio e occhiali e svasato-avvitato davanti alla sua spider in aperta campagna, come se improvvisamente trovasse nella circostanza un impatto frontale con l’epoca e ritrovasse una sorta di sinistro fulgore, un’indipendenza di giudizio che è tutta nell’immagine.

Infatti che senso hanno le foto enigmatiche di Chia, lo charme tetro, ma charme comunque, se non che Pasolini sembra dire dov’è il mio corpo non c’è il Capitale?

Pasolini dichiara davvero un dissenso, il dissenso di chi sceglie la propria morte e dunque la propria vita nel divenire storico e accede a un qualitativo che non è più mediato da un pensiero separato, un pensiero che se pure si autocritica resta nella cerchia dello Spettacolo più avanzato, è, e si vede nelle immagini, una solitudine quella di Chia in cui l’intuizione si è fatta presenza radicale, criminale, è un’immagine di poesia.

La grand style de l’époque est toujours dans ce qui est orienté par la nécessité évidente et secrète de la révolution.”

E’ come se ci fossero due immagini agoniche, ambedue storiche, l’immagine è sempre irrevocabilmente storica (è questa la lezione dell’amato Welles di The magnificent Amberson), le prime conflagrano in un qualitativo vanamente mimato perché sono depurate della morte e quindi prive di vita, le altre quelle che si desidererebbero eterne perché mediate dal sentimento dell’amore-morte. Come una doppia irrevocabilità che corre affiancata.

Nella Société c’è la straordinaria sequenza dei nudi di Alice Debord come sequenza di una sfrenatezza rivoluzionaria, fotogramma in pp di Alice Debord che ride irriverente, una sorta di colbacco o cappuccio delle grandi nevi le incornicia l’ovale, incontra per qualche secondo in più la musica di Corrette, si delinea: le foto di Debord hanno una loro caratteristica precisa nel fissare il Tempo, nella duplice accezione del verbo, il tempo dinamico-musicale è quasi un inavvertito, una dimensione di apparente casualità, una sprezzatura-nonchalance nel prelevare un’immagine dall’immediatamente vissuto, sembra quasi che in questo vissuto ci sia stata una grande dilatazione, molto tempo, tutto il tempo, tanto che non ci sia neppure urgenza, un flusso che destituisce anche la retorica dell’istante irripetibile o decisivo, realizzando per così dire un’irripetibilità senza fatica, antimetafisica. E questa immagine si giustappone però, immagine di vita-morte, a quelle vere-false dello spettacolo, vi aderisce senza strappi, nello stesso corso. I riflessi del tempo vissuto emergono dal vortice, brillano di sorte propria, per un attimo, sospendono di fosforescenza meteorica un corso inarrestabile ma alla fine diventano esteticamente solidali con immagini che vengono invece da sedi inerti e seriali, immagini di baigneuses che escono da onde cicliche, anche loro fotogrammi captati a tempo, cioè prelevati con una sorta di svagatezza-aisance dal loro fluire periodico, anche loro irriverenti, incantatorie nel momento che sono bagnate dalla malinconia del film.

E foto su foto, modernariato o no, posso trovare (fuori quadro) la collezione autunno-inverno di Yves Saint Laurent del ’73, con mannequins come Signore delle Steppe con visoni e colbacchi o zarine crudeli di Masoch, probabilmente in costellazione isomorfica alla crisi energetica.

Schul, amico di YSL, stilerà così la prognosi di maggio ’68 (in un libro, Rose Poussière che sotto il travestimento del pop-collage, discende legittimamente dagli incunaboli baudelairiani): (in riferimento al guardaroba hip-oltraggioso degli Stones)… la bourgeoisie ne s’y est pas trompé, elle a réagi à tout cela plus violemment que pour une simple mode culturelle nouvelle. Tous les accessoires – comme le maquillage blanc des cover-girls de l’hiver 66 – prophétisent en points tirés une lutte violente, sont, d’une certaine façon déjà une lutte violente. L’histoire a des preludes qui n’ont l’air de rien du tout.. En mai 68, afin d’éviter de pleurer à cause des gaz, un tract du mouvement du 22 mars recommanda de se mettre autour des yeux du bicarbonate de soude dilué dans un peu d’eau: cela fit exactement le meme maquillage qu’aux cover-girls de l’année d’avant.

Più avanti (2001) lo stesso Schul in un’intervista a Ligne de Risque dirà “La mode, contrairement au préjugé courant, n’a rien à faire avec la “la société du spectacle”, mais aujourd’hui la dite société a absorbé la mode, comme elle a absorbé la littérature..

Un annuario d’astrofisica (1974): “ I quasar sono sorgenti intensissime di radioonde… la loro velocità di allontanamento dalla terra viene calcolata dalla misura del cosiddetto red-shift ottico, ovvero lo spostamento verso il rosso delle righe dello spettro di emissione… è analogo dell’effetto Doppler acustico: è noto che quando un ascoltatore fermo riceve un segnale acustico da parte di una sorgente, il segnale viene captato con frequenza minore; allo stesso modo un segnale luminoso emesso da una sorgente che si sta allontanando dalla terra appare a un osservatore terrestre con una frequenza minore… dunque con una lunghezza d’onda maggiore, ovvero spostata verso il colore rosso dello spettro visibile, quello di maggior lunghezza d’onda (circa 7000 angström)”

Le temps payé ne revient plus

La jeunesse meurt de temps perdu

(Pour en finir avec le travail)

Non c’è immagine di vita vissuta e storica che non sia doppiata da quella vero-falsa dello Spettacolo, non c’è immagine dello Spettacolo che possa nascondere la morte. Colte alla massima distanza mentre fuggono nel vano, le immagini divengono oggetti non identificabili se non da una stria catastrofica; non hanno più angström calcolabili o spettrometri che possano dirci quanto si spettralizzeranno rosse, davvero è certo che si allontanano da qualsiasi fruizione possibile. Any where out of the world

And all that is solid melts into Time

Alla fin fine si scopre che la morte non è qualcosa di economicamente assegnabile ma piuttosto il vuoto di senso ineliminabile, l’anello che non tiene, l’ultimo feticcio o la soglia di una metamorfosi. La morte è l’ultima apparenza di ordine che la regolamentazione delle merci ordisce intorno a sé, oltre è solo deriva senza centro, eccedenza fantasmatica, disordine lussuoso della poesia.

Je m’explique, je m’évade, j’ai fait la magique étude du bonheur qu’aucun n’élude

L’immagine allo specchio non è un’immagine simbolica che permette l’identificazione ovvero che i conti economici dell’io tornino soavemente ma promette invece una deflagrazione di cocci, tornano solo immagini di altri mondi, revenants, spettri, l’immagine allo specchio non è simbolica ma Diabolica. Il poeta è uno specchio e questo turba l’organizzazione delle sostanze ferme. La tradizione occidentale ha assegnato alla morte la sfera di accesso al sistema simbolico, la poesia moderna gioca la morte in parodia rilanciando senza limiti la deflagrazione dell’immaginario.

(Un annuario d’astrofisica, 1974): “ In alcuni casi sembra che i quasar abbiano struttura doppia, come nel caso della radiogalassia Cygnus A, che è la più intensa sorgente quasar apparsa nel cielo. L’altro tipo di oggetti stellari dalla misteriosa natura sono i pulsar (acronimo di pulsing star), essi sono stati scoperti nel 1968: loro principale caratteristica è quella di emettere impulsi di onde elettromagnetiche… nel campo delle radioonde e dei raggi X, con frequenza variabile da 30 hertz a qualche decimo di hertz… Pare si tratti di stelle di neutroni in rapida rotazione: il pulsar a più rapida rotazione finora osservato è quello situato nella Nebulosa del Granchio che pare dovuto all’esplosione di una Supernova avvenuta nel 1054 d.c. e di cui si tramandano osservazioni eseguite da astronomi cinesi.”

Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame, la poesia, la rivoluzione, la società spettacolare, la mercificazione?

La poesia si ripete sempre ma non si riproduce, si ripete per erranze indefinite, fughe di senso come scarti, in rotazione manda bagliori hertziani di retrofuturo, non ritorna mai all’identico come cristallo sociale in vista dell’equivalenza generale teologica e del conformismo rateale precario. Ma si nutre di residui di esplosioni, ricopia nebulose in lembi di conflagrazioni archeostoriche, emette pulsazioni in rotazione da ceneri di supernova estinte. E la natura dell’immagine è una struttura doppia che continua ad allontanarsi, tagliando di netto l’universo e l’universale, radioonda fugace in un traiettoria sempre ultimativa. Quale ebbra Angst o angström stravolti possono contenere questa velocità che era in partenza (?!), velocità di svolta e che svolta; è sfuggita per sempre all’ampolla che sigla precisamente, in calice, i contenenti-contenuti, si è scissa, orfana da radiogalassie, immemore (La destruction fut ma Béatrice nella splendida lettera a Lefébure del 1867) (l’alone conta più di qualsiasi concetto, solo la poesia può condurre a questo immediato, a quest’astanza spettrale che di colpo include in sé tutti i futuri). Ed è per questo che lo specchio-schermo annulla ogni spazio che non sia quello suo, di pura rifrazione, dove ogni interno e ogni esterno sono ancora ancoraggi ormai vorticosamente distanti dalla sua orbita.

La poesia, l’arte intrattiene rapporti complessi e dissipativi con queste vecchie amiche-nemiche, teoria e moda, le saccheggia e le permuta, le conduce a nuove fluttuazioni d’equilibrio. E conduce lo chic alla catastrofe: perché infatti non c’è altro chic che la catastrofe; e brucia le teorie: perché non c’è miglior teoria di un calligramma di cenere lasciato su un tavolino di bar.

Questa “regola” (se applicata estingue se stessa e tutte le altre regole) vale in maniera certa, non se ne adombri Perniola, sia per le pettinature Yoruba delle donne-pantere che per l’ Ästhetische Theorie (1970) – che si potrà leggere allora come una sterminata, ipnotica poesia sulla poesia che si illumina su Rimbaud ladro di fugacità nei cabarets-, senza glosse o paralipomeni in coda.

Ed è così che le due immagini, le teorie, insieme si (ri)muovono rotatorie e capziose, si riavvolgono, si riversano outrageusement in questo sgorgare storico in una sola e unica distruzione come malinconia e eros, come balzo della tigre in un’ivresse che rende inimportante l’agonismo tra autentico e inautentico, deborda dal fond del film (il feticcio e sue circonvoluzioni); il funzionamento estetico riposa (?!) invece su un unico bagno sacrificale in cui tutto -teoria, immagini, critica e spettacoli dello Spettacolo-, affonda in un’emozione di distruzione superiore, di gioco, superiore.

E’un’emozione di scardinamento che libera un tempo assolutamente singolare, che non si paga finalmente più di nozioni o immagini, distrugge tutto nel suo moto perché alla fine sia solo emozione di Tempo, quel famoso tempo Irrevocabile che lo Spettacolo imprigiona nella ripetizioni dei cicli, che le teorie impotenti tengono segregato in una coazione a ripetere edipica. Quest’emozione amorale distruttivo-erotico-melanconica è davvero la presa del Palazzo d’Inverno del Tempo, immediatamente dopo cioè insieme alla distruzione delle Halles e di ogni eidetica determinata.

Paris change! Mais rien dans ma mélancolie

N’a bougé! Palais neufs, échafaudages, blocs

Vieux faubourgs, tout pour moi devient allégorie,.

Nei paraggi temporali stessi di quel Barone Haussmann che distrugge I vicoli che consentono spazi alla rivolta barricadiera e reinscrive, riscrive Parigi nel suo destino di grandi avenues del primo grande, panoptico, controllo sociale.

E’ tutto storico, disperatamente storico, tutto trascorso, documento, eppure questo stile sfugge in avanti, inimitabile, elegante, elusivo, mai distante, una maniera di contemplare i segni assolutamente moderna, indissolubilmente legata al fugace. E la liaison non è metafora, la poesia moderna è questo vincolo stretto e che non si scioglie se non nella autodistruzione più partecipata. Mentre una banale reprimenda dei consumi fatta dal capitale autocritico, porterebbe la sigla del distacco moralistico. E porterebbe anche in sé la sigla della ciclicità, sarebbe seriale, inessenziale. La poesia moderna non condanna, non denuncia ma supera la condanna e la denuncia facendosi paradossale gesto autoaffermativo in un puro gesto di rottura, di catastrofe. La condanna e la denuncia sono evidentemente gesti del pensiero che si vuole separato, scisso. Sarà il pensiero post-storico a scoprire la distanza e scambierà per obbiettività quella che sarà poi solo distanza dalla vita, ormai lontanissima, definitivamente irraggiungibile.

Non si tratta di fare il Proust o il Praz degli anni ’70, sto cercando invece enunciare in qualche maniera questo fatto oggi disperatamente anacronistico, le immagini corrono affiancate per un certo lasso di tempo, un’immagine di vita-morte di chi non è più dentro la sopravvivenza pseudo-ciclica e un’immagine invece vero-falsa, quella spettacolare dove il vero è solo una garanzia al falso, ovvero la pulsione, la festa, la libertà sono al servizio della merce, ma queste due immagini viaggiano agoniche, come l’operaio che autogestisce una fabbrica abolendo il dopo nella propria libertà istantanea, lotta a fianco dell’operaio già inquadrato dal partito o dalla mistica di un gruppo autocritico (e questo secondo operaio pensa già al suo futuro di recupero e ai piccoli vantaggi servili), come c’è l’intellettuale che pensa e scrive in una sfera separata e si vende come pensatore critico quando invece c’è già chi si è chiamato fuori e concretamente, in ogni frammento infinitesimale della propria vita, senza iati, è già lui la rivolta, senza ritorni, teso a inventare una libertà radicale, criminale della criminalità più grande, la liberazione del tempo.

E quello che volevo dire è che solo il poeta garantisce l’autenticità, perché nessuna autenticità preesiste alla poesia, comicità involontaria dei critici, credono veramente che Debord abbia troppo il pathos dell’autenticità. L’autenticità è produzione del poeta nel momento in cui ha strappato la propria vita e la propria morte alla sopravvivenza dettata dal Capitale-Spettacolo, il Sapere Assoluto non è dunque la morte, come diceva Hegel, ma decisione radicale sul proprio destino e dunque invenzione.

E dunque non c’è niente che possa resistere a questa infallibilità rivoluzionaria che inventa direttamente sul posto l’autenticità di qualsiasi cosa siglandola della propria vita-morte, che sia abito, strip, formulazione teorica, arma, qualsiasi cosa il poeta tocchi diventa disperatamente, assolutamente vera mentre prima era solo un simulacro estorto al bisogno. E’ questo il détournement che è il contrario del moralismo, dell’ipocrisia puritana del capitale autocritico, è mille volte più sontuoso di qualsiasi ersatz del capitale apologetico. Le plagiat est nécessaire. Le progrès l’implique. Il serre de près la phrase d’un auteur, se sert de ses expressions, efface une idée fausse, la remplace d’une idée juste.”

Non rifiutare niente se non lo Spettacolo stesso, questo sono i film di Debord che incitano all’esproprio selvaggio e fanno secca ogni metafisica sul suo stesso terreno, il riflesso deve diventare realtà.

Ed era già André Breton dal suo esilio canadese del ’44-45, Arcane 17, a dire che era la qualità estrema della prova (Osiris est un dieu noir) a provocare non la fine ma un cambiamento radicale di disegno, dotando di ricchezze immense che mai si sarebbero date altrimenti. Breton rivendicherà la progressione trasmutante dei riti d’alta magia senza la quale non resterebbe che la unidimensionalità dei cartelloni pubblicitari.

Perché la poesia è una struttura eminentemente dissipativa (Ah Ilya!) che irreversibilmente, di taglio, sgomina le traiettorie pendolari, e inventa un altro tempo mentre quello sociale risulta ancora ricalcato malamente su un’oggettività esterna, sono altri i destini, il destino è altro, sempre.

E’ come se la fugacità rompesse un equilibrio termodinamico aprendo in corridoio su un carrefour fatale che da un lato piega su una pura entropia, dall’altro su dimensioni caotiche sempre più complesse. Il collasso gravitazionale di una spinning star (puramente ipotetica nel 1974) sempre sventato da controforze di rotazione, aumenta la forza cinetica, al contrario della pulsar la luminosità diventa più intensa, fino alla fine forse (?) quando il raggio della stella raggiunge il valore del raggio di Schwarzschield, la velocità della fuga delle particelle eguaglia la velocità della luce. Ma è destino dei cosmonauti della fugacità sfidare anche buchi neri e antimateria, trapassare sempre a nuove metamorfosi.

Proprio in quegli anni, nella Bruxelles meccanico-statistica, si cerca di varare un altro tempo, anti-hamiltoniano, tempo altro da quello ipotetico dalle orbite garantite; diranno, Ilya Prigogine-Isabelle Stengers, 1978: “gli oggetti pertinenti non sono più le traiettorie degli astri o i pendoli ideali, sono i processi di decomposizione, di collisione, di assorbimento che definiscono, con il proprio carattere irreversibile, l’interzione delle particelle con il loro ambiente”.

E dunque il Pasolini di Chia non è dannunziano ma ha ragione senza dover dire una parola, esistono immagini qualitative come esistono corpi qualitativi, che vivono, mentre altri segnano un Tempo che rimane loro clamorosamente forcluso. Ma il caso di Pasolini è emblematico, e la sua morte, comunque sia andata, è senza enigmi. Proprio nel momento in cui si vuole apocalittico etimologicamente, nello stesso momento in cui il significato del Tempo gli si fa evidente è il fascismo che gli sbarra la strada e lo uccide. Accedere all’irrevocabile significa accedere a un Tempo Catastrofico, ogni cosa si rivolge nel suo contrario apparente, nel suo rovescio onirico esatto. Non si esce dallo Spettacolo impunemente perché il rovescio dello Spettacolo, appena oltre la soglia è un immediato dove il guardiano della soglia è proprio il fascismo come latenza dello Spettacolo, come componente di fondo che si libera ai suoi bordi. Non è forse la periferia dello Spettacolo la sua più cieca osservante nell’applicare la norma della sopravvivenza? Non è forse nei suoi snodi terminali che l’ottusità populistica dello Spettacolo diventa quasi translucida, come in vitro? Ovvero dove il suo demente determinismo è più visibile e più feroce. Pasolini emblematico anche perché punta più avanzata, consapevole, eslege, del Capitale autocritico, Capitale autocritico che sogna sempre territori vergini e possibilità che lo Spettacolo si risvegli “democratico” o illuminato e quando vuol mettere alla prova le sue teorie e le sorpassa di slancio si imbatte nel suo rimosso più letale, la violenza più estrema che è, e non può non essere, la sostanza dello Spettacolo. Mentre il Capitale apologetico è già dichiaratamente eugenetico e non fa sogni su di sé se non eseguire sentenze sommarie, come dirà più avanti Debord.

Mentre Debord entra nell’irrevocabilità storica con tutta la forza strategica di 150 anni di sperimentazione, la sua disinvoltura nell’entrare definitivamente nell’elemento di rischio (l’Irrevocabilità è sempre contrassegnata da immagini di rovina come tracce di varco lasciate dagli altri esploratori) è una conquista di poesia. Debord trova immancabilmente quell’ ”attimo di pura quiete” che come ha detto un altro poeta moderno, E. A. Poe, è appena sospesa al vertice del Malstrøm.

De la vaporisation et de la centralisation du moi. Tout est là. D’une certaine jouissance sensuelle dans la société des extravagants. Je peux commencer “Mon cœur mis à nu” n’importe où, n’importe comment, et le continuer au jour le jour, suivant l’inspiration du moment, porvu que l’inspiration soit vive.

Il Tempo catastrofico è stato sempre designato da ogni poeta precedente con segnacoli di rovina, come se avesse una stretta connivenza con la morte.

Ma l’entrata nella catastrofe rivoluzionaria non è necessariamente autolesionista, non ha niente a che fare con il determinismo o il fascismo che sono le dottrine segrete di ogni Capitale e quindi di ogni Spettacolo, Il Tempo catastrofico è anche quello meno determinabile, i segnacoli di rovina sono allegoria del soggetto detronizzato, oltre questa soglia il rovescio onirico è proprio la gratuità più assoluta, l’invenzione più assoluta, la scoperta e l’amore più flagranti per la vulnerabilità di fronte al Tempo ovvero l’amore senza altri nessi esplicativi aggiunti. Il Tempo Catastrofico non è evasione o autocritica, è un ingresso in questo mondo, con i materiali stessi di questo mondo e che li trasforma per un’opera qualitativa, il feticcio deve diventare talismano.

E’ la poesia che détourna il marxismo su questa chiave, in congiuntura e non il contrario e Debord ne è consapevole. La poesia è sempre stata cifrario che allude a questa rivelazione e non c’è bisogno del Benjamin di Ursprung des Deutschen Trauerspiels per capire che già nel Seicento la poesia mascherata comincia la sua lunga marcia nel Time out of joint, cominciando a sconfiggere la teologia sul suo stesso terreno. Wie reimt sich Lieb und Tod zusammen? ( J.-C Günther, Als er der Phillis einen Ring mit einem Totenkopf überreichte)

Il Tempo Catastrofico uccide ogni forma di determinazione ed è pericoloso per ogni soggetto che abbia ancora illusioni su di sé, perché rivolge tutto, è il tempo della grande metamorfosi, un altro poeta-attore moderno, Antonin Artaud, spererà addirittura di trovarvi come in un eldorado (perché infatti non c’è altro eldorado se non la catastrofe pienamente voluta) l’invenzione assoluta di un altro corpo e di un’altra identità che cancellino completamente quelle bio-anagrafiche e pagherà questo sogno transitando anche nei manicomi di Vichy.

E’ la vecchia confusione tra arte e vita che in questi anni conflagra e si rende chiara come la formula chiave per uscire dai determinismi illusori ma omicidi dello Spettacolo, dalla sua sacrificalità.

Mai, come a un certo istante storico, c’era stata più pressione contro le mura dello Spettacolo, presa d’(in)coscienza che porta come a un esodo maya verso altre dimensioni temporali, abbandonando templi e sacrifici verso un’altra concezione del Tempo (je suis l’expulsé des vieilles pagodes), la metafora della clandestinità comincia a farsi largo, una fuga sul posto che non sempre è fortunata. Sono molti i suicidi o i casi di follia. E’sempre un problema di soglia e di incontro del rimosso. L’autocritica, nel decollo, uccide di più della repressione poliziesca. L’uscita dallo Spettacolo si rivela autolesionistica in un contesto dove già le sigle dentro-fuori sono già entrate completamente in crisi, i guardiani della soglia sono i fantasmi introiettati che si fanno vivi nell’introibo, sono i residui delle perfezioni o delle salvezze del triste dressage infantile, non ci sono più, poi, assetti psichici indiscutibili, c’è la morte critica o la morte della critica, c’è la morte come apparenza e ancora oltre il Tempo qualitativo che non ha altre illusioni. E’ questo l’epicentro della catastrofe, l’occhio di ciclone del Tempo.

Si indaga come non mai la Traumdeutung dello Spettacolo, non solo il marxismo ma anche la psicanalisi vive l’ultima sua stagione decisiva, convegni, esplosione della saggistica, le teorie bruciano all’aria del tempo. Forse il più lucido è proprio Jacques Lacan (il più contestato dal capitale autocritico) che mostrerà con la sua teoria-trick che la gestione piena del significante è quella di Humpy-Dumpty, non quella dei padroni-schiavi del linguaggio che si esauriscono ancora in vane speranze soteriologiche, è solo la poesia che è passata attraverso la prova dello Specchio e lo ha oltrepassato, Through the Looking Glass è ancora uno pseudonimo di questa catastrofe del tempo irrevocabile che beffa qualsiasi origine e permette il reversibile dei contrari. E’ proprio il varco lasciato dal Sembiante che fugge sempre che bisogna rincorrere per trovarvi uno scacco trionfale.

In Encore del ’76 Lacan glosserà che questo abbandono si sigla della cifra del femminile, non della philìa teocratica maschile in vista di un bene universalistico, femminile come singolare che non entra mai compiutamente nel discorso, che il discorso che non è più in grado compiutamente di articolare o di enunciare, ancora una cifra del Tempo catastrofico che “prescrive” che ogni entrata sia singolare, fuori misura. “…et une distinction d’accent, une espèce d’androgynéité, sans lesquelles le génie le plus âpre et le plus viril reste, relativement à la perfection dans l’art, un être incomplet” (Un mangeur d’opium)

Su una scacchiera onirica, lo Spettacolo incontra la dismisura, deve fronteggiare una polifonia di desideri che non si lasciano più articolare in maniera chiara, che minacciano di mandarlo in bancarotta, perché non può esaudirli a meno di non volere a sua volta la catastrofe, la sua rovina. Mentre questa polifonia non può che gestire e convertire l’erranza dello Spettacolo, convertirne i segni, trasvalutarli poeticamente.

Ma i segni, le immagini da convertire fuori dal ciclo del bisogno spettacolare devono essere da qualche parte moderni, devono pretendere ancora di aver a che fare con un’irrevocabilità storica, non devono essere totalmente fuori corso, completamente congelati in una vuotezza metafisica. Ecco perché lo Spettacolo per non essere espropriato deciderà di essere totalmente e radicalmente antistorico.

Il Concilio di Nicea psichedelico emette la sentenza che tutti conosciamo ormai, credo. I segni diventeranno definitivamente carta straccia. L’iconoclastia del poeta è stata quella di combattere contro un significato univoco dell’immagine, svellerla dal piedistallo, farla viaggiare verso territori sconosciuti.

Ma la vera iconoclasta ortodossa è stata quella del Capitale, dello Spettacolo che decide di mettere in bancarotta l’immagine o il segno quando smettono di avere un significato univoco non più gestibile, il Capitale mette a morte l’immagine, per saturazione, per equivalenza, per pochezza, decidete voi. Tutto finirà per una brusca iniezione di noia. E già nel ’79 Debord dirà della società spettacolare: “Elle croyait être aimée, maintenant elle ne promet plus rien, elle ne dit plus :-ce qui apparait est bon, ce qui est bon apparait.- Elle dit simplement: -c’est ainsi.-.. Elle a perdu toutes ses illusions générales sur elle-même.”.

Nell’88 nell’ultimo testo “teorico”, Commentaires à la Société du Spectacle, Debord non disquisirà più tanto di immagini come non penserà di fare un film d’immagini, le immagini sono ormai solo un intorno residuale, derisorio dello Spettacolo ma stenderà una prognosi sconsolante e enigmatica a corollario di fatti di cronaca, parlerà soprattutto del cosiddetto “faux sans réplique”, spietatamente diverso dal tardomoderno “faux-vrai” del ’67.

C’è una lettera di Debord del periodo, che è poi l’invio di un testo a Jaime Semprun (Abolition che verrà pubblicato anonimo sull’Encyclopédie des Nuisances) in cui Debord con stringente umorismo swiftiano dimostra come lo Spettacolo abbia saputo radere al suolo i sette peccati capitali come mai erano riuscite a fare le civiltà teologiche precedenti, tranne l’invidia che consente la libera circolazione dell’equivalenza di tutto e tutti in una fungibilità assoluta. Una vera superbia o lussuria già non sarebbero più possibili, sarebbero incompatibili, se vere, con il funzionamento complessivo dello Spettacolo, ecco il puritanesimo strutturale, il neoperbenismo dello Spettacolo. Invidia come assurdo perché, aggiunge, i dati fondamentali di un individuo vietano che egli possa mai essere qualcos’altro, Retz non invidiava Mazzarino, La Bruyère non poteva essere Pascal ma lo Spettacolo vuole far credere a questa equivalenza quantitativa che uccide il gusto ovvero l’esperienza irrevocabile del Tempo.

Gia in Réfutation de tout jugement del ’75 Debord aveva detto che la vita nello Spettacolo impone ai soggetti un pressoché incessante rinnegamento delle proprie preferenze e dei propri amori.

L’insistenza sul problema del gusto, presente tutto l’arco dell’ ”opera” di Debord si può cogliere a più livelli: quando evoca, in Panégyrique, l’ingresso violento nello stato di ubriachezza più rovinoso o nella più sontuosa beuverie, dirà che questa rende possibile le vrai goût du passage du temps. Il passaggio nel Tempo irrevocabile è questo gusto inconfondibile della sovversione, l’effrazione di ciò che il Capitale tiene più ermeticamente sorvegliato, il gusto è la traccia di un’esperienza fatale per il soggetto ed è la sua libertà, la più singolare e la meno mercificabile in ogni senso, di ogni altro senso.

Baudrillard, quietly disprezzato da Debord ma con uscite interessanti, in Cool Memories dirà che gli anni ’80 (dove ormai impera senza ostacoli lo shoot di tedio paralizzante summenzionato) sono l’epoca dove non ci sono più perni su cui far ruotare una teoria, la simulacralità è di una densità assoluta e gelata, persino il culto dell’immagine è archeostorico e completamente simulato, apparteneva all’epoca precedente, erano i Settanta glamorous dove c’erano ancora massimalismi, come se anche la Moda, scomparendo, segnalasse di essere stata, a sua volta, un massimalismo trascorso, ormai impossibile. E se, qualche anno prima, riusciva ancora a sciogliere l’enigma teoretico della stripteuse del Crazy Horse ora stila solo un diario svagato, di passeggio, come un passatempo senile.

A causa del solito flaubertiano sottisier, sappiamo oggi che il capitale autocritico si è inventato una parola per definirsi, postmoderno, dalla metafora della catastrofe si è passati a quella del contagio, non c’è più un qualcosa di esterno che venga a perturbare, si è da sempre sconsolatamente con, viralmente insieme e sottovuoto, qualsiasi comunità che si possa invocare è già voluta dallo Spettacolo, Debord si spingerà a dire che solo la follia (non essendo possibile la solitudine) salva dallo Spettacolo. Debord sempre all’altezza dell’epoca o della non-epoca -nella società congelata dalle enormi banche dati informatiche, nel museo degli eventi in cui ogni fragmento ha la sua teca nozionistica – scrive memorialistica o disputa ai gazzettieri il passato, Panégyrique o Cette mauvaise Réputation, testi magnifici in cui il discorso sul proprio stile si fa precisissimo: “Je voulais tout simplement faire ce que j’aimais le mieux .En fait, j’ai cherché à connaître, durant ma vie, bon nombre de situations poétiques..”E’ questa l’oltranza vera di Debord e il blasone di tutta la sua memorialistica.

Sono sempre esistiti due Moderni, distinti e talvolta contrapposti: uno è il tanto compianto defunto, progettuale, ingegneristico, tutto sviluppo e futuro, un po’ esercitazione accademica a freddo, un po’ boato entusiasta delle folle (il composito come predominante stilistica ma invariabilmente complicata-semplificata da una lettura in chiave). E’ un moderno che inconsapevolmente già posava per il museo mentre varava il futuro. Il post-moderno ha potuto sconfiggerlo agevolmente e annetterselo come campo sperimentale per immaginare un’immane distesa di passati criogenici, di presenti componibili, asettici e senza ricorso, di futuri programmabili, poi, in rapida schermata, ha potuto giustapporre tutto come una gitarella nerdy-conarde, senza rischi, con agio, prendendo belle e ampie boccate di noia. Ed è così che il post-moderno ha potuto sovraimprimersi a questo primo Moderno e distruggerne le pretese di fare scia, di cambiare.

Mentre il secondo Moderno -che è stato sempre lotto di happy fous o di sporadici rivolgimenti storici- era tutt’altro, perché, senza passato (il che non significava poi che non si dialogasse con le tracce di varco di altri cosmonauti dell’Eldorado) e senza futuro, aveva ben altra arroganza (fin dal 1871 in cui si sparava significativamente sugli orologi) e cioè operare di taglio seccamente sul continuum e sfondare da Cronos ad altroTempo direttamente, l’importante era virare fluvialmente sul presente, immediatamente tutto sarebbe diventato possibile, tutto inevitabilmente indeterminato. Questo secondo Moderno rimane una latenza spettrale e inverificata, capace di agire ora, ovunque e in nessun luogo, in un’istantaneità che rende vana ogni cattura; il ritorno di questo revenant vero (?!) o vero lunapark dell’impossibile (il folle vaticinio di Ludwig-Chtcheglov) rende vana la realtà falsa del post-moderno, la oblitera come obsoleta, come un biglietto vidimato in carrozza e poi gettato via, scaduto oltre le scale, e poi si è fuori, nel Tempo.

Invece il post-moderno, dopo aver distrutto la città e essersi pensato come villaggio planetario, ha potuto condurre tutti per sfiancanti scampagnate fuoriporta a vedere le antiche rovine e i diorami, dopo aver regolato tutti i quadranti e aver concesso ai lavoratori di prendere l’ora d’aria e sfoggiare i primi maldestri shorts della ripetibilissima stagione.

Oggi stiamo qui a Bologna, al termine di questi anni ‘0, a parlare di Debord e in gran parte perché è il teoreta dello Spettacolo ed è un anacronismo perché la Società dello Spettacolo del film del ’73 o del libro del ’67 sono definitivamente morte, l’immagine è carta straccia, non esiste più nessuna teoria perché la teoria era al servizio di un’azione che si rivela impossibile. Del resto lo Spettacolo può benissimo mimare una teoria e esibirla ma non riuscirebbe mai a mimare la poesia, le ragioni della poesia perché deflagrerebbe come un castello di carte. Sembra ancora assurdo parlare dello stile di Debord che è poi davvero ciò che resta. E’ lo stile della poesia moderna che ha saputo mutare strategia e forma con il variare delle epoche, che ha trovato alleanze e congiunture ma che non si è mai fatto ontologia perché si è sempre preoccupata esclusivamente di liberare il Singolare, ovunque sia stato possibile, anche il singolare polifonico e collettivo. La poesia come entrata nel gratuito è anche una breccia nel muro che potenzialmente libera i tutti. Ma la coerenza della poesia moderna è l’unico Spettro che sfugge allo Spettacolo perché le sue esigenze non possono mai essere recuperate completamente. Lo Spettacolo ha dovuto uscire dal moderno perché altrimenti avrebbe segnato la sua condanna a morte.

La poesia moderna, le vecchie arti esistano ancora, Debord non ne è stato il liquidatore testamentario, le ha solo fatte fuggire definitivamente dal loro vecchio recinto metafisico, è un’esistenza spettrale che riprende la corsa senza più alleanze.

(Tous les souvenirs immondes s’effacent… les amis de la morts, les arriérés de toute sorte. Damnés, si je me vengeais! Il faut être absolument moderne.”), uno dei gesti della poesia moderna diventa dunque impossibile, dov’è l’utensile fugace da espropriare? Se la poesia moderna esistesse ancora dovrebbe impugnare l’essenza stessa dell’effimero, il vuoto del vuoto. Ma infatti è quello che accade nel momento stesso del bando comminato al moderno, quando il moderno è definitivamente messo fuori gioco, in questo stesso esatto momento, catastroficamente, il moderno è dovunque e in nessun luogo, il contatore Geiger ne impazzisce. Ma, al di là delle sue declinazioni archeostoriche, il moderno si era sempre voluto come scoria di una sparizione, la dissoluzione era già la sua componente più profonda nell’innologia baudelairiana “Enivrez-vous, de vin, de poésie à votre guise, de n’importe quoi mais enivrez-vous..

Indimenticabile (immagine) perché scomparsa per sempre, giocata sempre sulla cesura violenta tra passato e futuro, per abolire anche la cesura e sparire nell’eccesso, incancellabile perché immagine esiziale, sigillo di combustione, letto di cenere mentre il fuoco si ritira, glifo mancante di interpretazione, tutto quello che rimane entra nel museo stancamente ma era quell’atto di smarrimento il moderno, tutto quello che si può ancora leggere è una risultante, un esito (exitus), l’eco sottovuoto di un urlo.

Lo Spettacolo sarà il custode delle reliquie, saprà anche migliorarle, si dirà che il moderno aveva una terribile componente barbarica, era così violento, è questa la stupidità più flagrante perché era questa Estinzione il Moderno e non l’impronta, e l’alterigia inarrivabile che conservano queste impronte dipende appunto dalla loro congiunzione con la fugacità, il loro alone aristocratico da fuoco d’artificio che si perderà nel buio, è questo l’elemento immateriale che sfuggirà per sempre alle riproduzioni neospettacolari. Se il moderno voleva essere gesto istantaneo come croyance dissoluta eppure totale (pressoché folle) nella propria efficacia sapeva anche di sparire, di eclissarsi in quell’efficacia come oblio, come assenza, senza dopo e senza prima, via che estingue la via in cortocircuito irreversibile eppure palindromico (propter viam), traiettoria con sedimenti, è tutto, è già troppo.

Il moderno vero non ha mai avuto domani, il domani già era beffeggiato da Baudelaire in Le Voyage, non è mai stato classicismo delle proporzioni che poi resteranno nei secoli (antipatia di Baudelaire anche per gli Ingres etc già poststorici del suo tempo che guardano al passato non per rinvenirne una logica artistica ma credono di farne copie istruttive come parvenus che si nobiliteranno davanti ai giudici di gusto postremi), era già il vortice (gouffre) la cifra araldica del moderno che comportava insieme (e senza gradi intermedi) la Sparizione, l’Oblio e il Nuovo e questo non è neppure pessimismo come credono gli storicisti perché il pessimismo è ancora una valutazione orientata quindi completamente fuori luogo.

Il vortice, le onde dello Yang-tse-Kiang sono malinconia e trionfo -che va inteso nient’affatto come trionfo della morte ma come ritorno dell’impossibile, come punto terminale dei numeri di magia, l’oggetto fatto scomparire ricompare in tutt’altra direzione, questa stazione è il Trionfo (quando nei ’90 Debord deciderà di pubblicare i suoi contratti cinematografici, probably per irriverenza divertita, predisporrà tutti i dettagli di copertina e imporrà la carta del Bagatto, Le Magicien ou Bateleur del Tarot de Marseille).

Il pessimismo è ancora uno sforzo disperato e vanissimo di schivare l’inevitabile, la sostanza stessa senza consistenza del Tempo.

La poesia è dunque oggi la sola avanguardia (La poésie ne rythmera plus l’action, elle sera en avant…) dovunque si trovi, qualsiasi forma assuma, perché sbriciola il tempo della quot-idoneità, ne annulla la cattiva eternità, non è rivolta al futuro ma a una radicale immanenza, non insegue una conquista ma l’abbandono, abbandono senza ostacolo e a precipizio ai giacimenti del Gratuito, inesplorati.

Essere all’altezza storica degli eventi significherebbe che la sola “cosa” fuori dal frame spazio-temporale dello Spettacolo antistorico -sempre inevitabilmente o invisibilmente segmentato (introiettato anche nel cosiddetto tempo “libero”)- è la dimensione in cui ogni pensiero separato, ancora teorico, scisso, viene a cadere, la singolarità “sa” nello stesso momento in cui vive ed è in questo senso che l’esperienza del gusto sorpassa ogni filosofia e ogni ontologia (e già l’ultimo Nietzsche sostituiva umoristicamente fisiologia a filosofia), Lautréamont tagliava corto: “Le goût est la qualité fondamentale qui résume toutes les autres “

La jouissance di Debord (come quella di Li Po o Wang An-Shih o Luh-Yü) espone la mappa di questo superamento gnoseologico, il gusto come dimensione radicale del Tempo, esperienza estetica in cui oggetti e forme sono direttamente percepiti, oggetto di poesia e non immaginario della sopravvivenza.

Restano da dire alcune cose circa questo evento teatrale (“Il teatro è nulla se non l’attore- non solo è nulla senza un attore ma non è altro che l’attore” direbbe lo Welles del Mercury a cui forse si potrebbe aggiungere: il teatro è un Nulla che è sempre Altro) che ho realizzato insieme alla mia compagna e che si titola “Spettri”, a questo punto sarà abbastanza chiaro anche il titolo, per quanto polisemico: spettri sono i gusti e gli stili, gli atteggiamenti della poesia moderna che ossessionano ancora anche questa società che si è voluta risolutamente non-moderna, dopo la liquidazione controrivoluzionaria del tempo storico.

Il teatro come arte che volatilizza il composto, come arte che ha il legame più torbido e indimostrato con il tempo storico, lo raccoglie, lo nasconde, lo rivela, infine lo ostende nel feretro dell’immediato, oltre c’è l’enigma perché il nastro si strappa finalmente (“Lo stile ha smesso di esistere e la grande recitazione ha smesso di esistere perché determinate forze sono sfociate nel cinema liberando il teatro da certi obblighi. In altre parole, è impossibile essere un attore grande se non ci si relaziona con il pubblico”, ancora O.W., The New Actor). E’ un’arte che ha sempre avuto contorni poco chiari e indefiniti, tra rappresentazione e realtà, ma sicuramente è la prima volta nella Storia che l’artificio esibito è in vantaggio vitale sul “faux sans réplique” del cosiddetto pubblico che entra in sala.

L’Antiepoca si è dunque sbarazzata delle immagini rendendole risibili, delle teorie, del Tempo storico e anche del suo pubblico che è retrocesso a sondaggio di analfabeti e ritardati spettacolari. Ma il teatro, vecchia arte, davvero tardiva (il tardi sigla gloriosa e ossimorica della poesia moderna, sempre ritardataria, intempestiva nel suo ostendere l’Altro Tempo, il tempo come altro) non ha bisogno di immagini, di teorie e neppure di parole proprie. Forse il teatro non ha neppure bisogno di un pubblico, il teatro come arte radicalmente antioggettiva, del tutto visionaria, dove coloro che credono di essere pubblico (ma chi lo crede? Gli abbonati, a cosa?) sono in realtà attori che, come si suol dire, fanno scena muta, ma attori, cioè viventi che fanno esperienza diretta e non passiva, personale, di un altro Tempo con tutte le (ir)responsabilità di erranza ad esso connesse (cioè tutto il rimosso del vecchio caro Freud e oltre, non solo la meccanica del rimosso ma l’immensa qualità onirica di questo, appunto e non a caso, Eine Andere Schauplatz). Non dimenticare nel dramma il meraviglioso e la stregoneria, avrebbe detto C.B. nelle Fusées.

E il teatro (oh Oklahoma!), cosiddetta arte di retroguardia ma anticamente e sempre la più strutturalmente legata all’Irrevocabile, se sciolta dalla rappresentazione, fuori dal riflesso, through the looking glass, non rinviene forse la vulnerabilità più preziosa e mai riconosciuta, non trova forse davanti a sé il compito più moderno e mai adempiuto? La liberazione del corpo umano da quel terrificante dieu de l’Utile che dai tempi di Baudelaire e delle Correspondances ha sempre più pretese (un tale teatro soavemente inattuale permane ipotesi indimostrata e improbabile come quello immaginato da Kafka, è ovvio ma questo scritto avrà nelle sue volute terminali un decorso ormai fantascientifico e pressoché sganciato da fatti accertabili, volutamente erratico, sto veramente parlando di teatro? Sto veramente parlando di poesia?).

Il teatro come arte che viene sempre minacciosamente davanti come totalità indivisa, anche quando si autogestisce nella miseria più marginale e clandestina, pas partageable, davvero, Debord a quest’ora è certo lo Shakespeare di tutti i transfughi ma nella scrittura scenica integrale, nel Tempo Irrevocabile dell’Altra Scena non vale più dell’iniziale sconcerto della prima fila quando si rende conto che quell’attore improvvisamente gira una manopola invisibile e commuta il Tempo in altra direzione, e tutti ne vengono travolti, l’attore per primo (solo e solo in questo senso si può essere primattori, questo è il divismo della catastrofe).

Ho parlato di poesia moderna, avrei potuto parlare del teatro degli ultimi 150 anni, di ogni arte e fare considerazioni analoghe, chiarire come anche il teatro si sia da tempo divincolato dalle sue sedi e specifiche impasses. Prove, fatti, date? Il sogno di Artaud di un teatro esclusivamente di “stati d’animo”, la sua partenza il Messico nel ’36, i Messages Révolutionnaires, la liquidazione della metafisica del suo ultimo periodo proprio al limite dell’era Debord. Il grande teatro compie un’orbita eccentrica e diventa molto spesso invisibile, che è il suo paradosso peculiare più flagrante. Sizigia. Se il poeta al principio (?!) si è fatto personaggio-attore di parole decisive e inscalfibili, supposons Baudelaire (G. Macchia dixit) sempre più l’attore è diventato poeta-creatore di mesmerismi istantanei, brandelli relittuali di figurazioni, insomma spettri che, nel momento stesso in cui stanno per prendere corpo indiscutibile, in scena svaniscono per sempre. Nessuna camera spettacolare li decifra e li ritiene.

E’ lo Spettacolo che diventa anarchia sadiana, ha vinto tutti i confronti, si è annesso le spoglie e si lancia senza presupposti nella più sfrenata ripetizione dei cicli, ma non può più muovere veramente, nel massimo movimento è bloccato in posizione di stallo e geme sotto lo stress. Probabile che un giorno invochi la Rivoluzione che lo salvi e non la trovi. Succede sempre così, ci si dà i mezzi della potenza più estrema per essere indisturbati e poi l’assassino invisibile è già questo penoso sforzo di configurazione.

Asimmetria di destino: la poesia invece completamente al bando, punita per sempre, condannata alla sparizione, esiliata à jamais, la poesia sur place viaggia alla massima velocità (Hurlements en faveur de Masoch?), folgorante, spettrale e impercettibile. La poesia è questa meravigliosa paramourboomerang che risorge sempre, illesa, armata. Imprevedibile. Lo Spettacolo si è mutilato dell’Irripetibile, la mirabile visione del fugace che sorge dalle onde e vi ritorna. Dietro l’esercizio della poesia moderna, discutibile esercizio, nient’affatto legato a qualche purezza ma semmai alla corruzione più profonda, c’era appena dietro, irriconosciuta, l’imprendibilità stessa della vita (la seconde moitié de l’art direbbe Baudelaire). Tutti hanno avuto interesse a liquidarla ma nessuno ne ha mai avuto i mezzi, Capitale, Spettacolo o AntiSpettacolo normativo. L’imprendibilità della vita, infatti, se ne sbatte sovranamente delle ingiunzioni prescrittive del sujet paranoïaque de l’Histoire, che può solo, ripetitivamente, (con)-naître.

La Poesia ha già deliberato da tempo, la massima piattaforma di rivendicazione (grazie a Marie Daubrun) è luxe, calme et volupté (subito, gratuiti), si tratta di prenderne le conseguenze, con insolenza, forse, ma soprattutto con aurorale chiarezza, e girare la maniglia. “E se diventa consapevole di quest’unicità, attorno a lui si diffonde uno splendore inconsueto, lo splendore di ciò che è insolito” (F. Nietzsche, Terza Inattuale)

Non ho più o meno nient’altro da dire, e all’interno dell’Irrevocabile che mi supera prendo comunque la decisione di lasciarvi e di andarmi a fumare una sigaretta, ulteriore clessidra, credo che tutto quanto ho detto sia solo un gesto che nel momento di depositarsi su una banda o su una pagina muoia senza senso, vaneggiamenti di attore e per di più attore moderno in epoca di comparse museali. Ma dell’attore moderno ho anche l’infallibilità (che già Nietzsche cent’anni prima aveva teorizzata, incompreso) ovvero anche se avessi detto delle menzogne queste risulterebbero comunque vere nel gioco tattico delle circostanze.

Per dire la verità (!?), l’infallibilità e la fallibilità più assoluta coincidono e si elidono in un punto che è appunto lo spazio di questo grano di cenere.

Ah, dimenticavo, rimane da spiegare il titolo di questo mio intervento, Debord appone questa frase al termine delle sue Mémoires, dopo un grafismo scarlatto di Asger Jorn, incolla questa frase, détournement, frase di Charles Baudelaire

Je voulais parler la belle langue de mon siècle

[Testo tratto da Il mondo è già stato filmato, si tratta ora di trasformarlo. Guy-Debord e il cinema, a cura di Monica Dell’Asta e Marco Grosoli, ETS, Pisa, 2011].

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