Gli spettri del capitale. Introduzione
di Mario Pezzella
I testi di Johnny Costantino, Mario Pezzella e Alessandro Simoncini – alcuni dei quali compaiono qui in versione leggermente ampliata – sono apparsi sul numero 11-12, 2014 della rivista “Il Polnte”, il cui direttore Marcello Rossi ringraziamo per il permesso di pubblicazione. Il fascicolo monografico, dedicato interamente al rapporto tra cinema e capitalismo, si intitola “Gli spettri del capitale. Cinema e pensiero critico”. È stato curato da Mario Pezzella, il quale ha scritto anche l’interessante introduzione che segue.
Questo numero prosegue la riflessione sul rapporto tra cinema e pensiero critico, iniziata nel 2008 con Il cinema non è il cinema[1]. I film –si diceva allora- non possono essere ridotti a esempi di sistemi filosofici (come se esistessero film heideggeriani, aristotelici e -perchè no- vattimiani o cacciariani). Il cinema è oggetto e soggetto di pensiero nella misura in cui contribuisce ad articolare lo spazio e il tempo della modernità, la partizione del sensibile, nella quale si cristallizzano le sue forme percettive. L’ordine simbolico in cui viviamo non è affatto neutro: è quello del capitale e del suo dominio. E’ un orizzonte di senso che nulla sembra trascendere; e pure è percorso da crepe e brecce che ne incrinano lo spazio.
In questo “speciale” cerchiamo di considerare come il cinema abbia rappresentato l’ordine del capitale e le soggettività ad esso corrispondenti: tenendo ben presente la storia più recente, in cui dilagano l’astrazione finanziaria e il nuovo autoritarismo politico che ne deriva.
Continuo a pensare che si debba distinguere un cinema “spettacolare”, apologetico dell’esistente, e un cinema critico-espressivo: o che –per usare la terminologia di Benjamin- esista una differenza decisiva tra immagini di sogno e immagini dialettiche[2].
In un luogo decisivo del suo libro Immagine-tempo, Deleuze parla del rapporto tra il cinema come arte industriale -e il denaro. Tale legame affiorava già nel cinema di immagini-movimento, ma era latente, indiretto, come la dimensione stessa del tempo. Nelle immagini-tempo diviene consapevole oggetto della rappresentazione: è il fondo oscuro da cui procede lo sdoppiamento di ogni superficie, la verità non immediatamente dicibile, la frase che non si può dire, l’occulto dio minore della produzione.
E’ una virtualità che coesiste in permanenza con l’attualità dell’immagine. Il denaro è infatti -come Marx aveva compreso- l’agente stesso della costituzione del tempo nell’ordine simbolico entro cui siamo destinati a vivere: “Il denaro è il rovescio di tutte le immagini che il cinema mostra e monta a diritto, così che i film sul denaro sono già, benché implicitamente, film nel film o sul film”[3].
Da cosa deriva la natura metacinematografica dei film in cui compare il denaro e che Deleuze trova esemplarmente presente nell’Argent di Bresson? Se il cinema è o diviene rappresentazione di immagini tempo, il denaro d’altra parte scandisce con la sua circolazione la temporalità propria dell’ordine del capitale, e cioè la nostra. Raffigurare tempo –per noi- significa inevitabilmente descrivere il movimento astratto del denaro e i suoi cicli di produzione e circolazione. Nell’ordine simbolico del capitale, “il denaro è tempo”[4](104), “con uno stesso movimento il cinema affronta il suo presupposto più intimo, il denaro, e l’immagine-movimento cede il posto all’immagine-tempo”[5].
Non è un caso che Deleuze scelga L’argent di Bresson, come caso emblematico di rappresentazione del denaro. Fin quasi dalla prima inquadratura del film, assistiamo al passaggio di cartamoneta da una mano all’altra. E’ una banconota falsa a produrre le conseguenze più remote e disastrose, è la circolazione del denaro falso a determinare il destino tragico del protagonista, ma anche la forma di montaggio del film, in cui i raccordi e i passaggi da una sequenza all’altra sono sovradeterminati dai trasferimenti di moneta (e non dai normali legami senso-motori del cinema narrativo). In tal modo Bresson crea un’atmosfera di astrazione rarefatta, che corrisponde perfettamente al suo oggetto.
Senza espliciti enunciati ideologici, il film ci mostra la micrologia di atti quotidiani, in cui il denaro funziona come arconte demonico dell’esistenza, distruttore dell’umano e –per il cattolico Bresson- di ogni possibilità della Grazia. Il regista ci descrive la fenomenologia quotidiana di una religione demoniaca, che per contraffazione e dislocamento diviene il culto sans trêve et sans merci, di cui parla Benjamin nel suo frammento Il capitalismo come religione[6]. Che la banconota da cui inizia la circolazione demonica sia falsa, non deve far pensare che il film di Bresson descriva un’eccezione, ed esista altrove una sfera in cui denaro e autenticità possano coesistere. La propagazione del falso potrebbe essere fermata facilmente, se non fosse sollecitata dalla speculazione e dall’ansia di accumulazione, che il denaro “autentico” contiene in sé, dalla quale spunta sorgivamente lo stimolo alla falsificazione.
Nella diffusione del falso è poi implicita l’idea che si possa artificialmente superare ogni limite psichico e morale, e –in questa pretesa- cova in germe la possibilità della vera e propria pazzia. La moneta falsa –in lento contagio- rende folle al suo passaggio ogni frammento di mondo. Come ha commentato G. Fofi, “in Bresson la conclusione è amarissima: nel suo ultimo film L’argent, il regista ha espunto dal racconto tolstojano che il film segue passo passo tutta la seconda parte, l’esatta metà del racconto, sicché vediamo tutte le nefaste conseguenze che l’attrazione del denaro ha sugli individui, di persona in persona, di ambiente in ambiente, di caso in caso, ma non vediamo come dal sacrificio (la vecchia che si lascia uccidere, che perdona il ladro che la uccide) nasca una catena contraria, nascano i risarcimenti del bene. La catena del male può essere interrotta da una singola azione giusta, dice Tolstoj, ma Bresson lo nega drasticamente, lo rifiuta. Non c’è speranza né riscatto per l’uomo, non c’è salvezza. Il regista del Diario di un parroco di campagna, il cui protagonista bernanosiano concludeva in punto di morte, nonostante la constatazione della prevalenza del male, che ‘tutto è grazia’, non vede più grazia in nessuna storia, in nessuna società, in nessun uomo”[7].
Il film è l’ultimo di Bresson, del 1983, in anni in cui già inizia il dominio totalitario del capitale finanziario, che poi porterà fino all’estremo la speculazione fondata sul falso e sull’inversione del dato produttivo. La negatività de L’argent è già quella senza remissione, che ricompare molti anni più tardi in Cosmopolis di Cronenberg.
La costituzione temporale operata dal capitale è tuttavia complessa e contraddittoria. Come ha affermato Debord nel capitolo VI della Società dello spettacolo, il tempo della produzione segue in primo luogo un modello lineare, irreversibile, di crescita e di sviluppo. Il presente è dato per essere trasceso, in un incremento continuo delle quantità di merce prodotte e del profitto che ne deriva. A questa forma temporale se ne sovrappone però un’altra, che Debord definisce pseudociclica, ed è una sorta di caricatura o détournement degli antichi processi naturali. L’incremento di valore al termine di ogni ciclo produttivo deve anche essere realizzato, e la merce ogni anno venduta e consumata. La sua novità, apparente, deve consentire ogni volta il meccanismo sempre uguale della sua trasformazione in denaro, ed è funzionale alla ripetizione del ciclo. Ma questa complementarità delle due forme di tempo è anche una contraddizione: perché il tempo della produzione può divergere da quello del consumo, il ciclo della riproduzione del capitale conoscere un arresto, una esitazione, una crisi. “Mentre il consumo del tempo ciclico delle società antiche –afferma Debord- era in accordo col lavoro reale di queste società, il consumo pseudo-ciclico dell’economia svilluppata si trova in contraddizione col tempo irreversibile astratto della sua produzione”[8].
Tale contraddizione emerge nella moda, nelle sue feste ricorrenti, nella sua obbligata preformazione e seduzione del desiderio. Il tempo slanciato verso il futuro della produzione di capitale confligge con quello ciclicamente incurvato della sua riproduzione reale; la ripetizione occlude la differenza, le dimensioni temporali si scindono dal tessuto della durata soggettiva singolare, e divengono funzioni impersonali del movimento del capitale. Ripetizione del passato, attesa del futuro, trascendimento dell’attimo presente, non sono più qualità dell’esperienza come nelle Confessioni di Agostino, ma contraddittorie espressioni del movimento del denaro, di fronte a cui la soggettività del lavoro e del corpo vivo si trova decentrata, deambulante, estraniata.
Quando Deleuze parla dell’aspetto metacinematografico della rappresentazione del denaro, non si riferisce solo ai film in cui quest’ultimo costituisce l’oggetto esplicito ed evidente della visione, come avviene in effetti nell’Argent di Bresson o nell’Eclisse di Antonioni. E’ la stessa immagine-cristallo, nella sua generalità, a conservare un riferimento mediato al denaro. Nella formula marxiana della valorizzazione, D-M-D1, sussiste una discrepanza, uno scambio ineguale, in cui il valore della forza-lavoro si intensifica in una creazione ulteriore, un valore-fantasma nato si direbbe dal nulla, e in effetti estratto dai corpi viventi che lo hanno generato. Ad ogni momento della produzione, questi si sdoppiano nella propria realtà attuale e nel fantasma virtuale del più-di-valore, che però ha figura estranea, incongrua, che non gli pertiene.
L’immagine-cristallo è essa stessa -secondo Deleuze- rappresentazione di uno scambio ineguale, di una duplicazione (inversione, fantasmagoria, raddoppiamento, rilancio, virtualità) che non permettono ad alcun dato o presente di consistere in se stesso, ma lo decentrano e lo spaesano: realtà che non può non essere ulteriore a se stessa, eccedersi, essere più e meno di ciò che è, nell’instabilità continua del proprio valore. L’immagine-cristallo esibisce un più di valore rispetto alla sua apparenza immediata: “Il film nel film esprime il circuito infernale tra immagine e denaro, inflazione che il tempo mette nello scambio…L’immagine cristallo riceve così il principio che la fonda: rilanciare senza tregua lo scambio asimmetrico, ineguale e senza equivalente…”[9]. Essa è così l’unico tipo di immagine che possa rappresentare, per un’analogia profonda e non casuale, il movimento del denaro, l’unica che ne sia una effettiva allegoria.
E’ difficile rappresentare cinematograficamente l’astrazione invisibile del denaro, l’essere teologico della merce, l’inversione feticistica del vivente, come aveva intuito Ėjzenštejn nei suoi appunti per un film sul Capitale[10]. Ancor più difficile oggi, quando il capitale finanziario ha accentuato e portato a compimento l’immaterialità dell’intero processo produttivo. Il movente del modo capitalistico di produzione, come diceva Simmel, patisce della stessa mancanza di visibilità del Dio di Cusano, per quanto ne sia la perversione demonica: è altrettanto immateriale, extrasensibile, intangibile. Un derivato è assai più complesso da comprendere della prova ontologica dell’esistenza di Dio. Più che con palpabile e materiale oggettività, dobbiamo trattare con tracce fantasmagoriche, spettralità fuggevoli, vertigini del senso, e risalendo questi inferi caliginosi muovere verso il dolore e il desiderio dei corpi e delle menti asserviti.
Ciò conferma l’intuizione di Deleuze a proposito dell’immagine cristallo, di cui possiamo considerare una sottospecie l’immagine-denaro: più che creare effetti o illusioni di realtà ricorrendo alla tradizione delle immagini-movimento e del cinema d’azione, il metacinema finanziario dovrà ricorrere alle visioni astratte, decentrate e deambulanti, continuamente slittanti, caratteristiche delle immagini-tempo. Le sue descrizioni ottico-sonore sono in profondità corrispondenti alla fenomenologia effettiva del capitale, ne invertono per così dire l’inversione, mostrandone l’intimo, terrificante spaesamento. Il tempo diretto e dilatato della visione è proprio quello del denaro, benche sottoposto a una disamina critica, che ne mette in evidenza la linearità omogenea, vuota, sempre-uguale.
In uno dei frammenti che compongono il grande mosaico del film di Kluge Nachrichten aus der ideologischen Antike: Marx – Eisenstein – Das Kapital, è usato un procedimento interessante, suggerito dagli appunti stessi di Ėjzenštejn. Si tratta di un breve film di T. Tykwer, The Inside of Things. E’ inquadrata una ragazza che cammina in una anonima strada berlinese. L’apparenza dell’immagine è quanto di più insignificante si possa immaginare. Se ora qualcuno aggredisse la donna e cominciasse un inseguimento disperato per le vie della città, avremmo l’inizio tipico di un film d’azione; l’anonimia dell’immagine si scioglierebbe incompresa e irriflessa in una serie di legami senso-motori, in un percorso di distrazione, di astrazione crescente, di allontanamento da essa.
Non accade nulla di tutto questo. Tykwer applica piuttosto un procedimento che potremmo definire micrologico. Utilizzando mezzi specificamente cinematografici (dal ralenti allo zoom al primissimo piano) egli esplora il visibile apparente dell’immagine, portando in evidenza ciò che in quel visibile era pur contenuto, ma era escluso dalla percezione. Tale rimosso, in generale, altro non è che l’essere onnipervasivo del capitale e della merce. Così il numero civico inquadrato in primo piano, la cui storia è raccontata dalla voce fuori campo, rinvia alla governamentalità specifica del tessuto urbano nei primi decenni del Novecento; o le scarpe della ragazza, seguite nella loro stratificata materialità, riconducono a tutti i processi di sfruttamento che quel pellame ha richiesto prima di essere lì, come articolo di moda: “Per una decina di minuti una voce off isola uno per uno i vari elementi componenti l’immagine bloccata: un citofono, la serratura di una porta, il numero civico, le scarpe di pelle della donna, la sua borsa e così via. Uno per uno questi oggetti vengono analizzati: dove sono stati fatti? In che periodo storico sono stati inventati e hanno iniziato ad essere prodotti? dove sono fabbricati, etc.? In una parola: qual è la loro storia, economica ma non solo?”[11].
Ėjzenštejn fa un esempio analogo, che ben esprime questa attenzione micrologica[12]. La descrizione perforante di un fenomeno porta a una situazione ottico-sonora pura, in cui l’essere di per sé inapparente della merce e del capitale affiora nella stratificazione interna del fenomeno stesso, nella sua genesi resa percepibile. L’immagine anonima diviene dialettica, pulsante di contraddizione e conflitto, potenzialmente sovversiva.
Debord applica un procedimento non troppo dissimile, ma ad un livello superiore di astrazione. L’immagine di partenza appartiene all’universo della pubblicità, della merce, della circolazione del denaro, ai telegiornali che ne illustrano e ne giustificano il potere. Qui si tratta di passare dall’effetto di fascinazione, con cui l’immagine merce è stata inizialmente concepita, all’effettiva astrazione e separazione che ne compongono la genesi: segmentare la fusione in Uno, suggerita dalla fantasmagoria, e mostrare la scissione del concreto, occultata dal feticismo. Per fare ciò, Debord ricorre a tutte le modalità caratteristiche del détournement: ripetizione, arresto, citazioni di immagini spettacolari estratte dal loro contesto e isolate nella loro impersonalità (quelle pubblicitarie) o distolte a un significato totalmente alternativo (quelle dei film spettacolari americani).
Laddove la fantasmagoria e l’immagine spettacolare creano l’illusione utopica di una ideale fusione di desiderio e appagamento attraverso la realizzazione del valore di scambio, il procedimento micrologico scompositivo di Debord mette a nudo il carattere astratto ed estraniato della fascinazione. Ciò che sembrava debordante di sensazione e sentimento non è che lo straccio variopinto che copre lo scheletro ossuto del denaro. Simultaneamente e solo allora è possibile mostrare come il desiderio sia altrove, segua cioè un percorso discontinuo rispetto al dominio astratto del capitale. Certo, Debord è ben consapevole che le immagini di sogno lo incorporano e lo esprimono effettivamente per noi: ma in una deformazione caratteristica che ne rende impossibile la realizzazione. Non si tratta di abolire il desiderio in nome della negatività critica: ma di liberarlo dall’incorporazione nel valore di scambio, che lo rimodula in pulsione di godimento coatto e di morte.
Lang in Metropolis o Chaplin in Tempi moderni hanno raffigurato il processo produttivo del capitale mostrando il brutale e materiale sfruttamento dei corpi asserviti e ibridati con la macchina. Quest’ultimo appartiene ancora al dominio visibile, concreto, ostensivo del capitale, al suo inferno in atto. L’inquadratura dell’operaio quasi crocefisso alle lancette del grande cronometro, che ritma coi suoi ingranaggi la scansione dell’attività produttiva, esprime la tirannia del tempo di lavoro sulla vita (Metropolis). Chaplin filma una versione comica della stessa oppressione: la folle “macchina-mensa”, che dovrebbe far risparmiare tempo libero, in una apoteosi grottesca del plusvalore relativo, mentre poi l’ingranaggio aggredisce e quasi soffoca il malcapitato.
La materialità del processo di sfruttamento appare anche nel notevole film di Wajda, La terra della grande promessa, dedicato all’accumulazione primitiva e alla prima rivoluzione industriale. L’emergere del capitale dalla violenza originaria della sottomissione, la distruzione della fabbrica artigiana e il passaggio dalla manifattura all’industria, la disgregazione del mondo nobiliare e dei suoi valori, la distorsione delle religioni (quella cattolica, quella protestante e quella ebraica) in teologie del denaro, subordinate al suo spirito dominante: tutto questo è reso con il ritmo slittante del montaggio, che sembra riprodurre mimeticamente la scansione meccanica e la frenesia dell’accumulazione[13].
Lang, Chaplin, Wajda, possono ancora affidarsi al cinema di immagini-movimento, al decorso di una storia, alla linearità della formazione o del decadimento di un eroe-personaggio: il nemico contro cui ci si scontra, il duello decisivo, è fisicizzato dalla violenza esercitata sui corpi dai “padroni” e signori, dall’asservimento materiale alla macchina. La traformazione del vivo nel morto, in valore astratto, viene mostrata nella sua spietata durezza: la matrice del processo del capitale appartiene per intero alla materialità e può essere recuperata al visibile, perforando l’ideologia o l’utopia che la nasconde.
Questa immediatezza di rappresentazione è divenuta oggi decisamente problematica. Se Lang o Chaplin mostravano le condizioni del lavoro fordista, o per lo meno la sua componente materiale e corporea, è più difficile restituire in immagini l’aspetto immateriale, astratto del lavoro mentale, che ora si affianca alle forme più arcaiche di subordinazione. Si affianca ad esse, per altro, senza sostituirle del tutto, perché la raffinata astrazione del capitale è parallela ad una accumulazione originaria –in gran parte del mondo- di inaudita ferocia. Il problema sarà proprio di mostrare l’interconnessione tra materialità e immaterialità del lavoro, tra astrazione e nuda violenza, che –nell’ideologia e nell’utopia del capitale- dovrebbero escludersi, e invece costituiscono una simultaneità complementare, i poli costitutivi della medesima realtà.
La polarità astrazione-violenza e il paradossale incremento di entrambi gli estremi, a differenza da quanto ci dicono i cantori del capitalismo cognitivo, è al centro dei due film, che mi sembrano gli esempi più riusciti di rappresentazione cinematografica del capitalismo attuale: Cosmopolis di Cronenberg e Pietà di Kim Ki Duc. Entrambi non possono affidarsi alla struttura narrativa del film di immagini-movimento e tanto meno alla costruzione di archetipi eroici, in lotta per il bene e per il male, come nella tradizione del cinema spettacolare americano. Il personaggio dovrà se mai divenire così astratto e incorporale come nelle figurazioni di un mosaico allegorico, sofferente di un vuoto abissale di psiche, narcisista assoluto che mima il moto impassibile e sobbalzante del valore di scambio.
A differenza di Ėjzenštejn, quando scriveva le sue note per il film sul Capitale, noi non pensiamo di possedere un punto di vista esterno, rivoluzionario e trascendente rispetto alla situazione esistente: “Come è possibile vedere un oggetto se ne siamo all’ interno? Come è possibile guardare in faccia il capitalismo? Come è possibile, se la crisi economica è un sintomo del capitalismo, metterla in immagini per guardarla, dal momento che ci siamo costitutivamente dentro?”[14]. La nostra intenzione critica non può interamente uscire dall’orizzonte del capitalismo e procede da un punto di vista che in una certa misura è interno ad esso, da una sua piega irrisolta, da una crepa intravista, dalla breccia improvvisa che si apre in luoghi apparentemente marginali. La rappresentazione deve arrischiarsi in contingenze e parzialità, come ben si vede nel film-mosaico di Kluge o in Filmsocialisme di Godard, composizioni di frammenti, interviste, figurazioni interrotte. Il film sul capitale esibisce una natura problematica, associazioni di tracce ambivalenti e non il salto qualitativo auspicato dal cinema rivoluzionario sovietico. Questa indeterminazione e mancanza di prospettive positive non è necessariamente un limite dei film in cui affiora, ma può essere il riconoscimento di una condizione di necessità, di una contraddizione in atto e in sospeso. Un simile atteggiamento è pur sempre preferibile alla sicurezza “spettacolarizzata”, con cui si pretende di distinguere il bene e il male all’interno del capitale, rimanendo all’interno del codice conciliativo della “grande narrazione organica” del cinema americano.
Il capitalismo finanziario cattivo può davvero essere distinto dal capitalismo produttivo buono, come avviene nei film di R. Moore o di O. Stone? Oppure si produce in tal modo solo un’immagine di sogno, che vela la ghiacciata astrazione e la nuda violenza del capitalismo attuale? Il buon capitale “produttivo” diviene l’armonia perduta, la comunità armoniosa, da recuperare e restaurare su un piano più alto, redenta dagli speculatori, come gli allevatori vengono salvati dai ladri di bestiame in un western classico. In tale schema si può applicare il montaggio narrativo descritto da Deleuze nell’Image-mouvement, con le sue stazioni di formazione dell’eroe e la struttura S-A-S1. I film sul capitale finanziario possono rientrare così in un “genere”, rassicurante e privo di scarti.
L’idea di un capitalismo produttivo armonico e originario è pura fantasmagoria. Secondo Marx, il capitale finanziario è l’articolazione finale e necessaria di quello produttivo, le crisi sono ciclicamente inevitabili, lo sviluppo del credito è una indispensabile compensazione della caduta del saggio del profitto; l’immagine buona del capitale produttivo è afflitta in realtà da un profondo feticismo, che trasfigura e occulta tutti i momenti reali della produzione: “Il capitale si presenta come la fonte arcana e che da sola genera l’interesse, il proprio accrescimento. Adesso la cosa (denaro, merce, valore) come semplice cosa è già capitale ed il capitale si presenta come semplice cosa…”[15]. Nel capitale finanziario giunge a compimento il feticismo quale forma generale di vita, che occupa Marx fin dall’inizio della sua analisi. L’immagine di sogno che oppone capitale produttivo e capitale finanziario, come in un duello western, vela la dialettica che prevede il rovesciamento continuo del credito in debito e la complementarità dei due fenomeni.
Ancora il film di Wajda mostra in modo incomparabile come all’origine del capitale non ci sia la costituzione di una armonica comunità produttiva, ma la distruzione radicale di ogni precedente legame comunitario e come la morsa del credito –certo giunta oggi a una superfetazione inimmaginabile- si associ fin quasi da principio al momento della produzione reale.
Il rapporto fra debito e credito è ineliminabile dal capitale, non solo come categoria economica, ma quale fattore costituente di forme di soggettività: e in particolare oggi è divenuto un elemento decisivo nella sua esistenza. Il credito sollecita una spinta soggettiva all’illimitato, all’eccesso, all’incremento, indipendentemente dalla presenza o assenza di fondamenti materiali della pulsione. In questo senso, utilizzando i termini di Lacan, Zizek ha potuto parlare di un imperativo categorico al godimento, pronto a rovesciarsi in una fascinazione di morte. E’ un’esaltazione dell’immateriale concrescere delle merci e del consumo, imperativo pulsionale illimitante, che si instaura anche nella sfera sessuale, sentimentale, psichica.
Correlativa, speculare e inversa è la malinconia del debito-colpa (su cui Benjamin ha scritto un frammento ormai molto discusso)[16]. La dimensione del debito e del fallimento economico si dilatano in forma etica, morale autoritaria, punizione dell’insolvente, umiliazione del peccatore, rivelando il fondo teologico distorto della finanziarizzazione, dell’usura, del traffico bancario. L’essere illimitante del credito si rovescia costantemente nel non-essere colpevolizzante del debito, l’imperativo al godimento nella pulsione di morte, l’incremento del valore nella sua distruzione ciclica. Il capitale non è l’uno o l’altro di questi due poli: è questi due poli, nella pulsazione del loro movimento reciproco incessante. Il capitale è dialettica in sospeso, nella permanente corrosione del vivente.
FILMOGRAFIA
L’argent, Robert Bresson, 1983
Cosmopolis, David Cronenberg, 2012
L’eclisse, Michelangelo Antonioni, 1962
Metropolis, Fritz Lang, 1927
Nachrichten aus der ideologischen Antike: Marx – Eisenstein – Das Kapital, Alexander Kluge, 2010.
Tempi moderni (Modern Times, Charlie Chaplin, 1936)
La terra della grande promessa (Ziemia obiecana, Andrzej Wajda, 1974)
[1] Il Ponte, n.4, aprile 2008, a cura di R. Genovese, M. Pezzella e A. Tricomi.
[2] Per il rapporto tra cinema e filosofia rinvio a due interessanti libri recenti: P. Bertetto, Microfilosofia del cinema, Marsilio, Venezia 2014; D. Angelucci, Filosofia del cinema, Carocci, Roma 2013. Per L’immagine di di sogno e l’immagine dialettica in Benjamin, rinvio al mio Insorgenze, Jaca Book, Milano 2014.
[3] G. Deleuze, L’image-temps, Ed. de Minuit, Paris 1985, p.104.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p.105.
[6] Cfr. la traduzione di C. Salzani, in W. Benjamin, Capitalismo come religione, Il Melangolo, Genova 2013.
[7] G Fofi, nel sito http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/grandi-registi-davanti-a-gesu-fofi.aspx, “I grandi registi davanti a Gesù”.
[8] G. Debord, Oeuvres, Gallimard, Paris 2006, p. 834.
[9] G. Deleuze, L’image-temps, cit. p. 105. All’altro estremo, l’immagine-cristallo esprime la pluralità e la molteplicità delle faglie di tempo, il passato virtuale che accompagna l’attualità del presente: sdoppiamento non interamente riducibile a quello del denaro. Su questa ambivalenza di carattere teologico gioca l’Argent di Bresson.
[10] Sergej Ejzenštein, Come portare sullo schermo il Capitale di Marx, in Ejzenštein, FEKS, Vertov, Teoria del cinema rivoluzionario. Gli anni Venti in URSS, a cura di Paolo Bertetto, Feltrinelli, Milano 1975, p. 176.
[11] Cito dal saggio di P. Bianchi, Ejzenštein occupa Wall Street, Note sul capitalismo e la sua immagine, presente in questo stesso numero.
[12] “Durante tutto il film la moglie cuoce la minestra per il marito che torna a casa. N.B. Si possono avere due temi intersecantisi per associazione: la moglie che cuoce la minestra e il marito che torna a casa. L’associazione nella terza parte va (ad esempio) dal pepe col quale lei condisce: Pepe: Caienna. L’isola del diavolo. Dreyfus. Lo sciovinismo francese. Il “Figaro” nella mani di Krupp. La guerra. Le navi affondate nel porto. (Certamente non in tale quantità!!) N.B. È bello per la sua originalità il passaggio: pepe – Dreyfus – Figaro. Le navi inglesi affondate (secondo Kushner “103 giorni all’estero”): sarebbe bello ricoprirle col coperchio della pentola. Potrebbe anche non essere il pepe, ma il petrolio per la stufetta a kerosene con passaggio nell’ “oil”. Cit. nel saggio di P. Bianchi, in questo numero.
[13] Il film va visto nella sua edizione originale, di cui sono riuscito a trovare una copia nella Mediateca Regionale di Firenze. La versione rivista da Wajda più di recente (quella dei DVD in commercio) opera una vera e propria autocensura, tagliando quasi mezz’ora di film, e a mio avviso diminuendone la forza espressiva.
[14] P. Bianchi, articolo cit.
[15] K. Marx, Il capitale, Newton Compton, Roma 2011, p. 1179.
[16] Rinvio per una bibliografia essenziale sull’argomento a Insorgenze, cit. p. 105 e sgg.
[cite]
tysm literary review
vol. 21, issue no. 22
march 2015
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