philosophy and social criticism

La vita non passa per la cruna dell’Ego

Paolo Virno

Raffaele La Capria, Lo stile dell’anatra, Mondadori, Milano 2001.

L’ anatra procede imperturbabile sullo specchio d’acqua, senza fatica apparente. Nessun virtuosismo o arzigogolo ne turba l’andatura spedita. Il suo movimento è talmente disadorno da sembrare triviale. Sotto la superficie, però, le zampe stantuffano senza posa, con un ritmo sapiente. Questa alacrità inavvertita, cui mai andrà un applauso a scena aperta, è o dovrebbe essere un modello: per la scrittura, certo, ma anche per i comportamenti etico-politici. E’ quanto sostiene Raffaele La Capria nell’ultimo suo libro di digressioni saggistiche, titolato per l’appunto Lo stile dell’anatra, che riprende e rinnova un canovaccio già presente in L’armonia perduta (1986), Letteratura e salti mortali (1990), La mosca nella bottiglia (1996). Questi testi, non poco polemici nei confronti di chi nuota esibendo di continuo il movimento delle zampe (fino a fare di esso il vero tema del racconto o della condotta civica), costituiscono altrettanti tasselli di un’autobiografia intellettuale, tanto più personale, quanto meno un Io ben profilato viene innanzi a concionare.

La Capria è autore di un piccolo classico del secondo Novecento, quel Ferito a morte (1961) in cui natura e storia, destino individuale e spirito del tempo, buffonata e tragedia si amalgamano senza residui. Più generazioni di lettori hanno trovato, in quelle pagine, le “parole per dirlo”: per dire un fondale marino, un amore andato a male, la struggente caducità di una bella giornata mediterranea, la paralisi della volontà, la violazione del limite che già lascia presagire l’immancabile nemesi. Questo romanzo, così poco italiano e niente affatto “napoletano”, ospita in sé un’intera partitura di conversazioni dissonanti, voci dal sen fuggite, impudiche ruffianerie, amarezze troppo compiaciute. Molti ricorderanno la spirale di chiacchiere con cui protagonisti e comparse ingannano il tempo in un interminabile pomeriggio al Circolo nautico, nella Napoli del dopoguerra. Lo stile dell’anatra censisce e passa a contropelo altre chiacchiere, non meno avvolgenti, che si affastellano in un immaginario Circolo nautico di inizio millennio. Si tratta dei blabla postmoderni, così scafati e prodighi di citazioni, che promanano dall’industria culturale e dalle consorterie politiche della seconda repubblica. Di questa pletora di voci ammiccanti o perentorie, e degli antidoti eventuali da opporre loro, discorriamo con Raffaele La Capria.”Lo stile dell’anatra” e il suo immediato antecedente, “La mosca nella bottiglia”, tessono l’apologia del senso comune. Quest’ultimo, nulla avendo da spartire con il conformistico “buon senso”, è preso a unità di misura di ogni avventura intellettuale e artistica. Non crede, però, che il senso comune, anziché punto di partenza, sia il risultato provvisorio di battaglie in cui si affrontano orientamenti avversi?

Certo, tant’è che spesso si tratta di un “dissenso comune”, dunque di una protesta o di una rottura. Basti pensare al Vangelo: lì affiora, con parole semplicissime, un intendimento del mondo e della vita che sconfisse le grandi costruzioni concettuali della filosofia greca. Diciamo che per me il common sense è un’arma da combattimento, a volte impropria, a volte ironica, non sempre ammissibile dal punto di vista filosofico. Un’arma per sfatare la “chiacchiera alta”, la chiacchiera culturale che di questi tempi esercita una vera e propria dittatura sul pensiero. Rifarsi al senso comune è un atto anarchico di libertà. Poiché non sono un filosofo, ma un artista, cerco di esprimermi con un linguaggio che contiene implicitamente la dimostrazione della cosa che voglio asserire: con un linguaggio, dunque, che esemplifichi la libertà del senso comune.

Nell'”Anatra”, lei dice che bisogna puntare a uno stile “diretto ma non spontaneo”, a una “semplicità non ingenua”. La scrittura che lei predilige, ma per altri versi anche il senso comune, sarebbero quindi l’esito di un lavorìo complesso…

Sono il frutto di una elaborazione lunga e difficile, ma non esibita. Tanto il senso comune che lo stile diretto si giovano del movimento delle zampe dell’anatra sotto il pelo dell’acqua. Tutte le cose semplici e spontanee, nell’epoca postmoderna (parolona orrenda, mi scusi, ma serve per far prima), sono ottenute, non più donate; sono ottenute mediante una caparbia volontà di mantenersi collegati con la natura umana, con quella natura originaria dell’uomo che oggi sembra pressoché inattingibile.

Si potrebbe dire che la “semplicità non ingenua” viene ‘dopo’ aver masticato e digerito l’esperienza delle avanguardie?

Masticato, digerito e rifiutato. Se non avessi conosciuto da vicino, e frequentato a lungo, la tradizione del Novecento, il rifiuto non avrebbe valore alcuno. Nel rifiuto c’è pur sempre il ricordo di un rapporto, di un cammino percorso. Ma alla fine di questo cammino, avverto una stanchezza. Voglio prendere le distanze dal secolo della divisione, dal secolo dello specchio, del labirinto, della frantumazione. Abbiamo innumerevoli cocci a nostra disposizione. Eliot diceva “Non possiamo darti che degli sparsi frantumi su cui batte il sole”. Ecco, questi sparsi frantumi, invece di celebrarli con deferenza, vorrei farli combaciare, ricomporli, con la fatica inappariscente delle zampette dell’anatra. Non ci riuscirò, certo. Ma questa è la mia tendenza, il mio desiderio, la mia nostalgia.

Un capitolo dell'”Anatra” è dedicato al risentimento aggressivo e sguaiato che domina la scena pubblica contemporanea. Un risentimento che avrebbe contagiato anche (o soprattutto?) gli ex-militanti del ’68. Poiché sono un “estremista” non pentito, queste sue pagine mi hanno colpito, in tutti i sensi della parola.

Mi fa piacere parlarne con un estremista. A voialtri debbo riconoscere di essere andati fino in fondo, rischiando. Del resto, nel capitolo che lei ha menzionato, riconosco che il risentimento costituisce talvolta la molla indispensabile per battersi contro l’ingiustizia. E quasi a prevenire l’obiezione del lettore, concludo ammettendo di essere io stesso alquanto risentito nel criticare questo stato d’animo dilagante. Ma il risentimento dell’estremismo di una volta ha poco a che fare con gli attuali estremisti del risentimento, votati all’autopromozione e alla carriera. Ciò che era un rischio, ora è un comodo. La vostra antica rabbia è banalizzata, diventa uno strumento per farsi largo. Voi estremisti dovreste essere più feroci di me nell’avversare il risentimento dominante: esso riduce a farsa il vostro sforzo di cambiare le cose. A guardar bene, vi è poi anche un’accezione positiva di risentimento. Quella letterale: ri-sentire, sentire di nuovo ciò che già si era sentito. Di questa possibilità tengo conto quando immagino la mia anatra risalire all’incontrario, dalla foce verso la sorgente, il grande fiume del Novecento. Si allontana dalla nebbiolina dell’estuario, ri-vede e ri-sente autori e paesaggi già noti, ma in ordine inverso, e quindi cogliendo aspetti che, all’andata, le erano sfuggiti. Questo è un buon ri-sentire, non quello incattivito con cui polemizzo. E’ un ri-sentire che chiamo “recupero redentivo”.

I miei genitori sono napoletani, più o meno della sua generazione. Io stesso sono nato a Napoli. Sicché, quando da ragazzo ebbi tra le mani per la prima volta “Ferito a morte”, fui uno di quei lettori scervellati, da lei temuti come una sciagura, che hanno amato il suo romanzo per “motivi sentimentali”. Ora non più: anzi, considero quel libro una specie di pietra pomice che sfrega via ogni sentimentalismo…

A Napoli succede una cosa terribile. I napoletani investono della loro napoletanità i testi che li riguardano, anche quelli che negano alla radice il modo di essere in cui sono impigliati. Rendono simile a sé anche l’avversario. E’ accaduto a Croce, ridotto a enigmatica rovina azteca in mezzo a una foresta vergine che lo ha fatto suo. Figuriamoci se non accadeva anche a Ferito a morte! Un libro amato per ragioni sbagliate, che spesso mi disgustavano: quasi fosse una canzone ammiccante, consolatoria, nostalgica. In quel romanzo, ho cercato di raccontare una storia napoletana senza ricorrere al punto di vista unico, “padronale” mi viene da dire, del narratore meridionale, ma inventando una polifonia di voci dissonanti che mettesse a nudo le contraddizioni micidiali di una terra e di un’epoca. Eliminare il punto di vista unico, che allora signoreggiava in ogni romanzo meridionale, è stato per me un gesto eversivo, una piccola rivoluzione morale. Più tardi, mi sono accorto che un procedimento polifonico è presente anche in Verga e De Roberto. Ma in questi autori la polifonia nasce dal mimetismo veristico rispetto alla realtà che descrivono. In me, invece, prevalsero ragioni morali.

In “Ferito a morte”, ma poi in molti altri suoi libri e ancora nell'”Anatra”, si trova una piccola frase che disorienta e cattura, simile a un tema musicale sempre ripreso: “La vita è ciò che ci accade mentre ci occupiamo d’altro”.

Nella Mosca nella bottiglia parlo di Rousseau che se ne sta sdraiato sul fondo della barca, guarda un albero, e non pensa a niente. Ecco, solo in questo vuoto percettivo e intellettuale si sente il ronzio dell’esistenza che passa. Solo nei momenti di assoluta distrazione ci accorgiamo che siamo esseri viventi, consumati dal tempo. Quando invece lavoriamo, o facciamo i tuffi, ci dimentichiamo del nostro esistere. E’ questa dimenticanza, del resto, che rende possibile azioni e passioni: se la vita fosse sempre cosciente di sé, sarebbe una cosa molto strana, difficile da sopportare. Della vita che passa, ci avvediamo quando viene meno la presa sulle cose. Di questa distrazione metafisica in cui l’esistenza affiora senza velature ci hanno detto tutto Leopardi e l’Hoffmansthal della Lettera di Lord Chandos.

In “Ferito a morte” vi era una relazione propriamente tragica tra natura e storia. Palazzo Donn’Anna, un artefatto storico, si trasforma gradatamente in rovina, scoglio, paesaggio. E’ come se la natura preindividuale riassorbisse quel poco di realtà individuata che ci tocca in sorte. Invece, in “Capri e non più Capri” le cose cambiano: qui è la natura stessa a mostrare i segni della caducità, del dolore, della catastrofe imminente…

Ha perfettamente ragione. Ho pensato alla natura in due modi diversi. Dapprima l’ho raffigurata come “foresta vergine” che penetra ed espugna ogni avamposto civile. Foresta vergine è quell’impasto vischioso di clima, paesaggio, rassegnazione, autoindulgenza, che nel Sud non si lascia correggere dalla storia, ma anzi la piega a sé, con beffarda indifferenza. Nel Sud, quel che più colpisce è l’incompiutezza della storia, la lacuna, il gesto rimasto a metà. E’ vero, però, che in anni recenti ho parlato di un dolore della natura. La mia generazione ha fatto in tempo a conoscere la natura qual è sempre stata, dalla Bibbia in poi. Ma in seguito, sempre nell’arco di una biografia, abbiamo sperimentato un’incrinatura: il mare, il cielo, la terra a un certo punto non sono stati più gli stessi, hanno subìto una lesione, un appannamento. Un dramma spaventoso, una pena terribile, che non si comprendono appieno se li si riduce a problema ecologico. Va da sé che questo dramma si avverte meglio nei luoghi più belli: è lì che l’incrinatura risalta in modo più struggente.

Nello “Stile dell’anatra” c’è una battuta acre a proposito di Pasolini e di Fortini. Lei scrive che costoro hanno cercato di far passare la storia “per la cruna dell’Ego”.

Pasolini e Fortini furono per me gli esempi più degni di una generazione che ha creduto di stare all’incrocio della storia, come un capostazione incaricato di dirigere, o almeno di registrare, il passaggio dei treni. Ma erano anime generose. Agli occhi di uno come me, più pacato o forse più “buddista”, avevano il difetto di confondere sistematicamente biografia e storia. Non parlo dell’ovvio intreccio tra l’una e l’altra, ma di proiezioni abusive: personalizzavano la storia, e storicizzavano l’Ego. Ma questo, insisto, è il difetto di persone capaci di prodigarsi, appassionate. Il fatto è che lo “spirito del tempo” ci possiede senza clemenza: ci nuotiamo dentro, come in un liquido amniotico, senza radar per orientarci. Solo più tardi, a cose fatte, ne cogliamo la fisionomia e ci meravigliamo, per esempio, che un uomo intelligentissimo come Sartre si sia potuto sbagliare così spesso. Ma la nostra saggezza è retrospettiva. Non bisognerebbe vantarsene troppo.

Le cito alcuni titoli, che a me sembrano apparentati tra loro, nonostante le ovvie differenze: “Tempo di uccidere” di Flaiano, “Una questione privata” di Fenoglio, il suo “Ferito a morte”, “La vita agra” di Bianciardi, in anni recentissimi “Via Gemito” di Starnone. In questi libri gli aspetti più impalpabili dell’esistenza si mostrano attraverso eventi, fatti, cose. Si tratta di una tradizione minoritaria, lontanissima dalle narrazioni gremite di teoria letteraria. E’ d’accordo?

In parte sì. Con una aggiunta per me decisiva: i Sillabari di Goffredo Parise. E’ il libro più importante della recente letteratura italiana. Le parole, lì, riprendono il meglio della pittura “pointillista”: ritraggono cioè la vita per quello che è, mai univoca, somigliante piuttosto a mille fasci di luce che si compongono in una specie di pulviscolo. Sillabari è il libro che vorrei scrivere oggi: stile dell’anatra all’ennesima potenza. Detto questo, i nomi da lei proposti sono tutti validi, con qualche distinguo. Una questione privata mette in risalto con nitore le ragioni prorompenti dell’esistenza individuale sullo sfondo di una catastrofe collettiva. Il libro di Bianciardi, bello, è però troppo vicino alle cose di cui parla: una certa distanza non guasterebbe. Flaiano forse non ha capito quanto importante e innovativo fosse quel suo libro, Tempo di uccidere: sa, alle volte l’autore non si comprende appieno, resta un passo indietro all’opera sua. Un ibrido, Tempo di uccidere: così poco italiano per il disegno generale e la tecnica narrativa, fin troppo italiano invece per il modo in cui parla delle donne e della malattia. Ma bisognerebbe rileggerli, questi libri. Sono come piante seminate dentro di noi, cambiano quando noi cambiamo.

I suoi libri di saggi fanno pensare a un’unica tela, che l’autore ritocca sempre di nuovo, introducendo variazioni e postille. Questo procedimento cumulativo e integrativo è visibile, del resto, anche nelle prove narrative.

Tutti i miei testi, narrativi o saggistici, sono tasselli di una autobiografia. Solo che si tratta un’autobiografia involontaria, in cui parlo di me parlando d’altro, e parlo d’altro parlando di me. Per spiegare la mia vita, devo risalire alla storia della mia città; e per spiegare la mia città servono anche favole, ossia un rigoroso lavorio dell’immaginazione che dia conto di certi enigmi, di certe distorsioni del pensiero e del sentimento. Autobiografico, in questo senso, è un libro come L’armonia perduta, in cui discorro della rivoluzione fallita del 1799. L’individuo è un composto instabile, da indagare mediante digressioni che portano lontano. Ciascuno dei miei libri spiega tutti gli altri, e ne è spiegato. O almeno, così mi piace pensare.

[da il manifesto, 16 maggio 2001]