philosophy and social criticism

Prede umane. Incontro con Grégoire Chamayou

Marco Dotti

Il 16 agosto 1893, in una salina della municipalità di Aigues-Mortes, un operaio italiano lavò la sua camicia sporca di sangue in una tinozza d’acqua potabile. Fu l’elemento scatenante che produsse prima una rissa, poi una vera e propria caccia all’uomo, declinata nella forma della caccia al lavoratore straniero, lasciando sul campo una decina di morti e una cinquantina circa di feriti. A criticare l’espressione ricorrente tra la stampa di «caccia all’italiano» fu Napoleone Colajanni, in un illuminato pamphlet scritto a caldo dopo l’episodio. Non era nell’odio nazionale, infatti, la ragione di un’esplosione di violenza che affondava le proprie radici nella terribile concorrenza salariale tra lavoratori.

La logica di aggressioni e cacce di questo tipo, osserva Grégoire Chamayou, è da rintracciare proprio in un rapporto predatorio reciproco che contrappone lavoratori a lavoratori, poveri contro poveri. La stampa, dopo i fatti di Aigues-Mortes, non stigmatizzo le violenze, ma il fatto che «il poco lavoro che rimane è svolto da stranieri», arrivando a proporre «una forte tassa sull’importazione di quella merce nociva e adulterata che si chiama operaio italiano». Ricercatore presso il Max Planck Institut di Berlino, Chamayou ha lavorato sulla storia della ricerca sperimentale condotta su esseri umani (Les Corps vils, La Découverte, Parigi 2008) e, da ultimo, proprio sul tema della «chasse aux hommes», in un lavoro recentemente pubblicato per i tipi della manifestolibri, Le cacce all’uomo (traduzione di Marco Bascetta, Roma 2010). Ed è appunto sulle questioni sollevate in questo volume che gli abbiamo rivolto alcune domande.

Caccia agli operai, ai neri, agli immigrati, agli irregolari. Che cos’è la caccia all’uomo di cui tratta nel suo ultimo libro?

La caccia all’uomo non è una metafora. Nell’antichità, la cattura avveniva muovendo guerra a intere popolazioni, ridotte così in stato di schiavitù. Aristotele teorizzò questa forma di guerra-caccia: i barbari sono nati per obbedire, essere prede è la loro natura. La Chiesa, da parte sua, ufficialmente non cattura i «suoi» soggetti: mostra il suo potere come quella di un pastore che guida il suo gregge e se ne prende cura. Ma la Chiesa indirizza poi la propria caccia in termini di esclusione (gli eretici, le streghe e via dicendo…). Cacce che paradossalmente vengono condotte in base a un imperativo di protezione: sradicare la pecora nera per evitare il contagio dal branco. Queste sono le due forme classiche della caccia all’uomo, ossia la caccia-cattura e la caccia-espulsione. Il mio progetto è quello di rileggere la storia della filosofia politica, a partire da questa idea centrale: ogni rapporto di dominio presuppone un rapporto di predazione. Michel Foucault, tracciando la genealogia del «potere pastorale», ha mostrato come l’Occidente abbia largamente considerato la politica come una questione di ovile e gregge. Da parte mia, ho cercato di dimostrare che lo si vede anche come un caso di caccia.

In Massa e potere, Elias Canetti ricorda come la volontà di trasformare gli uomini in bestie sia «la più forte determinante nella diffusione della schiavitù». L’energia che viene smossa, osserva ancora Canetti, è «paragonabile a quella della volontà inversa: trasformare gli animali in uomini». Potremmo pensare dunque che ogni caccia abbia come presupposto necessario una serie di pratiche di animalizzazione dell’uomo, e viceversa?

Ripercorrendo la storia attraverso i testi, si ritrovano regolarmente espressioni che animalizzano gli uomini, i cacciati. Regolarmente a questi uomini vengono attribuiti nomi o caratteristiche generalmente riservate agli animali. Gli schiavi per natura, per Aristotele, sono «buoi bipedi». In generale, ogni caccia implica una teoria della sua preda, il che spiega la ragione per la quale alcuni uomini possono essere cacciati e altri no. Questo implica sempre una forma di esclusione teorica, di rifiuto del gruppo delle prede fuori di un ordine comune di appartenenza. Ma allo stesso tempo, è chiaro anche che l’interesse di questo tipo di caccia si basa sul riconoscimento tacito del contrario. L’eccitazione superiore è quella di dare la caccia a esseri dei quali si sa perfettamente che sono uomini e non bestie. Come scriveva Balzac, «la caccia all’uomo dista dall’altra caccia di tutta la distanza che esiste tra uomini e animali». Per il cacciatore, il riconoscimento di tale distanza è necessaria nel momento stesso in cui la nega.

Quella del cacciatore è una specie di sfida sadica e, forse per questo, ancora più rischiosa…

Direi che è il cuore stesso della sua sfida: riuscire a cancellare la distanza tra il cacciatore e la sua preda. Cancellarla non teoricamente, ma nella pratica, attraverso l’atto di catturare o uccidere, grazie al fatto di riuscire a mettere la preda umana nella stessa posizione della selvaggina. Salvo che non si è mai al sicuro da un capovolgimento della situazione. Perché le prede, a volte si riuniscono e si fanno a loro volta cacciatori. È quanto indica il titolo originale del film del 1932 di Irvin Pichel e Ernest B. Schoedsak, The Most Dangerous Game. Se la caccia all’uomo è il gioco più pericoloso, è in ragione del fatto che l’uomo rimane la più temibile delle prede.

Nei fatti di Aigues-Mortes, un ruolo determinante lo giocò il contesto di crisi economica e di precarizzazione salariale, allora come ora «sopportato» dagli strati medio-bassi della popolazione. Le destre riuscirono a capitalizzare le tensioni, schiacciandole e al tempo stesso radicalizzandole sull’opposizione operai francesi contro stranieri. Un discorso che ritorna anche oggi…

In un contesto di crisi sociale ed economica, l’aumento del razzismo, la sua intensificazione e lo sfruttamento sono, ovviamente, il pericolo principale. La xenofobia di Stato può accompagnarsi con quanto Elias Canetti chiamava «muta di caccia», condotta da una parte della popolazione. È successo proprio da voi, in Italia, di recente, a Rosarno. In Francia, alla fine del XIX secolo, abbiamo assistito a fenomeni simili: penso in particolare appunto alla caccia agli operai italiani iniziata a Aigues-Mortes, nel 1893. La violenza non era collegata a una «differenza culturale», ma al fatto che due gruppi, francesi e immigrati italiani, erano stati messi in concorrenza sul mercato del lavoro. L’estrema destra francese vide in questi episodi di caccia ai lavoratori stranieri un elemento da sfruttare e «capitalizzare» nel gioco del potere politico, incitare l’odio per lo straniero contro la solidarietà di classe. Che cosa succederà domani, in Europa, non lo possiamo ancora sapere.

Nel 1848, a Parigi, mentre si assisteva ai primi fenomeni spontanei di caccia ai lavoratori stranieri, alcuni immigrati tedeschi, sui muri della capitale, scrissero: «Ci sono molte altre riflessioni da fare, a proposito della caccia agli immigrati, ma ci limiteremo a questa: è necessario che i lavoratori, i proletari di tutti i paesi si riconoscano come fratelli, vale a dire… in tutti uniti contro gli sfruttatori». Oggi come ieri, la questione non è quello di difendere i lavoratori nazionali dalla concorrenza dei lavoratori stranieri, ma quella di difendere tutti i lavoratori contro la loro messa in competizione ad opera della concorrenza capitalista. Alla xenofobia che divide, è necessario opporre una solidarietà sociale in azione.

Recentemente, in Italia abbiamo assisto all’introduzione di veri e propri «delitti di solidarietà»: medici condannati per aver prestato assistenza, ad esempio. Assistiamo a una novità, o anche qui è rintracciabile se non una genealogia, quanto meno una ratio storica del provvedimento?

Questo tipo di «delitto di solidarietà», è radicato in una lunga storia delle pratiche di messa al bando. Nel diritto arcaico, i fuorilegge non solo erano esclusi dal diritto comune, ma anche espulsi dalla comunità umana. Parlare a chi era colpito da un bando, offrirgli ospitalità, cibo, erano, anche e soprattutto per la sua famiglia, delitti: «Chiunque gli darà il pane … o la copertura, fosse anche sua moglie o suo parente stretto, è colpevole ». Questa è la legge salica.
Misure di questo tipo mirano a vietare le relazioni fondamentali che formano una comunità umana: l’aiuto reciproco e la solidarietà. Ma questi legami sono per noi costitutivi, senza di essi nessun essere umano può sopravvivere. Vietarli equivale a una condanna a morte: dapprima la morte sociale, ma tendenzialmente alla morte tout court. In Francia, negli ultimi anni, le autorità hanno intensificato i piani per limitare gli aiuti medici di Stato, aiuti dai quali dipendono i sans-papier per il loro accesso alle cure. Questo inverno, in base a direttive ufficiali, i sans-papier sono stati esclusi dagli alloggi d’emergenza. L’accesso incondizionato ai diritti si trova di fatto condizionato da un arbitrio statale che definisce la regolarità o meno del permesso di soggiorno. È una politica criminale.

In che cosa, secondo lei, si differenzia il paradigma della caccia all’uomo – se se ne differenzia – da quello della biopolitica?

Dovremmo prima di tutto chiarirci e definire i termini. Biopolitica è termine che tendiamo a usare in modo molto elastico. Per Foucault, il fenomeno si definisce come «un modo per razionalizzare i problemi posti alla pratica governamentale per dei fenomeni propria di un insieme di viventi costituitesi in popolazione: l’igiene, la salute, la longevità, la razza». Io credo che il momento caratterizzante nella storia della xenofobia di Stato, in Europa occidentale, dopo la Seconda guerra mondiale, è proprio la sua uscita dal discorso biopolitico, la sua riformulazione fuori da qualsiasi riferimento biologico-razziale. Il razzismo di Stato, dopo Auschwitz ha dovuto cambiare vocabolario e concetti, perché erano ormai diventati impronunciabile il primo e informulabili i secondi. Le squadre di cacciatori nazisti, le cacce agli ebrei erano fondate su una proclamata finalità di purificazione razziale del corpo nazionale. Purificazione di una popolazione attraverso lo spartiacque biologico tracciato tra chi doveva vivere e chi doveva morire. Oggi, però, la xenofobia di Stato fa economia di una concettualizzazione della razza, abbassando i toni espliciti, al fine di tracciare linee di divisione fondate su nozioni non più biologiche. Va però subito precisato che queste nuove categorie non sono, per questa sola ragione, meno pericolose, perché funzionano sempre e comunque, come operatori di esclusione mortifera.

[da il manifesto, 29 dicembre 2010]

tysm, n. 1, dicembre 2010

tysm brio

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