L’Abbandono alla Provvidenza Divina
Ernst Bernhard
Pubblicato nel 1951, in occasione del bicentenario della morte di Jean-Pierre de Caussade, L’Abbandono alla Provvidenza Divina apparve nella collana “Psiche e coscienza” della Casa Editrice Astrolabio, per la traduzione di Mariella Loriga e Marcella Rinaldi, con la premessa di Ernst Bernhard, che qui ripubblichiamo.
Non è stato facile trovare per. questa collana che deve servire allo studio del processo di integrazione della coscienza umana (Bewusstwerdungsprozess), un’opera che – accanto ai contributi indo-tibetani, cinesi, greco-romani ecc. – costituisca un valido documento per un processo di integrazione della coscienza specificamente cristiano; gli scritti più importanti delle grandi guide d’anime e mistici cristiani sono già altrove ampiamente pubblicati. L’opera che abbiamo scelta a questo fine, L’Abbandono alla Provvidenza Divina del Padre de Caussade, della Compagnia di Gesù, non ha suscitato fin’ora negli altri paesi e nemmeno in Italia quel vivo interesse che ha destato nel suo paese d’origine, la Francia, dove, essendo uno dei libri religiosi maggiormente letti, ha avuto, dalla sua prima comparsa, nel 1861, una ventina di edizioni, con circa 80.000 copie complessive.
Quale documento inestimabile di religiosità biblica nella sua espressione più caratteristica e pura, quest’opera è tanto più adatta al nostro scopo in quanto rispecchia il «carisma» irradiato da uno dei più geniali maestri della guida delle anime nell’immediato esercizio della sua vocazione. Infatti, quest’opera magistrale ha avuto lo strano destino di essere ricavata da frammenti di lettere che l’autore, il Padre Jean-Pierre de Caussade (nato il 7 marzo 1675 nel Quercy, entrato nella Compagnia di Gesù nel 1693; dopo la sua ordinazione sacerdotale nel
1705, professore, predicatore, confessore, guida spirituale, direttore e superiore in diversi collegi dell’ordine e conventi di Francia; morì, colpito da cecità negli ultimi anni della sua vita, sempre esercitando la sua professione di guida spirituale, a Toulouse nel 1751) indirizzò ad alcune suore, già sue allieve, appartenenti al convento delle Visitandine a Nancy, dove era stato direttore spirituale dal 1733 fino al 1739. Le suore erano solite scambiarsi queste lettere fra di loro e le collezionavano ricopiandone le parti più significative.
Più di cento anni dopo la morte di Padre de Caussade – il quale oltre ad uno scritto anonimo sui diversi gradi della preghiera secondo la dottrina di Bossuet: Instructions spirituelles en forme de dialogue sur les divers états d’oraison suivant la dottrine de M. Bossuet, évéque de Meaux, par un Père de la Compagnie de Jésus, docteur en Théologie, Parpignan 1741, non ha lasciato altre pubblicazioni – fu ritrovata, insieme ad altre lettere sue, una raccolta di quei frammenti che una suora di singolare sensibilità ed intelligenza, probabilmente la stessa madre superiora, la Mère de Rottembourg, aveva composto e separatamente conservato. Questo fascicolo pervenne nelle mani di Padre Ramière, il quale, riconoscendone l’eccezionale valore, lo raggruppò e ricompose in differenti capitoli che forni di titoli esplicativi riuscendo a dare una riproduzione sistematica delle concezioni religiose e delle istruzioni spirituali di de Caussade. Il volume così composto vide la luce la prima volta a Parigi nel 1861 presso Régis Ruffet sotto il titolo: L’Abandon à la Divine Providence, envisagé comme le moyen le plus facile de sactification, ouvrage posthume de P. J. – P. de Caussade de la Compagnie de Jésus, revu, corrigé et mis en ordre par le P. H. Ramière de la même Compagnie . Più tardi egli ampliò questa prima edizione, aggiungendo fra l’altro anche delle lettere integre che hanno, al contrario della raccolta dei frammenti, un carattere strettamente casistico e personale. È per questo che la traduzione che presentiamo, e che, anche per la concisione della forma, si mantiene quanto possibile fedele al testo originale francese, si basa sulla pubblicazione originaria di P. Ramière e contiene solo il trattato sull’Abbandono alla Provvidenza Divina ricavato dai frammenti di lettere.
Indubbiamente il valore intrinseco di quest’opera risiede nel suo contenuto «individuale»; vale a dire, il lato generico e dogmatico – pur restando sempre alla base di quest’opera – passa decisamente in secondo piano di fronte all’anelito verso un’esperienza religiosa individuale. Per chiarire subito questo principio fondamentale dell’opera di de Caussade diamo la parola all’autore stesso:
«Noi non siamo informati che attraverso le parole che Dio pronuncia espressamente per noi. Ciò che ci istruisce è quanto ci capita da un giorno all’altro. Si sa perfettamente soltanto quello che l’esperienza ha appreso con la sofferenza e con l’azione. È questa la scuola dello Spirito Santo, che dice al cuore parole di vita; e tutto ciò che si dice agli altri deve procedere da questa fonte. Ciò che si legge, che si vede, diventa scienza divina attraverso questa fecondità, questa virtù e questa luce che glielo consente. Tutto ciò non è che una pasta; il lievito è necessario, il sale dell’esperienza deve condirla… Bisogna dunque ascoltare Dio di momento in momento per essere dotti nella teologia virtuosa, che è tutta pratica ed esperienza… ».
«La volontà divina si unisce alle nostre anime in mille modi differenti; e il modo che essa ci riserba è sempre il migliore per noi. Tutti devono essere stimati ed amati: poichè in tutti dobbiamo vedere l’ordine di Dio, che si adatta ad ogni anima, e sceglie la maniera più conveniente per operare in essa l’unione divina…».
«Così le anime di citi parliamo sono, nel loro stato di completo abbandono, solitarie e libere, svincolate da tutto, e il loro contento è di amare in pace Dio al quale appartengono, e di adempiere fedelmente il dovere del momento. Il momento presente è dunque come un deserto, in cui l’anima semplice vede soltanto Dio, di cui essa gode, occupata soltanto da ciò che egli vuole da lei; tutto il resto è lasciato, dimenticato, abbandonato alla Provvidenza. Quest’anima, come uno strumento, non opera se non nei limiti in cui l’intimo operare di Dio l’occupa passivamente in se stessa o l’applica all’esterno. Questo raccoglimento interiore è accompagnato da una cooperazione libera e attiva, ma infusa e mistica; cioè Dio, trovando in quest’anima tutto quanto è necessario per agire al suo ordine, contento della sua buona disposizione, gliene risparmia la fatica infondendole tutto ciò che sarebbe altrimenti il frutto dei suoi sforzi e della sua buona volontà attuata. Come se qualcuno, vedendo un amico in procinto di fare un viaggio, per rendergli un servizio, si insinuasse in lui e, sotto le sue sembianze, facesse la strada di sua propria attività, di modo che all’amico non resterebbe altro che la volontà di camminare, mentre camminerebbe in virtù di quella forza estranea. Questo cammino sarebbe libero, poichè sarebbe una conseguenza di una libera determinazione presa in precedenza per affetto all’amico che ne farebbe le spese; sarebbe attivo, poichè sarebbe un viaggio reale; sarebbe infuso, poichè si farebbe senza azione propria; sarebbe infine mistico, poichè ne sarebbe nascosto il principio. Questa specie di cooperazione che abbiamo spiegato con quel cammino immaginario, notate bene, è del tutto differente dalla fedeltà nell’adempiere i comuni obblighi. L’azione mediante la qualee si adempiono non è mistica nè infusa, ma libera e attiva come comunemente la si intende. Essa è l’obbedienza che si rende alla volontà di Dio significata e determinata, nell’ordine comune di vigilanza, di cure, di attenzioni, di prudenza, di discrezione, secondo che la grazia aiuti sensibilmente o provochi sforzi ordinari. L’abbandono perfetto, invece, al beneplacito di Dio implica nello stesso tempo attività e passività; non vi si mette nulla di proprio, tranne l’attitudine di una buona volontà generale che vuole tutto e non vuole nulla, essendo come uno strumento senza azione propria. Allorchè si trova nelle mani dell’artigiano serve a tutti gli usi ai quali si estende la sua natura e la sua qualità. Si lascia agire Dio non riservando per sè che l’amore e l’obbedienza al dovere del momento; poichè in questo punto l’anima sarà sempre attiva. Questo amore dell’anima, infuso nel silenzio, è un’attività vera e propria di cui essa si fa un obbligo perpetuo; essa deve in realtà conservarlo sempre e tenersi costantemente nelle disposizioni in cui egli la mette; cosa che essa non può evidentemente fare senza essere attiva.. ».
«… Un’anima cade nell’azione divina dal momento in cui la buona volontà si trova formata nel suo cuore; e questa azione ha più o meno influenza su di lei, secondo che essa è più o meno abbandonata. L’arte dell’abbandono non è che l’arte di amare, e l’azione divina non è che l’azione dell’amore divino. È mai possibile che questi due amori che si ricercano l’un l’altro non si accordino quando si sono incontrati? Come potrebbe l’amore divino rifiutare qualsiasi cosa all’anima di cui guida tutti i desideri? E come potrebbe ricevere un rifiuto da parte di un’anima che non vive che per lui! L’amore non può chiedere nè volere che ciò che vuole l’altro amore».
Nell’Abbandono alla Provvidenza Divina troviamo così, per la psicologia e dell’esperienza religiosa e del processo di integrazione della coscienza, una ricca fonte di sorprendenti parallelismi con le più essenziali manifestazioni religiose di tutte le epoche – l’atteggiamento religioso proprio dell’abbandono si avvicina particolarmente a quello del Bhakti-Yoga indiano e del Taoismo (wei wu wei) – ed infine dell’uomo moderno nel processo di integrazione della coscienza, «processo di individuazione» come lo definisce e descrive C. G. Jung.
Meta ultima di questo processo – dopo la debita assimilazione dei contenuti psichici rimossi nell’inconscio alla responsabilità della coscienza attuale – è appunto il raggiungimento di quella trasformazione dell’io primitivo ed ascrivente tutto a se stesso, la quale scaturisce dalla integrazione della coscienza attraverso la esperienza vissuta del fino allora inconscio constante operare del «Sè» (Selbst) o «Imago Divina» (Dio, Cristo, Divina Provvidenza, Atman, Purusha, Tao o come altrimenti lo si denomina) nell’anima e nel destino dell’uomo, – trasformazione che lo spirito cinese nell’I King (libro dei mutamenti) così definisce:
« Il benigno lo scopre (il Tao) e lo chiama benigno. Il saggio lo scopre e lo chiama saggio. L’uomo inconscio vive di lui giorno per giorno e non se ne accorge».
O descrivendo la stessa trasformazione con una espressione Paolina (Gal. 2, 20):
«Vivo, ma non più io; vive invece Cristo in me».
tysm, n. 1, dicembre 2010
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