philosophy and social criticism

Le invenzioni dei consumatori

Vanni Codeluppi

Trent’anni fa Michel de Certeau diede alle stampe in Francia L’invenzione del quotidiano, un’opera in due volumi che per certi versi può essere considerata rivoluzionaria. L’opera presentava i risultati di una ricerca interdisciplinare e pluriennale diretta da De Certeau stesso e rivalutava tutto quello che di creativo c’è nel fare della quotidianità, in quella dimensione cioè dove vive e si manifesta ogni giorno quell’«uomo comune» a cui lo studioso ha espressamente dedicato il suo lavoro. Passati tre decenni, è lecito chiedersi che cosa sia rimasto di tale opera, se cioè essa sia in grado di interpretare anche i processi di cambiamento che si stanno sviluppando nelle attuali società ipermoderne, un quesito al quale è possibile tentare di dare una risposta, anche facendo ricorso ad alcuni volumi usciti negli ultimi tempi.

Il successo mondiale dell’Invenzione del quotidiano è stato notevole. L’opera ha avuto una traduzione in inglese nel 1984, in spagnolo e giapponese nel 1987, in tedesco nel 1988. In Italia, invece, sono dovuti passare ventun anni perché nel 2001 un piccolo editore – le Edizioni Lavoro – pubblicasse l’opera, ma solo il primo dei due volumi, Arts de faire, scritto direttamente da De Certeau, il che la dice lunga sulle difficoltà che un’opera radicale come questa ha incontrato nel nostro paese. Nonostante ciò, anche in Italia L’invenzione del quotidiano (tornato  in libreria nella stessa traduzione di Mario Baccianini e con l’introduzione originale di Alberto Abruzzese cui si sono aggiunte una prefazione di Michel Maffesoli e una postfazione di Paola di Cori) è diventato nel corso degli anni un testo di culto.

Le astuzie del piacere

Se L’invenzione del quotidiano può essere considerato un libro rivoluzionario, è grazie all’ostinata volontà del suo autore di mettere in evidenza il valore della creatività che si manifesta nelle persone comuni e in tutta la sfera della quotidianità. A dire il vero, la Scuola di Birmingham aveva già avviato da qualche anno un analogo lavoro di rivalutazione di quell’attività di produzione di significati che caratterizza gli individui. E prima ancora c’era stato in Francia il lavoro pionieristico del filosofo Henri Lefebvre, il quale aveva messo sotto osservazione, addirittura a partire dagli anni ’40, il ruolo centrale svolto dalla vita quotidiana nelle dinamiche di riorganizzazione neocapitalistica e di riproduzione dei rapporti di riproduzione. De Certeau è stato però il primo a concentrarsi sui processi creativi sviluppati dalle persone comuni e ad attribuire esplicitamente un grande valore a tali processi.

Lo studioso parlava frequentemente di «produzione dei consumatori» e da ciò è derivato quel concetto di «consumo produttivo» che viene oggi largamente condiviso nell’ambito degli studi sul consumatore. Secondo De Certeau, infatti, i consumatori utilizzano qualsiasi cosa possano trovare nel contesto in cui operano per dare vita a un incessante lavoro di «fabbricazione» di significati personali. I risultati di tale lavoro non sono oggetti concretamente visibili, né tanto meno prodotti che possano avere una collocazione sul mercato. Si tratta di rielaborazioni che rimangono nascoste e silenziose, anche perché sono generalmente coperte dalla grande quantità di messaggi creati in parallelo dal sistema della produzione. De Certeau, pertanto, ha proposto di considerare l’attività di ricezione non come un processo passivo, ma come un processo attivo nel corso del quale il destinatario di ogni messaggio (di consumo, mediatico, urbanistico), giocando d’astuzia e usando secondo la sua volontà tutto ciò che è disponibile, si emancipa da quel ruolo subordinato nel quale lo sospingono coloro che detengono il potere nel sistema economico. Il destinatario può pertanto essere considerato una specie di viaggiatore in movimento all’interno di uno spazio che viene definito da altri, i quali ne sono i legittimi proprietari.

Per De Certeau l’atto di lettura è esemplare. A prima vista, sembrerebbe un momento di notevole passività dell’individuo, che resta immobile e in silenzio, ma si tratta invece di «una produzione silenziosa: un andare alla deriva attraverso la pagina, una metamorfosi del testo mediante il vagare dello sguardo, un’improvvisazione e un’attesa di significati dedotti da alcune parole, uno sconfinamento degli spazi scritti, una danza effimera». Il lettore cioè «insinua le astuzie del piacere e di una riappropriazione nel testo dell’altro: cacciatore di frodo, se ne lascia trasportare, e si fa plurale come tante voci». Ecco, l’individuo per De Certeau è fondamentalmente un «cacciatore di frodo» e la sua azione si basa soprattutto su un «lavoro di straforo», cioè un lavoro nascosto, disperso, marginale e opportunistico. In realtà, se si pensa al consumatore di oggi e al ruolo da esso svolto, è evidente che siamo di fronte a un lavoro scarsamente visibile, ma tutt’altro che marginale. Riveste infatti un ruolo centrale all’interno dei processi produttivi e ciò è dovuto anche al fatto che, rispetto ai tempi di De Certeau, il contesto sociale è profondamente cambiato. La cultura alta e la cultura bassa si sono intrecciate a tal punto che è difficile distinguerle. E gli individui, grazie alle nuove tecnologie produttive e comunicative, sono sempre più impegnati a costruire ciò che consumano o a consumare esperienze possibili solo quando essi assumono il ruolo di co-protagonisti dei processi produttivi. Dopo De Certeau, si è parlato a lungo di lavoro produttivo del consumatore, ma tale tema è stato analizzato per la prima volta in maniera approfondita da Marie-Anne Dujarier nel volume Il lavoro del consumatore. Come coproduciamo ciò che compriamo (Egea, Milano 2010). Secondo la sociologa francese, la gamma dei tipi di lavoro che possono essere svolti dal consumatore è estremamente varia, ma può essere ricondotta a tre principali modelli: l’autoproduzione diretta, la coproduzione collaborativa, il lavoro di organizzazione. Nel primo caso, relativo soprattutto alla distribuzione e al commercio, l’impresa cerca di scaricare compiti e costi sul consumatore, facendo eseguire a quest’ultimo operazioni che ha opportunamente semplificato affinché siano portate a termine. Nel secondo, che riguarda gli ambiti dove dominano il trattamento delle informazioni e la creatività (media, pubblicità, commercio, arte), il consumatore si offre di lavorare con un’impresa allo scopo di ottenere da questa un gratificante riconoscimento per il suo impegno. Le fornisce pertanto informazioni, comportamenti e creazioni personali. Nel terzo, infine, il consumatore cerca di trovare soluzioni pratiche e accettabili per le contraddizioni politiche, sociali, morali e soggettive che incontra nelle sue attività di consumo. Si tratta pertanto di un modello che può essere presente in tutti gli ambiti produttivi.

L’uso dell’ironia

Questi tre tipi di lavoro possono dare al consumatore la sensazione di avere un ruolo maggiormente autonomo, ma semmai è vero il contrario. Secondo Dujarier, il consumatore «è oggettivamente più strumentalizzato, controllato e dipendente dal sistema commerciale», perché considerare l’individuo che consuma un soggetto attivo non comporta che tale individuo possa avere un potere tale da consentirgli di essere autonomo e totalmente libero di esprimersi. Certo, grazie soprattutto alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie comunicative, oggi è possibile partecipare a numerosi processi di rielaborazione dei prodotti e dei messaggi ad essi relativi. Si tratta però di scelte effettuate all’interno di possibilità rigidamente definite. I consumatori, pertanto, sono maggiormente coinvolti nei processi produttivi, ma continuano a rimanere vincolati dai limiti propri del loro ruolo. E dunque sono perfettamente funzionali all’operare del sistema capitalistico.

De Certeau attribuiva al lavoro del consumatore anche un significato di opposizione al sistema. Sosteneva cioè che il consumatore può aderire in maniera tattica ai contenuti che gli vengono proposti (le strategie) e lo può fare ad esempio stabilendo un rapporto di tipo ironico con tali contenuti. Contrapponeva così le tattiche del consumatore alle strategie di chi detiene il potere nel sistema economico e intendeva di conseguenza attribuire a chi consuma una possibilità di liberazione personale attraverso una sorta di «guerriglia semiologica». Ma quello che sta succedendo oggi è che le tattiche attribuite da De Certeau al consumatore vengono paradossalmente impiegate dalla sua controparte. Marche come Diesel o D&G, ad esempio, fanno costante uso dell’ironia per avere successo sul mercato, mentre l’impiego delle tattiche è prassi corrente nel cosiddetto «guerriglia marketing» e nell’attività comunicativa delle grandi imprese. Le quali, proprio come quel consumatore di cui parlava De Certeau, cercano di sfruttare le occasioni e i momenti particolarmente propizi.

D’altronde, come ha messo bene in luce Adam Arvidsson nel volume  La marca nell’economia dell’informazione. Per una teoria dei brand (FrancoAngeli, Milano 2010), le dinamiche di funzionamento delle economie contemporanee si basano fondamentalmente sulla capacità delle marche di svolgere un’azione di tipo relazionale. Ci troviamo cioè all’interno di un «capitalismo cognitivo» perché sono le marche a produrre valore, così come nel capitalismo industriale a svolgere questo compito era la fabbrica. Se questa controllava i processi di produzione interni a essa e quindi la sua forza lavoro, ora le marche svolgono la stessa funzione sull’intera società, che diventa una sorta di «fabbrica sociale». È dunque al loro esterno che esse possono accumulare valore sfruttando il lavoro quotidianamente svolto dai consumatori e dall’opinione pubblica in generale. Ed è qui che possiamo dire si svolgano i principali processi produttivi odierni. Ciò è possibile grazie alla crescente mediatizzazione della vita sociale e del consumo che caratterizza le società ipermoderne. Le marche non devono far altro che tentare di operare in qualità di mezzi di comunicazione, cioè come interfacce, come ambienti autonomi dove è possibile stabilire una connessione tra i produttori e i consumatori. Allo scopo di trasformare in valore economico tutto ciò che prende vita nella società, il surplus di innovazioni e relazioni sociali provenienti dai consumatori.

È tutta da verificare però la conclusione che Arvidsson ricava dall’analisi di questo processo e cioè che la centralità assunta dalle marche, nonostante coinvolga in profondità tutti i consumatori, vada considerata un sintomo di debolezza della capacità di controllo del capitalismo. Il quale, dopo aver perso il controllo sulla creazione degli stili di vita, starebbe perdendo il monopolio sull’innovazione tecnologica e sulla produzione materiale. Può esistere certo un problema di controllo di un processo produttivo esterno all’impresa e ampio come la società, ma, lo ammette Arvidsson stesso, il capitalismo cognitivo è ancora in grado di sfruttare la sua capacità di organizzare processi materiali e immateriali di produzione, mettendo ad esempio in contatto persone con gli stessi gusti e gli stessi interessi. E d’altronde è proprio questo che le marche da sempre sanno fare meglio.

[da il manifesto, 17 luglio 2010]

tysm brio

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