Melassa per il duro Clint
Luca Doninelli
Hereafter è il primo film di Clint Eastwood in cui manca un elemento che mi sembra connotare tutta la sua opera, tanto di attore quanto di autore: la stretta finale. Non esiste più il precipizio conclusivo, quello che conduce all’assassinio, alla disperazione, alla vendetta estrema, al trionfo della giustizia: quel precipizio che, nei film di Eastwood, è qualcosa più che un procedimento narrativo, è – non saprei dire meglio – un personaggio del film, la forma personale che il Destino assume nella sua opera.
Mi piacerebbe poter dire che il tema della vita dopo la morte è un tema importante. Peccato che non lo sia. Queste storie di sensitivi, esperienze di vita dopo la morte, presenze misteriose, insomma di contatti tra il mondo dei vivi e quello dei morti non costituiscono nulla di importante per il mondo, mi spiace per il grande Clint che la pensa così. Sapere o non sapere se esiste qualcosa dopo la morte non cambia quasi niente della vita di un uomo. La vita di un uomo può cambiare quando acquista un senso dentro la storia, dentro il tempo e lo spazio. Eppure io attendevo Clint Eastwood a questa deriva gnostica (o new age, come è stato già detto). Lo capisco, anche: se il tema della vita dopo la morte può lasciare il tempo che trova, la domanda che suscita questi pensieri è, viceversa, fondamentale. Alla fine di una vita spesa nel tentativo di essere uomini retti, buoni, giusti, ci accorgiamo che chiunque ci può sostituire, che in pochi istanti verremo gettati via e dimenticati.
Uno che spreca la sua vita può non capire queste cose perché non ha mai cercato di dare un senso alla parola «uomo». Ma chi ci ha provato ha diritto di chiedersi: è tutto qui? Questa è la vera domanda. La protagonista femminile del film, una giornalista francese di successo, sperimenta due volte la morte: quando viene uccisa dal terribile tsunami del 2004 ritornando miracolosamente in vita e, poi, quando sul lavoro viene messa da parte da colleghi arrivisti e senza scrupoli. Viviamo dentro la storia, ed ecco come ci tratta: less than zero, come titolava B. Easton Ellis il suo primo romanzo. Viceversa, dal viaggio nella morte la donna riemerge con un senso di bellezza, di felicità, di leggerezza. Ma il mondo, la storia, il tempo e lo spazio dimostrano di non gradire tutta quella serenità. Dal miracolo cominciano i guai. E questo è vero.
Personalmente, sapevo che prima o poi questo problema si sarebbe presentato a Eastwood, e che il grande regista sarebbe stato tentato (anche se io speravo di no) di trattarlo come l’ha trattato. E la ragione sta nel fatto che il protagonista delle storie di Eastwood è sempre stato il
Giustiziere Solitario. Il Giustiziere Solitario è uno che non ha fiducia nella storia, non pensa
che la storia contenga qualcosa come una giustizia – come, viceversa, credettero marxisti e idealisti. È, piuttosto, uno che sa che occorre resistere, non crepare prima del tempo, in modo da condurre la vicenda – qualunque vicenda – fino alla stretta finale, dove i due eserciti, le due idee, i due ordini universali in lotta fra loro si sfideranno alla pistola, o a pugni.
Nel capolavoro Gran Torino, che tra le altre cose è uno dei più grandi film sulla vecchiaia che siano mai stati girati, Eastwood inquadra il prossimo avversario: la Morte. Sa che vincerà lei, ma si permette lo stesso di non darle molta soddisfazione, usando lei – che è l’essenza dell’ingiustizia – come alleata in un estremo atto di giustizia.
Giunto al momento di uscire di scena, dunque, il Giustiziere Solitario immagina così il trapasso. Né la morte né la storia devono averla vinta. Qui sta il passo falso, secondo me: finché rimango nel tempo e nello spazio, fossero pure i miei ultimi cinque minuti, io ho bisogno che questi cinque minuti abbiano un senso. E se non ce l’hanno, dovrò sperare che abbiano un senso i successivi cinque minuti, sempre che ci siano, e che io possa essere perdonato per la porzione di spazio e di tempo che ho occupato senza un senso.
Al cristianesimo, che conosce il senso della sconfitta meglio di Clint Eastwood, non interessa molto l’aldilà, a meno che non sia già dentro l’al di qua. Più della sopravvivenza dell’anima il cristiano chiede la resurrezione della carne, e più della vendetta gl’interessa essere perdonato. Su questa terra, in questa vita.
Ma presentare il tema così come ce lo presenta Hereafter è sicuramente più seducente per la mentalità di oggi. Come dice un mio amico, Hereafter è il primo film conformista di Clint Eastwood, dopo un’intera vita controcorrente. Ma proprio per questo prevedo molti consensi, molto successo.
All’uscita dal cinema incontro un famoso giornalista, molto bravo ma per nulla controcorrente, che tutto entusiasta, salutandomi, ripete «grande film, grande film». Se il vecchio Clint potesse sentirlo, dico tra me, si renderebbe conto di aver commesso un errore.
tysm, n. 1, dicembre 2010
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