Beni comuni. Pratiche egemoniche nella rete
Ugo Mattei
Sempre più spesso si ripongono grandi speranze nella rete internet come luogo di emancipazione e «contro-egemonia». Intorno ad Internet, negli anni è stata costruita una vera e propria mitologia della rete come spazio pubblico, «luogo comune» informato al principio di uguaglianza, connessione, parità e libertà di accesso, spazio di creatività e condivisione libera. Le belle favole sono numerosissime e tutte vedono come protagonisti giovani geniali e creativi, capaci di idee (poi tradotte in servizi) che, in rapida successione nella corsa continua per la soddisfazione di sempre di nuovi bisogni, sono divenute l’ arredo stesso del nostro mondo globale. Basterà pensare agli inventori oggi multimiliardari di Google o di Facebook. Ma gli eroi eponimi della rete sono anche altri e certamente questa rivoluzione del «comune globale» tocca pure aspetti meno commerciali o narcisistici. Sul piano politico, Wikileaks è divenuta icona della trasparenza.
Meno di cent’anni dopo che Lenin aveva denunciato la diplomazia dei trattati segreti pubblicando unilateralmente tutti quelli in cui era entrata la Russia zarista, ecco che Assange, che non ha neppure dovuto conquistare il Palazzo d’Inverno, ha potuto produrre, grazie al suo server blindato, altrettanto imbarazzo nelle Cancellerie di tutto il mondo. E poi abbiamo i movimenti per i beni comuni locali, resistenti di tutto il mondo, dagli zapatisti ai sem terra, dai NoTav alle lotte per l’università pubblica, sparsi in ogni continente e organizzati intorno ai più varii temi. Tutti questi gruppi, grazie a Internet, mettono in comune le proprie pratiche, condividono idee e strategie, insomma contribuiscono alla creazione di una cultura politica che coniuga aspetti locali con dimensioni planetarie.
Il mito della piazza globale
Sarebbe impossibile contestare il fatto che la Rete ha messo a disposizione spesso gratuita e quindi largamente democratizzato, una quantità di informazione assolutamente impensabile fino a poco tempo fa. Basterà pensare a Wikipedia che ha colmato il divario fra quei ragazzi le cui famiglie potevano permettersi un’enciclopedia e gli altri nella preparazione dei compiti e delle ricerche a casa. Non solo, ma essa non offre solo informazioni. In effetti Internet è pure luogo di pensiero critico che si articola nei moltissimi blog che da tutto il mondo offrono riflessioni e pensieri, talvolta intelligenti, dei loro instancabili autori. A questo si aggiungano siti come YouTube, che da qualche anno consenteno la messa in rete e la condivisione di ogni sorta di immagine, con conseguenze ancora una volta non indifferenti pure sulla sfera politica.
Grazie ad Internet sono possibili operazioni che altrimenti sarebbero impensabili senza una poderosa organizzazione, quali per esempio portare per un giorno in piazza oltre un milione di persone, come è riuscito in Italia al cosiddetto «popolo viola» o al movimento delle donne. Sono questi alcuni dei possibili usi di Internet che l’hanno fatta celebrare come «piazza globale» e luogo di condivisione, facendo declinare dalla Rete alcuni degli aspetti più significativi dell’idea dei beni comuni. Tuttavia, una valutazione di Internet nella prospettiva dei beni comuni consegna messaggi non univoci. Occorre innanzitutto sgombrare il campo da alcuni miti ad esso relativi che mi pare abbiano prodotto eccessivi entusiasmi circa la capacità del web di rompere con la logica tradizionale della modernità costruita sul binomio «proprietà privata-stato». Bisogna compiere uno sforzo di storicizzazione l’esperienze e lo sviluppo di Internet anche se la sua breve esistenza come fenomeno politicamente rilevante, e l’estrema velocità delle trasformazioni anche tecnologiche che la vedono protagonista non rende la cosa agevole perché si tratta sostanzialmente di storicizzare il presente. Quest’operazione consegna immagini di segno opposto rispetto alla mitologia della «piazza globale».
Consumatori e produttori
Sul piano storico, infatti, la grande diffusione di internet è coincisa in modo quasi perfetto con la «fine della storia», ed è stata sicuramente l’aspetto tecnologicamente più rilevante della nascita e dello sviluppo del cosiddetto capitalismo cognitivo. Internet infatti costituisce la grande infrastruttura globale capace di fondare quel particolare sistema di produzione di servizi fondato sullo sfruttamento del precariato intellettuale e sulla trasformazione dei cittadini in consumatori che caratterizza l’attuale fase di sviluppo capitalistico.
Inoltre, la diffusione di internet ha prodotto un’accelerazione talmente radicale nella trasmissione di informazioni anche complesse da averne prodotta una altrettanto impressionante nella finanziarizzazione dell’economia, creando le condizioni per il trasferimento di capitali ingentissimi in tempo reale da una piazza finanziaria all’altra (con relativa facilitazione della speculazione). Altre conseguenze problematiche si rinvengono nella sua capacità di sostituire la mano d’opera sul fronte dell’offerta dei servizi, scaricando lavoro sul fronte della domanda, quella appunto dei consumatori. Chi acquista un biglietto ferroviario via Internet svolge personalmente un lavoro che sarebbe altrimenti stato a carico dell’offerta (bigliettaio) o che comunque sarebbe stato intermediato da una persona fisica (agente di viaggio). Non solo quindi, come diceva Jean Baudrillard, il consumatore diviene sempre più qualcuno che paga per lavorare al servizio del capitale (nel caso dei libri su Amazon.com facendo autonomamente ricerca senza aiuto del venditore e perfino scrivendo piccole recensioni ad uso dei succesivi acquirenti) ma la tendenza alla riduzione dei posti di lavoro del capitalismo tecnologico-cognitivo è sotto gli occhi di tutti.
È chiaro che la globalizzazione e l’ampliamento dei mercati distributivi resi possibile dal Web produce una serie di effetti collaterali solitamente sottostimati che comunque presentano costi sociali non indifferenti. Non solo posti di lavoro persi ma anche tendenza alla spedizione da grande o grandissima distanza che inquina l’ambiente e si colloca in tendenza radicalmente opposta rispetto al modello «a Km 0» raccomandato dagli ambientalisti. Inoltre, Internet rende tutti dipendenti dalla tecnologia informatica e dalle grandi imprese delle telecomunicazioni che gestiscono l’ accesso alla rete. Infatti l’accesso alla piazza è precluso a chi non ha un collegamento via cavo o celluare, cosa per nulla scontata in molti contesti disagiati.
Alla conquista del wi-fi
Anche nei paesi ricchi Internet è illusoriamente gratuito o poco costoso perché comunque costano tanto la tecnologia necessaria quanto l’accesso. Sebbene da quest’ultimo punto di vista si comincino a registrare sforzi pubblici volti a consentire l’accesso gratuito in molte città (spazi pubblici wi-fi), la necessità di utilizzare computers continuamente «allo stato dell’arte» (per non parlare di smartphones, iPad e altre tecnologie simili) produce comportamenti consumistici insostenibili sia dal punto di vista sociale che da quello ambientale. Dal primo punto di vista, la rapidissima evoluzione tecnologica obbliga a continui upgradings e la durata media di un computer è ormai inferiore a due anni. Dal punto di vista ecologico poi si sa che la costruzione e lo smaltimento dei computer e della tecnologia di acceso a Internet richiede un consumo del tutto insostenibile di minerali rari (saccheggiati in Africa e in altri contesti fragili) e di energie cosa che dovrebbe far riflettere bene quanti sostengono ecologica la sostituzione di libri e giornali cartacei con i cosiddretti ebooks.
Se si osserva il governo di Internet si vedrà come inclusione e condivisione siano ben lungi dalle motivazioni e dalle pratiche del suo governo attuale. Infatti, dopo una fase storica iniziale in cui la rete era effettivamente gestita dai suoi principali utenti e padri scientifici, interessati principalmente a svilupparla e a farla crescere, a partire dalla fine degli anni Novanta le cose sono cambiate radicalmente. Oggi la governance di internet è saldamnente in mano ai potenti interessi politici e privati che son stati capaci di adattare al capitalismo cognitivo la grande tenaglia che fin dalla modernità stritola i beni comuni.
I baroni dell’immateriale
Sono oggi gli Stati Uniti d’America ed i grandi latifondisti intellettuali che, come i robber barons fra il diciannovesiomo ed il ventesimo secolo, ne determinano le politiche, mantenendo così saldamente in pugno il controllo della rete. Un controllo che progressivamente ne stritola gli aspetti di bene comune come dimostra il fatto che oggi più della metà del traffico che circola sulla rete è costituito dalle cosiddette apps (le applicazioni) private alle quali si accede soltanto a pagamento. Infatti la guerra per il controlo di Internet, una volta che questo è diventata l’infrastruttura fondamentale del capitalismo cognitivo, è durata assai poco. Il governo degli Stati Uniti ha fatto pesantemente valere, anche con l’uso della minaccia penale, la «proprietà» della rete.
Nel territorio degli Stati Uniti si trovano infatti la maggioranza dei cosiddetti root servers cioè la quindicina di computers su cui fisicamente si fonda il Domain Name System, ossia il sistema di assegnazione degli indirizzi internet senza il cui continuo mantenimento la rete sarebbe inservibile come una megalopoli in cui le persone abitino senza indirizzo o come una grande biblioteca senza sistema di catalogazione libraria. Internet non sarebbe in alcun modo concepibile senza un potere di assegnazione degli indirizzi ed il controllo del livello base dell’indirizzazione conferisce un autentico potere di vita e di morte sulla fruibilità della rete per i suoi utenti. Tale potere di assegnazione, strettamente gerarchico in barba alla retorica della rete, trova la sua «norma fondamentale» nel Root Server A, la radice della piramide strettamente gerarchica ancorché invertita, che a sua volta si trova in territorio statunitense (ed è quindi controllato dal suo governo).
Oggi il centro decisionale della rete è un’altra corporation, nominalmente no profit, Icann (Internet Corporaton for Assigned Names and Numbers) che esercita il suo potere sulla Rete in forza di una convenzione con il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. Tutti i governi del mondo (con l’eccezione di quello statunitense) hanno un ruolo di consulenza nelle decisioni del Consiglio di amministrazione di Icann, cosa che appare quanto meno ironica a fronte della retorica della rete come bene comune!
[da il manifesto, 1 marzo 2011]
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