philosophy and social criticism

2. L’arte e il “nuovo spirito del capitalismo”. Una posizione genealogica del problema

Alessandro Simoncini

Se nell’ipotesi appena avanzata è presente un grano di verità, e se questo consiste proprio nel fatto che il capitalismo ha davvero uno dei suoi maggiori punti di forza nella sterilizzazione e nel recupero di ciò che antagonisticamente  gli si oppone, allora diventa rilevante tentare di capire come ciò sia risultato storicamente possibile. In altri termini, diviene interessante fornire risposte, necessariamente molteplici e parziali, a una questione decisiva del nostro tempo presente che potremmo definire “il problema della potenza del capitale”. Più specificatamente, qui, occorre pensare quella “potenza” a partire da domande di non facile risposta: a che fonte si alimenta la capacità di presa con cui il capitale riesce ad afferrare i viventi e a governarli? Qual è il tesoro che gli permette di fissare per tutti e per ciascuno le coordinate dominanti dell’ordine simbolico e dell’immaginario collettivo?

Si tratta di questioni che sarebbe forse utile affrontare a partire da una serie di indagini genealogiche, capaci di restituire il luogo storico di emergenza della potenza capitalistica; quel luogo dei suoi inizi, cioè, nel quale la genealogia reperisce sempre qualcosa di diverso da ciò che va cercando: non l’unità, ma la dispersione; non l’uomo ma la scimmia. Il luogo degli inizi non può risultare compatto, monolitico, unitario e tanto meno linearmente riconducibile ad una spiegazione monocausale. Per il genealogista, infatti, non può esistere un mitico luogo d’origine della potenza capitalistica: tante sono le piste percorribili per ricostruirne plausibilmente la nascita e l’affermazione, perché tanti sono i terreni in cui, nella frammentazione, quella potenza ha disseminato le sue rizomatiche radici[41].

Contribuire a dissodare uno di quei terreni – e ad avviare solo un piccolo frammento di questa complessa genealogia – è il solo scopo delle pagine che seguono. Al fine di perseguirlo, ci si aggirerà entro gli spazi non facilmente praticabili di un ben preciso cantiere genealogico: quello nel quale le avanguardie artistiche hanno tentato di sottoporre a critica le forme di vita generate da un capitalismo che stava diventando maturo, finendo per essere recuperate proprio dalla maturità e dalla potenza dei caleidoscopici dispositivi di cattura del capitale. Se oggi possiamo dire che l’arte e la sua potenziale carica critica alimentano ormai la stessa capacità del sistema capitalistico di produrre un’egemonia che si vuole incondizionata, è proprio a causa di quel “recupero”. Infatti, difficilmente qualcuno potrebbe oggi sostenere, con Maurice Blanchot, che l’arte sia una “passione soggettiva sfrenata che non vuole più saperne di sottostare alle leggi del mondo” e alla “tirannide della misura” che questo mondo ordinariamente produce[42].

È infatti proprio quella “misura” – l’assiomatica misura del capitale globale – a recuperare la “sfida al nulla” che l’arte aveva saputo portare al mondo, configurandosi come “alto esercizio acrobatico sull’orlo di un abisso”[43]. E Sotto l’abisso stava appunto il nulla sfidato, ma non sopraffatto, della ragion capitalitica, rivelatasi successivamente capace di assorbire recuperare il “carattere di alterità dell’arte”assumendo per sé la sua forza di “contraddire il reale, di porre in questione l’esistente”[44]. Se l’arte è stata un tempo “il mondo rovesciato (l’insubordinazione, l’eccesso, la frivolezza, l’ignoranza, il male, la mancanza di senso)”[45], il capitale cattura e mette al lavoro proprio quel rovesciamento. Recupera, cioè, la dimensione “altra” ed “inutile” dell’arte e la immerge nel circuito mercantile. L’arte stessa viene utilizzata come un feticcio capace di estetizzare ogni aspetto del reale e finisce per diventare fattore di produzione del valore e attore della fantasmagoria attraverso cui i sistemi di dominio riproducono se stessi. Ecco, forse, dove possiamo cercare uno dei tanti luoghi nei quali emerge la potenza capitalistica. Ed ecco anche uno dei motivi della crisi terminale dell’arte, se non proprio della sua morte. O forse meglio – come è stato detto – del suo divenire “feticcio” e “surrogato di se stessa”[46].

Ormai priva di forza critica, l’arte – convertita in merce – perde l’anima oltre che l’aura. È allora per questo che contrariamente alle avanguardie della prima metà del XX secolo – così capaci di dire l’epoca -, “l’arte di oggi riesce difficilmente ad evitare l’impressione della sua insignificanza”[47]. Quella che nelle avanguardie storiche poteva ancora apparire come l’ “autonomia dell’arte” non ha resistito alla capacità divorante di un capitalismo strutturalmente orientato a inglobare tutto all’interno della propria dinamica di valorizzazione. Inizialmente si è avuto l’ingresso sul mercato delle opere “autonome”, che sono divenute merci come tutte le altre la cui cifra, cioè, risiede in primo luogo nel valore di scambio. In seguito – come gli studiosi della scuola di Francoforte hanno ben chiarito – i “beni culturali” sono divenuti oggetti per l’”industria culturale” e così sono stati progressivamente mercificati in nome del profitto. Poi – come ha recentemente osservato Anselm Jappe – “si è assistito a una specie di perversa reintegrazione della cultura nella vita, ma solo in quanto ornamento della produzione di merci, cioè sotto forma di design, pubblicità, moda, etc.”[48]. Infine, la crisi finanziaria terminale delle istituzioni culturali pubbliche ha minato ciò che restava dell’ “indipendenza degli artisti di fronte al denaro[49]. Il risultato è che ormai essi “sono raramente altro che i nuovi buffoni e cantanti di corte che debbono azzuffarsi per le briciole che i nuovi padroni, sotto il nome di sponsor, gli gettano” [50].

Insomma, l’ipotesi è che l’arte sia capitolata di fronte alla potenza degli imperativi economici. Tendenzialmente questi si affermano su tutti gli aspetti della vita sociale e dell’intelligenza collettiva, mercificandoli progressivamente. Davanti ad un’offensiva di simile portata l’arte non ha retto; e del resto, insieme alla cultura, essa ha sempre flirtato con i poteri e con i modi di vita dominanti. In altri tempi, tuttavia, è esistita “la possibilità di uno scarto” praticando il quale l’arte è riuscita a praticare un’attitudine volta “a conferire degli choc esistenziali, a mettere in crisi l’individuo”, a produrre cioè pensiero critico[51]. Da decenni, invece, accade sempre più spesso di assistere a quella eterna, sterile ripetizione del gesto di Marcel Duchamp che ci appare come un vero e proprio tradimento del ruolo antagonista dell’arte. Se infatti la provocazione dell’urinatoio-“Fontana” del 1917 conteneva ancora un’opportuna tensione critico-provocatoria, nei decenni successivi – e fino a noi – operazioni simili sono divenute sempre più “una patente di nobiltà per esporre qualsiasi oggetto come opera d’arte, eliminando così ogni idea di un’opera eccellente o di un «sublime»”[52]. In un museo risulta ormai difficile, quando non impossibile, “distinguere i materiali di un’installazione «povera» dai mucchi di calcinacci per i lavori di «rinnovamento»”[53].

Così, diventa necessario che lo spettatore “ingenuo”, incapace di distinguere, venga guidato dal museografo e dal critico – esperti ai quali si richiedono ormai soprattutto “capacità promozionali” – a riconoscere la nuova aura feticistica di quella che viene presentata come “vera arte” là dove lui vedeva solo irrilevanza[54]. Così oggi l’arte, ormai consumata, rinasce e sopravvive proprio nel consumo di un’arte che evapora in una idea-di-arte e che si fa merce. Oggetto ideale del desiderio, alla stregua di una merce qualsiasi, l’arte è ormai da concepire principalmente “come mero segno e come feticcio”[55]. Omologandosi di fatto in ciò all’industria culturale, al design, alla pubblicità, essa ha perso la capacità di innescare tensioni critiche nello spettatore. Anche per questo – ripetiamolo – la sfera dell’arte è oggi estremamente dilatata e l’estetizzazione della vita, avviata proprio da artisti come Duchamp, ha conquistato indiscutibilmente la scena. Ma il risultato è sconfortante:  oltre ad essere divenuta direttamente affare di business, merce tra le merci, “l’arte contemporanea si è buttata nelle braccia dell’industria culturale e chiede umilmente di essere ammessa alla sua tavola”[56].

D’altra parte, come si è giustamente osservato, è stata proprio la “critica artistico-culturale” rivolta al grigiore della società industriale dalle avanguardie artistiche prima e dai movimenti degli anni Sessanta e Settanta poi, a rappresentare l’ingrediente essenziale di quel “nuovo spirito del capitalismo” entro il quale ci troviamo oggi ad aggirarci come pesci in acquario[57]: un acquario nelle cui pareti vetrate non è certo facile scavare percorribili linee di fuga. L’arte contemporanea portava in sé qualcosa di molto simile ad una promessa di democrazia assoluta ed egualitaria, dal momento che aboliva le distanze gerarchiche tra linguaggi, generi e soggetti, “connettendo non importa che cosa a non importa che cosa, indirizzandosi a non importa chi”[58]. Negli ultimi decenni, quella promessa – o se si vuole quel “programma sovversivo” che consisteva appunto nell’affermare “l’uguaglianza di non importa chi con non importa chi” – è stata recuperata e svuotata di ogni potenza emancipatoria dall’egualitarismo banalizzante e degradante della televisione, del marketing, della pubblicità. Tutti agenti e fattori di un potente dispositivo in cui “tutto si equivale!”capace di tradurre in merce tutte le differenze, le semiotiche e le forme di soggettività, rendendole di fatto intercambiabili perché scambiabili sul mercato[59].

In altri termini, l’arte ha perduto il suo smalto sovversivo perché la sua autonomia è stata catturata nel fitto reticolo linguistico ed espressivo che tiene in forma i mille piani delle cosiddette società di mercato. La “potenza politica della creazione”, che abita strutturalmente il gesto artistico, non si salda più quasi mai a processi di soggettivazione capaci di esprimere emancipatoriamente la “potenza creativa della politica”[60]. Anzi, è proprio grazie al fatto di essere divenuta oggetto di mercato, e al contempo uno dei principali mercati, che l’arte ha potuto sopravvivere alla propria stessa scomparsa e conquistare una nuova aura. Ma si tratta di un’aura che nasce, per così dire, direttamente in produzione e che contribuisce fin da subito ad alimentare alcuni importanti, nuovi circuiti della fabbricazione del valore capitalistico[61]. Come è stato acutamente osservato – ma con un disincanto eccessivo e non condivisibile – il miracolo della sopravvivenza dell’arte andrebbe forse ricercato in un fatto davvero poco luminoso: “l’incontro tra le caratteristiche fisiche dell’oggetto d’arte […] e le proprietà miracolose del denaro. Ossia l’alleanza di due feticismi in uno solo”[62]. Le condizioni di possibilità della sua fortuna postuma risiedono, cioè, nel dato di fatto che “l’arte, fortunatamente è un mercato, e noi divinizziamo la prima perché abbiamo divinizzato in primo luogo e soprattutto il secondo”[63].

Tuttavia, forse proprio “spogliandosi di sé ed entrando nello spazio della sua scomparsa”, in alcuni momenti essa ha potuto mostrare gli spessori, le forme e le forze che tengono compattamente unite le pareti vetrate della mediasfera[64]. Detto altrimenti, vi è stato un momento in cui l’arte ha avuto la consapevolezza di avere varcato la soglia oltre la quale sarebbe divenuta null’altro che il surrogato di se stessa. Quella soglia è stata ampiamente superata nell’adesione priva di attrito alle pareti dorate dell’ultimo capitalismo, nella più bieca compromissione con quest’ultimo. È proprio dentro lo spazio inaugurale della sua vita postuma però – quello stesso spazio che veniva aperto dalla schiacciante affermazione della merce e del capitale sulle forme di vita -, che l’arte ha saputo scorgere le qualità essenziali del nuovo spirito del capitalismo. Come ha affermato Giorgio Franck, sulla scia delle analisi di Jean Baudrillard, nel tempo che generava le condizioni della sua morte – e della sua sopravvivenza come presenza di un’assenza, come “feticcio” decorativo e concettuale, come il “gas” di una “estetica diffusa” (nel turismo, nella moda, nella grafica, nel design, negli ipermercati e in ogni vetrina) – l’arte ha sprigionato forse per l’ultima volta “quel bagliore estremo che illumina il reale e ci consente di afferrarlo”[65]. Le pagine che seguono scavano in questo terreno; in uno spazio-tempo, cioè, che ha preceduto il momento in cui la nostra esperienza estetica è divenuta simile a quella che si sperimenta durante l’ “immersione nei vapori di un bagno turco”[66]. Prima che l’arte diventasse un gas diffuso ovunque[67], da respirare distrattamente al ritmo dello spettacolare integrato – e al quale richiedere principalmente un godimento estetizzante immediato -, le avanguardie storiche suggerirono l’esistenza di una linea di fuga possibile dall’asfittico governo capitalistico del reale: quella che conduce alla “politicizzazione dell’arte”[68].

parte 3



[41] Sul metodo genealogico il riferimento va ovviamente a M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in  Id., Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, Torino, Einaudi, 2001.

[42] T. Perlini, Maurice Blanchot: l’opera come presenza assenza, in M. Blanchot, Lautremont e Sade, Bari, Dedalo, 1975, p. 13.

[43] Ivi, p. 45.

[44] G. Franck, Il feticcio e la rovina. Società dello spettacolo e destino dell’arte, Milano, Mimesis, 2011, p. 9.

[45] M. Blanchot, Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, p. 188.

[46] G. Franck, Il feticcio e la rovina, p. 136.

[47] A. Jappe, Il gatto, il topo, la cultura e l’economia, in http://www.exit-online.org/

[48] Ibidem.

[49] Ibidem.

[50] Ibidem.

[51] Ibidem.

[52] Ibidem.

[53] Y. Michaud, L’arte allo stato gassoso. Un saggio sull’epoca del trionfo dell’estetica, Roma, Idea, 2007, p. 42

[54] G. Franck, Il feticcio e la rovina, pp. 132-133.

[55] Ivi, p. 136.

[56] A. Jappe, Il gatto, il topo, la cultura e l’economia,

[57] Cfr. L. Boltanski, E. Chiapello Le nouvel esprit du capitalisme, Paris, Gallimard, 1999.

[58] M. Lazzarato, Expérimentations politiques, Paris, Ed. Amsterdam, 2009, pp. 156.

[59] Ibidem.

[60] Cfr. J. Revel, La potenza creativa della politica, la potenza politica della creazione, in M. Baravalle (a cura di), L’arte della sovversione. Multiversity: pratiche artistiche contemporanee e attivismo politico, Roma, Manifestolibri, 2009.

[61] Lo dimostra esemplarmente il modo in cui perfino la produzione artistica e culturale underground alternativa sia stata utilizzata per valorizzare alcuni dei principali centri urbani gentrificati, favorendo così di fatto l’intervento della speculazione immobiliare. Cfr M. Pasquinelli, Oltre le rovine della città creativa. La fabbrica della cultura e il sabotaggio della rendita, in Baravalle (a cura di), L’arte della sovversione, cit., pp. 147-158. In generale sul tema, cfr. i saggi contenuti nello stesso volume e opportunamente discussi in A. Caronia, Arte, attivismo, soggettività, sabotaggio, in http://www.digicult.it/digimag/article.asp?id=1545.

[62] RDebrayVita e morte dellimmagineUna storia dello sguardo in OccidenteMilano, Il Castoro 1999, p. 187.

[63] Nel prendere le distanze da quel “fortunatamente” mi pongo in divergente accordo con l’analisi di Debray.

[64] G. Franck, Il feticcio e la rovina, cit., p. 9.

[65] Ibidem e pp. 126 e ss. Cfr. J. Baudrillard, La sparizione dell’arte, Milano, Politi. Sull’arte come gas nell’età dell’estetizzazione diffusa, cfr. Y. Michaud, L’arte allo stato gassoso. Un saggio sull’epoca del trionfo dell’estetica, Roma, Idea, 2007.

[66] Y. Michaud, L’arte allo stato gassoso, p. 79.

[67] Un illustrazione esemplare di ciò si ha nella trasmigrazione delle installazioni video permanenti dalle gallerie o dai musei nei negozi alla moda delle nostre città.

[68] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in Id., Opere complete. VI. Scritti 1934-37, Torino, Einaudi, 2004.

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ISSN:2037-0857