philosophy and social criticism

Wolfson è attuale?

Di Tobie Nathan

Sulla riedizione, in una nuova versione completa del suo libro: Ma mère,musicienne, est morte de maladie maligne à minuit, mardi à mercredi, au milieu du mois de mai mille977 au mouroir memorial à Manhattan [1]

Wolfson è attuale? Assolutamente attuale, a mio parere — vorrei moltissimo che lo fosse, ad ogni modo! Bisogna che lo sia!
1) Per quale ragione i libri di Wolfson hanno avuto… hanno un simile impatto?
Wolfson spedisce il suo primo manoscritto, Le schizo et les langues [2], a Gallimard nel 1963. Per quale ragione a Gallimard? Perché possedeva nella sua biblioteca un esemplare di À l’ombre des jeunes filles en fleur. Un manoscritto incredibile, scritto in francese, di una energia e di una originalità eccezionali. Rimarrà sette anni a circolare nella rete dell’editore, poi in quella di Temps Modernes. Verrà letto da Queneau (che se ne innamora), Paulhan (che voleva farglielo riscrivere), Sartre e Beauvoir, che ci si appassionarono e consigliarono la sua pubblicazione, Lacan, Dyonis Mascolo, Roman Jakobson e Gilles Deleuze. Una parte verrà del resto pubblicata nella rivista Les Temps Modernes prima che il libro completo venga preso in carico da J. B. Pontalis nella sua nuova collana, «connaissance de l’Inconscient».
Il secondo libro, Ma mère, musicienne, est morte de maladie maligne…, viene pubblicato per la prima volta nel 1984, sette anni dopo la morte della madre, in francese, in una collana lacaniana (Navarin).
La prima questione riguarda innanzi tutto l’effetto prodotto da queste due opere. Nel Dossier Wolfson, un’opera collettiva curata nel 2009 da Thomas Simonnet[3], si scopre, con stupore, che i più grandi si sono appassionati a questi testi: Foucault, Pier Aulagnier, Paul Auster, J. M. Le Clézio e Gilles Deleuze che ha redatto una prefazione fondamentale — una prefazione che annuncia gli sviluppi della sua filosofia.
Le ragioni sono molteplici:
– Innanzitutto l’epoca, gli albori di una psicoanalisi strutturalista, lacaniana, che va a centrarsi sul linguaggio (non era molto che Lacan aveva enunciato il suo esoterico «l’inconscio è strutturato come un linguaggio») e che troverà in questo autore una sorta di feticcio. Ma il malinteso è totale. Wolfson non si interessa assolutamente al linguaggio, ma alle lingue. E non se ne interessa per estasiarsi di fronte alla loro ricchezza, ma per trovare il modo di privarle della loro capacità di produrre significazioni. Non mi stupisce che Roman Jakobson si sia rifiutato di scrivere la prefazione al primo libro di Wolfson, tanto questo autore combatte ostinatamente «l’arbitrarietà del segno». Fa di tutto per rendere il segno il meno arbitrario possibile, è l’anima stessa del suo «procedimento».
– Da nemico giurato degli psy, Wolfson, pubblicato in una collana di psicoanalisi, diventerà l’idolo degli psy. Tutto ciò deve averlo certamente divertito molto…
– Una seconda ragione, ancora legata alla cultura francese del tempo. Wolfson detesta l’inglese e sceglie il francese per difendersi dall’intrusione di questa lingua che lo stupra, che lo penetra, lo invade e lo disloca. A distanza se ne può ridere, ma è tra il 1960 e il 1970 che emerge progressivamente l’idea di una francofonia politica, da contrapporre al Commonwealth e all’invasione mondiale della lingua inglese — è il 24 luglio 1967 che de Gaulle proclama a Montréal «vive le Québec libre»… Wolfson viene a solleticare — e non innocentemente!— la tempra chauvinista francese esattamente là dove più prude, è incensato dalla crema dell’intelligentsia francese dell’epoca. Indubbiamente Wolfson ha dei prooblemi con sua madre, che parla ad alta voce e fa intrusione con frasi inopinate in inglese, ma se è stato adottato e adulato dai suoi prestigiosi lettori francesi, è perché ha assunto un ruolo cosmico. È diventato la lingua francese stuprata, invasa dall’inglese delle Americhe. Ed ecco il secondo malinteso.
– C’è anche una terza ragione, il suo testo è folle, ma non la sua scrittura, leggibile, intelligibile, intelligente. Anche qui il fraintendimento è totale. Wolfson non parla affatto di ciò che gli psy vorrebbero intendere — di papà, mamma e di questo genere di questioni — no! Egli prova a comprendere i meccanismi nascosti del mondo, soprattutto per quanto riguardano il popolino, la gente comune. Come guadagnare alle corse di cavalli — i 4/5 del libro Ma mère, musicienne, est morte… sono consacrati alla ricerca di martingale per vincere al gioco. E le martingale che inventa sono comunitarie. Per vincere alle corse occorre esaminare l’origine culturale del fantino, dell’allenatore, il nome del cavallo e vedere se corrispondono a una festa italiana, una festa ebraica, irlandese, canadese… È da dire che finirà col guadagnare 2 milioni di dollari e si calmerà per un lungo periodo. Non si sentirà più parlare di lui fino a quando andò in fallimento.
Allora la questione Wolfson ci riguarda? Sì, noi, francesi, a cui viene a solleticare gli automatismi chauvinisti, che viene a sposare le nostre derive teoriche più ridicole, ben prima che ne prendiamo coscienza…
2) Wolfson schizo? Non è così certo!
Bisogna innanzitutto dire che «schizofrenia» è un termine ambiguo. Negli USA, in quel periodo, significava «psicotico», mentre in Francia davamo al termine un significato molto più ristretto e preciso. Dunque Wolfson psicotico? Certamente non è così sicuro. Certamente ha attraversato degli episodi, degli «esordi deliranti», sicuramente questi lo hanno portato ad abbandonare i suoi studi e rifugiarsi in una posizione filosofica.
Wolfson filosofo? Ben più filosofo che psicotico, in ogni caso! Ma un filosofo che ha deliberatamente deciso di utilizzare i meccanismi che intravisto nei suoi episodi deliranti per decostruire le percezioni immediate del mondo.
La cosiddetta schizofrenia, che ormai non si incontra più per il fatto che i malati ricevono immediatamente degli antipsicotici molto potenti alle prime avvisaglie, consiste esattamente in questi processi di decostruzione. Questa decostruzione non è la creazione, ma la precede, le è indispensabile, ne è la condizione di possibilità.
In ciò Deleuze non si è sbagliato nella sua prefazione, chiamandola «il procedimento». Quello a cui si assiste nel primo libro di Wolfson sulle lingue, non ha a che vedere con la follia, ma con la descrizione, intelligente e dettagliata, del procedimento di decostruzione.
Esempio: come distruggere una parola sentita in inglese, che viene a fare irruzione per la significazione che viene ad imporre. Cercandone degli equivalenti in due lingue altre — ad esempio il francese o il tedesco. E la parola si decostruisce, si distacca dalla sua significazione, perdendo la sua capacità intrusiva. E il racconto di questo procedimento incredibile è paziente, intelligente, coerente.
Quindi sul piano clinico, cosa è allora Wolfson? Oggi diremmo che è affetto da DGS «disturbi generalizzati dello sviluppo». Difficoltà nell’apprendimento della lingua, nell’apprendimento della scrittura e a seguire il portato di queste difficoltà nell’età adulta. Assenza di presa in carico. Trova egli stesso la soluzione inventandosi dei filtri. Si mette una cuffia da Walkman sulle orecchie, ascolta con un orecchio la frase che gli urla la madre e con l’altro le trasmissioni radio registrate in francese, tedesco o russo.
Filtrare le percezioni che provengono violentemente dal mondo è esattamente ciò che viene fatto al giorno d’oggi nelle metodiche di rieducazione degli autistici, che a loro volta percepicono le parole come invasioni cacofoniche.
Wolfson è un autistico che si è trattato da sé.
3) È dunque con l’inglese che Wolfson ha problemi?
Si e no! In modo immediato, sì! Ma se si riflette, se si è compreso il suo procedimento di decostruzione, di ricerca del nucleo, sta provando a ricostruire una lingua che avrebbe dovuto trovarsi là, nella sua famiglia, che avrebbe dovuto essergli trasmessa: lo yiddish! Non sono il primo ad aver sottolineato come le soluzioni di Wolfson siano una specie di reinvenzione dello yiddish che è, secondo le parole di Singer:

Una lingua ebraica, composta per lo più da parole germaniche, di un certo numero di parole slave e da un 10% di parole ebraiche e aramaiche. Vi si trovano anche termini in antico francese, in italiano e anche in arabo. Giunto in America, allo Yiddish si sono aggiunte delle parole in inglese…

E anche là Deleuze è stato il lettore più attento di Wolfson quando rileva che “lo studente di lingue schizofrenico” si calma quando ottiene da sua madre che finalmente gli parli in yiddish.
Detto altrimenti, Wolfson porta inoltre la questione fondamentale degli emigranti, come erano stati i suoi genitori: come restare sé quando ci si ritrova tanto lontani da questo sé, bagnati da una lingua straniera? Come preservare il nucleo?
4) Wolfson comico? Certamente! Di un humor acido, corrosivo, alla Céline. Si potrebbe descrivere tutta la sua opera come una barzelletta ebraica, come ad esempio quella che si poteva leggere in un giornale israeliano nel 2003:

«La maestra domanda all’allievo:
_ Perché chiamiamo la nostra lingua, «lingua materna?»
L’allievo riflette e quindi risponde:
_ Perché il padre non ha niente da dire…»[4]

…/… Questo è stato pressapoco il contenuto del mio intervento, oggi, lunedì 14 maggio, a La Grande Table, su France Culture.

[1]Con una nuova prefazione di Frédéric Martin, per le edizioni Attila.
[2]Louis Wolfson,Le schizo et les langues, Paris, Gallimard, 1970.
[3] A cura di Thomas Simonnet, Dossier Wolfson,ou l’affaire du schizo et les langues. Paris, Gallimard, 2009.
[4]Robert Samacher, «Louis Wolfson et le Yiddish».Recherches en psychanalyse,2005, 4, 123-135.
http://www.cairn.info/revue-recherches-en-psychanalyse-2005-2-page-123.htm

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