philosophy and social criticism

La corruzione della nuova gioventù Salò e la storia del nostro presente

di Roberto Chiesi

(Centro Studi – Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna)

SalòSalò o le 120 giornate di Sodoma (1975), l’ultimo film di Pier Paolo Pasolini, sembra contrapporsi alla Trilogia della vita – Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972), Il fiore delle Mille e una notte (1974) – non solo perché la rappresentazione del sesso coincide con la messa in sena di atroci sevizie psicologiche e fisiche (mutuate, con numerose e significative infedeltà, dal romanzo incompiuto del marchese de Sade Les 120 journées de Sodome ou L’école du libertinage, 1785), non soltanto perché l’erotismo ha perduto ogni carica liberatoria ed è diventato un rituale di morte.

Ma anche perché in quei tre film si inanellavano varie storie, incorniciate da un filo narrativo (il viaggio dei pellegrini a Canterbury nei Racconti di Canterbury, la storia d’amore fra Zumurrud e Nur ed-Din in Il fiore delle Mille e una notte) o più (il racconto di Ciappelletto e quello del “miglior discepolo di Giotto”, rispettivamente, per la prima e la seconda parte del Decameron). In Salò, invece, i racconti che le signore Vaccari, Maggi e Castelli, tre attempate prostitute, narrano ai Signori per eccitarli nella Sala delle Orge, non sono mai visualizzati, non danno mai origine ad autonome narrazioni filmiche, ma rimangono racconti orali (anche se ispirano l’attuazione immediata o successiva di azioni perverse).

Le storie narrate nei film della Trilogia della vita si svolgono in luoghi e spazi diversi (a Napoli e dintorni per Il Decameron; a Southwark, Oxford, Greenwich, Bath e in altre cittadine anglosassoni per I racconti di Canterbury e nelle città, campagne e isole arabe per Il fiore delle Mille e una notte), luoghi e spazi che appartengono e rimandano ad un mondo popolare e arcaico amato da Pasolini. Al contrario, l’inferno in tre gironi (delle manie, della merda e del sangue), un’unica temporalità e un’unica dimensione di Salò, è calato fra le quattro pareti di una villa (situata in un luogo indeterminato) dove trionfa l’arredamento borghese e piccolo borghese degli anni Trenta e Quaranta, asfittico e claustofobico, dominato da tonalità gelide e dalle forme grevi dell’arredamento.

Ma anche Salò racconta altre storie surretizie e sotterranee, nascoste nelle pieghe della narrazione che fluisce in un presente sempre più allucinato.

Si pensi al momento vertiginoso in cui il vescovo, uno dei quattro ‘mostri’ rappresentanti del Potere, durante un’ispezione notturna, riceve la delazione di un ragazzo, Claudio, che innesca una serie di altre delazioni concluse dalla scoperta dell’amore segreto fra Ezio, uno dei loro militi, e una domestica di colore.

Salò cela anche un’altra storia che scorre silenziosa e segreta in parallelo agli eventi terribili mostrati nel film e che lo spettatore percepisce a fatica, perché investito dall’estrema violenza della narrazione, dal clima di terribile disagio che si respira nel chiuso di quella villa.

È una storia che Pasolini racconta nei primi piani silenziosi che spesso si soffermano a scrutare i volti dei ragazzi sequestrati nella villa e sottomessi ai capricci e alle mostruose perversioni dei Signori. È la storia della graduale e irresistibile complicità che si stringe fra alcuni ragazzi, catturati insieme agli altri, e i loro carnefici, che, nel momento in cui li scoprono spontaneamente conniventi alle regole abiette e aberranti che hanno instaurato nella villa, decidono di salvare loro la vita e di eleggerli a spettatori, insieme a loro, dell’ultimo spettacolo di sevizie, il più atroce, che consiste nelle torture che provocano la morte dei ragazzi e delle ragazze condannate.

In filigrana, Salò racconta il compiersi di un processo di omologazione, quasi la messa in scena allusiva a quel fenomeno che Pasolini descriveva nei suoi scritti del 1973-1975, come la mutazione antropologica degli italiani, le tappe di un fenomeno che aveva visto la corruzione dell’Italia popolare trasformata in piccolo-borghesia e prona a seguire supinamente i degradanti rituali della massificazione (le serate trascorse davanti ai teleschermi televisivi, le code ai grandi magazzini).

Pasolini ha dichiarato che non voleva mostrare e quindi filmare direttamente il degrado dell’Italia e il corpo degradato del suo presente; «un film realistico in questo senso non lo posso fare perché… perché non lo posso fare, proprio fisicamente»[1].

Nel romanzo di Sade, aveva trovato uno strumento metaforico e un filtro di distanza per evocare il presente attraverso un passato che non è ricostruito filologicamente e non rimanda alla Repubblica Sociale se non come maschera, come un teatro dove inscenare una “sacra rappresentazione” che, in effetti, allude al presente, soprattutto nell’immagine dei carnefici, dei loro scherani e delle vittime assiepati ad ascoltare le voci untuose delle narratrici. Un teatro che rimanda all’abbruttimento degli italiani plagiati dalla televisione, dove le voci e i volti delle signore Vaccari, Maggi e Castelli potrebbero essere commentati con queste parole che Pasolini riservava al ‘modello’ di presentatrice televisiva: «una specie di puttana che lancia al pubblico sorrisi di imbarazzante complicità e fa laidi occhietti»[2].

La gioventù omologata

Due oggetti acquistano nel film un rilievo essenziale e demoniaco: il libretto nero del regolamento su cui si posa la mano del Monsignore nella prima sequenza e che è richiuso minacciosamente dalle mani guantate del Duca al termine dell’”Antinferno”. È il libro della legge arbitraria e perversa del terribile collegio di Salò che sancisce quelle regole per la cui infrazione, si finisce nel libretto nero delle punizioni. Due libri, attraverso cui si esercita l’aberrazione pedagogica dei quattro “mostri”. I loro sforzi, infatti, oltre che nel tentativo di soddisfare i propri piaceri carnali, sono volti all’esercizio di quella mostruosa pedagogia cui si richiamano continuamente. Una pedagogia che si articola intorno ai rituali della messa in pratica delle narrazioni dei racconti. Una pedagogia che è un altro, fondamentale Mistero del film: adombra l’orrore irrappresentabile della corruzione di uno sviluppo senza progresso.

Esemplare è il percorso di uno dei ragazzi selezionati, Umberto Chessari, che il servo laido dei signori si vanta di essere riuscito a catturare dopo “tredici notti all’addiaccio”. Nella sua prima apparizione, durante la scelta dei ragazzi da prelevare, guarda i signori con la testa all’indietro e la bocca socchiusa, in un’ambiguità indecifrabile. Non verrà obbligato a spogliarsi, a differenza di Sergio e Franco, e si salverà.

Sarà quel ragazzo bruno che vedremo ridere a tavola, sollecito a mostrarsi complice dell’umorismo dei signori e della loro corte. La sua estroversione è complementare all’introversione di Rino, l’altro ragazzo che si lascerà subito normalizzare alle voglie e alle direttive dei “mostri”. Il momento che sancisce l’avvenuta metamorfosi a collaborazionista di Umberto, è il gesto di scherno rivolto al gruppo dei ragazzi e delle ragazze destinate alle sevizie e alla morte. Pronuncia prima un insulto – “culattoni” – che condensa tutta la sua ipocrisia (la sodomia è diventata una norma e non una trasgressione della norma all’interno di quell’orrido collegio) e poi gioca con un’arma mimando una mitragliata. L’ipocrisia è la tinta che domina il suo sorriso di scherno e minaccia. La stessa di quando riderà rumorosamente all’ennesima barzelletta del Presidente, davanti alle finestre dove stanno massacrando i suoi coetanei.

Umberto e Rino, alla fine, non saranno più obbligati a rimanere nudi e umiliati come gli altri, ma avranno ormai avuto accesso al privilegio di indossare abiti borghesi come i quattro mostri, ridendo alle loro stesse barzellette. Non hanno perduto la loro identità: infatti Pasolini, mostrando i loro sguardi ambigui fin dalle prime inquadrature, suggerisce la latenza di un atteggiamento connivente con le crudeltà dei quattro Signori. La loro identità non era diversa: l’orrore di Salò risiede soprattutto nella scoperta dell’assenza di diversità fra i giovani e i Signori, nella loro coincidenza che evidentemente esisteva da sempre: «Se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così, vuol dire che lo erano già potenzialmente: quindi anche il loro modo di essere di allora è, dal presente, svalutato. I giovani e i ragazzi (…) se ora sono immondizia umana, vuol dire che anche allora potenzialmente lo erano. (…) Il crollo del presente implica anche il crollo del passato»[3].

 


[1]     De Sade e l’universo dei consumi, intervista a cura di Gideon Bachmann (2 maggio 1975), Televisione della Svizzera Italiana, 29 aprile 1975, trascrizione in Pier Paolo Pasolini, Il cinema in forma di poesia, a cura di Luciano De Giusti, Cinemazero, Pordenone 1979, pp. 163-166.

[2]     Ma la donna non è una slot machine, intervista a cura di Dacia Maraini, «L’Espresso», 22 ottobre 1972.

[3]       Pier Paolo Pasolini, Abiura dalla Trilogia della vita, «Corriere della sera», 9 novembre 1975, poi in ID., La Trilogia della vita. Il Decameron. I racconti di Canterbury. Il Fiore delle Mille e una notte, a cura di Giorgio Gattei, Cappelli, Bologna, 1975 e in ID., Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976.

:::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::

 tysm literary review, Vol 1, No. 1 – 3 january 2013

Creative Commons LicenseThis opera by t ysm is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 3.0 Unported License. Based on a work at www.tysm.org.

ISSN:2037-0857