philosophy and social criticism

TORINO FILM FESTIVAL 2012 Breve bilancio sulla trentesima edizione

Giampiero Raganelli

 

Approdato alla sua trentesima edizione, il Torino Film Festival si è aperto quest’anno portandosi dietro vari strascichi di polemiche. La prima riguardava la vicinanza con il Festival di Roma e nasceva dalla contrapposizione di orticelli tra il nuovo asse Lido-Mole, incarnato dalla figura di Alberto Barbera che assomma la direzione di Venezia e quella dell’ente promotore di Torino, e il festival capitolino. La seconda invece era nata dall’improvvisa defezione di Ken Loach, con relativo film annullato per decisione della casa di distribuzione, in solidarietà con i lavoratori in odore di licenziamento della cooperativa Rear, l’impresa di pulizie del Museo del Cinema.

Dati alla mano, Gianni Amelio ha alla fine ha potuto dire di aver trionfato: il 16,25 per cento di incassi in più per quello che ha definito “un festival di sana e robusta costituzione”, un festival andato proprio al massimo. Anche se, per la verità, questo dato potrebbe dar ragione ai filo-romani, dimostrando che l’avvicinamento di Roma non ha generato una flessione del pubblico sotto la Mole. Il grande aumento di spettatori era palpabile nelle interminabili code delle ‘rush line’, nella facilità di rimanere fuori anche dalle proiezioni sulla carta apparentemente meno appetibili. Il grande afflusso è stato determinato dalla grande quantità di giovanissimi, mai vista ai festival più blasonati, e ai torinesi che si riversano nelle sale nel weekend e dopo l’orario di lavoro. Torino conferma così quella sua vocazione di “cinema giovani” come nella sua iniziale definizione, e di festival cittadino, facilmente accessibile anche ai non addetti ai lavori.

Rimangono poi anche dei lati oscuri. Il concorso che, a voler essere generosi, è di fatto una sezione collaterale rispetto alle altre del festival, o, non volendo esserlo, del tutto pleonastico. Piaccia o non piaccia, la storia del festival sotto la Mole non è fatta certo dai suoi palmarès, ma dai quaderni colorati delle retrospettive sulle varie nouvelle vague, o dai ricchissimi cataloghi delle personali sugli autori americani curati dalla D’Agnolo Vallan. Qualcosa di interessante si è comunque visto quest’anno anche nella competizione, come I.D. di Kamal K.M, dall’India arriva la prima lucida riflessione sulla pervasività degli smartphone nella nostra vita, e Sun Don’t Shine dell’americana indipendente Amy Seimetz, un road movie disperato nella desolazione dell’America di provincia.

L’altra critica che è stata mossa al TFF, nello specifico dal neo direttore romano Marco Müller, è quella di essere una manifestazione che non si preoccupa di selezionare seconde o terze visioni provenienti da altri festival. Ma va detto che a quel punto lo stesso rilievo potrebbe essere fatto alle manifestazioni cinematografiche che gli addetti ai lavori considerano più importanti come San Sebastiàn, Rotterdam e la stessa Locarno, le ultime due malleate proprio dai lunghi anni di direzione Müller. Torino che rimane il terzo festival cinematografico italiano, spodestato dal secondo da Roma, non può certo sperare di accaparrare opere dai due colossi che la seguono e precedano, ed è comunque giusto che i film più importanti dell’anno, come Holy Motors e No abbiano una loro ricircolazione tra i festival “minori”.

Infine rimane la perplessità sulla formula regista italiano direttore passacarte o, a voler essere generosi, pro-forma, più vice direttore di fatto direttore. Allo scadere del mandato di Gianni Amelio, si profila all’orizzonte Gabriele Salvatores mentre nulla si sa del futuro del vice Emanuela Martini. Una formula che, va detto, è pure il risultato del sisma creato dal Festival di Roma, essendo stata inventata proprio per rispondere alla neonata manifestazione veltroniana con un nome glamour per i salotti radical chic come Nanni Moretti. E ciò a discapito dei due poveri co-direttori precedenti, gli ottimi Giulia D’Agnolo Vallan e Roberto Turigliatto che avevano organizzato edizioni memorabili.

Le due personali di quest’anno hanno seguito il tradizionale schema: una a un regista classico di area anglosassone, quest’anno Joseph Losey, l’altra a un autore emergente poco conosciuto di una cinematografia del mondo, quest’anno il portoghese Miguel Gomes. Meno scontata di quel si potrebbe pensare la prima, al regista de Il servo, che ha visto la presenza della moglie Patricia e del figlio Marek. Quella su Gomes, come ormai da qualche anno a questa parte, è stata inglobata nella sezione “Onde”, senza prevedere, purtroppo, un catalogo specifico. Un nuovo autore di indubbio spessore che, con Tabu ha firmato un duplice omaggio a Murnau, evidente sia dal titolo che dal nome della protagonista, Aurora. Si tratta di un film in due parti, la prima nel presente, la seconda rappresentata da reminiscenze dell’Africa coloniale, che hanno gli stessi titoli, “Paradiso” e “Paradiso perduto”, ma invertiti, del Tabu di Murnau.

Per il resto è stata ancora una gran Torino, una grande abbuffata di film di rilievo distribuiti nelle varie sezioni. Per “Rapporto confidenziale” si è potuto finalmente vedere l’ultimo straordinario film di Sono Sion, regista di culto giapponese omaggiato l’anno scorso al TFF, Kibō no kuni/The Land of Hope, un film toccante dove il regista abbandona temporaneamente il suo stile ‘sparato’ per dedicarsi a raccontare, anche se in modo traslato, la tragedia di Fukushima. Un’opera scandalosamente non presa da Venezia, ma ora il braccio sinistro di Barbera ha rimediato all’errore del suo braccio destro. Notevole nella stessa sezione anche Final Cut – Hölgyeim és uraim/Final Cut – Ladies and Gentleman dell’ungherese György Pálfi. Si tratta di una sorta di Movie Orgy, dove con il semplice montaggio di frammenti di tanti classici del cinema si costruisce una nuova, e banale storia d’amore. Una scena cult è quella di Gerard Depardieu (da Novecento) che guarda le gambe di Sharon Stone di Basic Instinct e poi si inserisce un Anthony Perkins dallo sguardo neutro. Da ricordare, sempre per “Rapporto confidenziale” The Lords of Salem di Rob Zombie, folle musical sulle streghe.

Per “Festa mobile” notevole il film inglese della Sophie Fiennes, The Pervert’s Guide to Ideology, un viaggio tra le ossessioni cinematografiche del filosofo Slavoj Žižek, che fa il paio con il precedente film della regista The Pervert’s Guide to Cinema. Da ricordare anche il buon action sudcoreano Bumchoiwaui junjaeng/Nameless Gangster di Yun Jong-bin, anche se incline, come spesso le opere di quel paese, a scadere nella prolissità. E ancora per “Festa mobile” Quartet di Dustin Hoffman, una commedia stravagante ambientata in una casa di riposo per musicisti, che laurea regista il grande Dustin; il brillante Ruby Sparks di Jonathan Dayton e Valerie Faris, film sull’amore e la narratologia; A Liar’s Autobiography – The Untrue Story of Monty Python’s Graham Chapman 3D, film che combina diversi stili d’animazione per raccontare la storia romanzata della vita di un Python.

Nella sezione “Torino XXX”, dedicato ai registi che hanno fatto la storia del festival, si è potuto vedere il penultimo film del compianto Wakamatsu Koji, 11·25 jiketsu no hi: Mishima Yukio to wakamono-tachi/11.25: The Day He Chose His Own Fate, ricostruzione meticolosa del tentato colpo di stato e successivo suicidio rituale dello scrittore Mishima Yukio che rientra nella lettura del regista delle utopie degli anni settanta. Baad el Mawkeaa/After the Battle è una storia del regista egiziano Yousry Nasrallah ambienta nello sfondo dei tumulti di piazza Tahir. No di Pablo Larraìn completa la trilogia della dittatura cilena che vide il suo inizio proprio a Torino con Tony Manero, raccontando del pubblicitario cui viene affidato l’incarico di elaborare la strategia elettorale per il no al proseguio della dittatura di Pinochet nel referendum del 1988. E naturalmente il clou di “Torino XXX” è stato rappresentato da Holy Motors di Leos Carax, uno dei film più importanti dell’anno, esempio, nel suo delirio espressivo, di cinema del futuro.

Davvero notevole quest’anno la sezione documentari, “TFFdoc”, dove sono state presentate due lavori straordinari come Leviathan di Lucien Castaign-Taylor e Véréna Paravel e A Última Vez Que Vi Macau/The Last Time I Saw Macao di João Pedro Rodrigues e João Rui Guerra da Mata. Il primo è tutto girato all’interno di un peschereccio al largo della costa orientale statunitense, facendo uso di piccole telecamere leggere. Nelle stesse acque solcate dal capitano Achab la lotta dell’uomo con la natura è diventata ormai impari e governata dalle logiche disumane da catena di montaggio e del prelievo indiscriminato di risorse, partendo dalla dottrina di Hobbes. Il secondo sotto forma di noir è un poema di geografie perdute nella ex colonia portoghese di Macao, epurata ormai da ogni residuo del passato coloniale. E poi vanno ricordati alcuni doc come Materiale da distruzione, cui era abbinata la videoinstallazione Nostra signora dei turchi Rushes al cinema Lux, che si avvale del materiale straordinario preso dal girato del capolavoro sessantottino di Carmelo Bene, dimostrazione del suo genio iconoclasta, così come nell’altro documento, Concerto per attore solo, unica testimonianza filmata delle prove teatrali del Maestro, nello specifico quelle per il suo Machbeth. E poi Signo’ Belluscone… dica!, un viaggio nel mondo di Ciprì e Maresco attraverso il filo conduttore di Berlusconi, unico riferimento a cose o persone assolutamente voluto della loro opera già dai tempi di Cinico TV. E da ricordare anche il documentario giapponese The Cat that Lived a Million Times di Kotani Tadasuke sull’illustratrice di libri per l’infanzia Sano Yoko.

Tante altre cose sarebbero da segnalare, nella tradizionale ipertrofia torinese, che Amelio consegna in eredità al suo successore. À Suivre.