Moro e i poliziotti del comunismo
di Francesco Paolella
Nota su Marco Belpoliti, Da quella prigione. Moro, Warhol e le Brigate Rosse, Guanda, Parma 2012.
I militanti di Casa Pound e di Forza Nuova diventeranno sempre di più gli “eroi” (paradossali) dell’antifascismo italiano; saranno necessari a istituzioni e storici per giustificare il proprio lavoro di “salvaguardia della memoria”. Le parole nostalgiche dei “neofascisti” saranno attese e ambite, per tenere alta la guardia contro il “pericolo fascista”. E’ il prezzo da pagare per il passare del tempo e la morte degli ultimi testimoni. Per quanto riguarda il terrorismo esploso a partire dagli anni Settanta, c’è ancora tempo. Le memorie dei protagonisti di quella terribile stagione (vittime e colpevoli) saranno comunque sempre utilizzate (e forse anche utili) per ricordarci il pericolo che ha corso la democrazia italiana.
I discorsi che si sono sentiti in occasione del recente funerale a Reggio Emilia di Prospero Gallinari (uno dei brigatisti del sequestro Moro) e che hanno fatto emergere tanti non-detti, tante ambiguità e tanta ignoranza, dimostrano l’esistenza di un atteggiamento radicato e contraddittorio verso il terrorismo. Da una parte, un paradossale “bisogno” di terrorismo come se si trattasse di una emergenza eterna, come se fossimo ancora negli anni di piombo; dall’altra, c’è il continuo tentativo di rimuovere quella storia, di banalizzarla, o, peggio, di giustificarla in toni apertamente nostalgici (da parte di pochi, per fortuna).
Da ciò deriva che è molto difficile poter dire qualcosa di sensato sul terrorismo. Sembra che dall’omicidio di Moro, vero punto di non-ritorno nella storia della crisi italiana, non siano passati che pochi giorni. L’Italia è rimasta ferma, immobile davanti alla Renault rossa in via Caetani. Il corpo morto di Aldo Moro non è stato davvero sepolto; il fantasma di Moro continua a venirci a cercare. Fotografando Moro nella “prigione del popolo”, i brigatisti ci hanno fatto vedere la loro stessa prigione ideologica. Sconfitti, ridotti a maschere grottesche (ma lo erano già allora), avrebbero voluto usare il volto di Moro per mostrare l’efficacia del loro potere crescente, del loro contro-potere: ci hanno lasciato invece lo sguardo di un uomo ormai spogliato di tutto, di una “creatura”, di un “mortale”; ma nello stesso tempo hanno rappresentato la loro stessa sconfitta, la violenza del loro assurdo.
In nome del loro fantomatico “popolo”, si sono trasformati in “poliziotti del comunismo”. Avevano bisogno di una icona negativa del potere, avevano bisogno di materializzare l’immagine del nemico vinto, di mostrarlo umiliato: Moro non più come presidente della DC, ma come un uomo comune, mediocre, debole.
Le polaroid che i brigatisti hanno iniziato a scattare durante i sequestri già dal 1972, e in particolare quelle fatte a Moro, dovevano certamente dimostrare agli italiani che i rapiti erano ancora vivi (le polaroid erano prove certe perché non manipolabili). “Documenti” in senso assoluto; eppure totalmente e inevitabilmente costruite. Dovevano essere infatti soprattutto delle foto segnaletiche. Quelle fotografie nascevano come veicoli di propaganda, ma non solo, come nota giustamente Belpoliti:
«Le immagini dei sequestrati delle BR, da Macchiarini ad Aldo Moro, funzionano come un oggetto di propaganda, ma anche da strumento poliziesco alla rovescia, come un Wanted dei sovversivi che vorrebbero farsi poliziotti di un nuovo ordine, quello fondato sulla loro idea di Comunismo, e che perciò trattano i nemici alla stregua di criminali da esporre al pubblico, dopo averli fotografati in una prigione proletaria» (p. 19-20).
Di più, le polaroid di Moro si sono imposte come vere e proprie “fotografie pubblicitarie”: colpire lo sguardo, essere una fonte di shock
Lo sguardo di Moro in quei due scatti è riuscito però a scardinare l’allestimento voluto dai brigatisti. La sua “normalità”, il suo apparire dimesso ma non vinto, hanno cambiato il significato della “sacralità” della figura di Moro: non più il potente, ma un uomo ormai condannato. Volendo rovesciare l’immagine di Moro, i brigatisti lo hanno svelato nella sua umanità.
Le due polaroid che ritraggono Moro prigioniero sono un vero spartiacque anche per una storia dell’uso del corpo da parte dei politici – tema così caro a Belpoliti. Dopo il trauma di piazzale Loreto e la fine di Mussolini, i politici repubblicani hanno nascosto il proprio corpo, fino a giungere a un vero culto dell’invisibilità. L’ideologia sessantottina, con il “ruolo pubblico” attribuito al corpo, ha dato avvio a un vero ribaltamento in questo ambito, fino all’esplosione degli ultimi venti anni, con il “corpo del capo”, esposto, rifatto, mascherato.
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tysm literary review, Vol 1, No. 2 – 28 january 2013
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