philosophy and social criticism

Il cinema di Oshima Nagisa, tra iconoclastia e classicismo

di Giampiero Raganelli

gohatto2In una notte lunare, algida, un ciliegio in fiore, bianco, abbacinante, viene tranciato con un veloce colpo di spada da un samurai. Questa immagine, il finale del film Gohatto (Taboo, 1999), rimarrà ormai scolpita come il congedo e il canto del cigno del regista Ōshima Nagisa, dopo la sua morte e dopo un lungo periodo di inattività cinematografica conseguente alle sue precarie condizioni di salute successive a un ictus. Questa scena racchiude l’essenza stessa di tutta la cinematografia del regista.

Il ciliegio in fiore, simbolo per eccellenza del Giappone, reciso rappresenta ancora un cimitero del sole, l’epitaffio di un regista ‘arrabbiato’ che ha vissuto la sua carriera artistica nella forte dissacrazione dei simboli del suo paese, nel mettere a nudo tutti i nervi scoperti della società nipponica, dal razzismo, soprattutto verso i coreani, ai crimini di guerra, alla pena di morte, al tabù della sessualità. Sotto un altro chiaro di luna, nella stessa luce bluastra notturna, il capitano Yonoi di Senjō no merii kurisumasu (Merry Christmas Mr. Lawrence, 1983), taglia una ciocca di capelli biondi dalla testa affiorante dalla sabbia dell’esanime maggiore Celliers, consumato dalla luce diurna di un sole accecante, di quello stesso disco rosso sanguinante con cui si conclude Taiyō no hakaba (The Sun’s Burial, 1960), film in cui era bandito il colore verde perché «edulcora i sentimenti».

Il forte estetismo delle due sopracitate sequenze notturne è indicativo dell’altro polo verso cui Ōshima ha sempre oscillato. Il suo cinema è sempre stato teso tra iconoclastia e classicismo anche se, come tutti i grandi autori, il suo pensiero non è mai schematizzabile, ma si stempera in mille sfumature. La sua personalità stessa è stata tormentata, tra i valori tradizionali propri della classe samuraica cui apparteneva, il sangue che gli scorreva nelle vene, e l’adesione agli ideali marxisti. Questo dissidio interiore si può probabilmente far risalire a un episodio biografico, la forte delusione che provò, diciassettenne, alla sconfitta del Giappone nella Seconda guerra mondiale. Non per la disfatta in sé quanto per la conseguente messa in discussione del senso potere costituito, per aver realizzato come le autorità avessero ingannato il popolo nell’inculcare il falso mito dell’invincibilità del paese. E particolarmente ipocrita e cinico risultò, in quest’ottica, il discorso radiofonico alla nazione, di annuncio di resa, da parte dell’imperatore Hirohito.

2c8f344da079e7bf4bfa5b57def05603La voce del sovrano gli sembrava inumana, come ha riferito, non tradiva emozione alcuna e la sconfitta veniva fatta passare come un disastro naturale. Ōshima torna a quella fase cruciale nella storia del paese, due volte, e indirettamente tre se si considera Merry Christmas Mr. Lawrence , dove quest’episodio rimane in un’elissi narrativa. La prima volta è per il suo sesto film, Shiiku (The Catch, 1961), ambientato in un piccolo villaggio rurale, dove i protagonisti manifestano le stesse reazioni di incredulità da lui provate all’annuncio della sconfitta militare. E dove, in un ambiente di personaggi gretti e razzisti, gli unici che si salvano sono i bambini del villaggio, innocenti, nei quali si identifica lo stesso autore. La seconda volta è nel documentario Daitōa sensō (The Pacific War, 1968), un montaggio di cinegiornali d’epoca, giapponesi e americani, che culmina proprio con la riproposizione integrale del famigerato discorso dell’Imperatore. L’acredine del regista, oltre che nei confronti del sovrano, verso quella classe politica nazionalista, militarista e fascista che ha portato il paese alla Seconda guerra mondiale, è presente anche in Ai no koriida (In the Realm of the Senses, 1976), film ambientato in un anno cruciale della storia nipponica, il 1936, quello del tentato colpo di stato a opera dei giovani ufficiali della fazione radicale, che, pur represso, diede l’occasione per l’assunzione dell’egemonia politica da parte dell’esercito. La militarizzazione del paese è evidente nella scena in cui il protagonista Kichi, uscendo dalla porta osserva un plotone militare che passa in strada. In particolare il film delinea la concezione del regista di “militarismo sessuale”, concetto su cui torneremo.

L’estetica, o l’estetismo, della tradizione nipponica, hanno un grosso peso nel film Gishiki, (The Ceremony, 1971). Si tratta in questo caso di un’enfasi parossistica e caricaturale dei rituali vuoti e pomposi tipici della società nipponica. Paraventi riccamente illustrati, incensi, kimono sgargianti, le composizioni di bamboline per l’hinamatsuri, la festa delle bambine, sono visti come i simboli di una società decandente, incarnata dalla famiglia Sakurada, attraverso le cui vicende si rispecchia la storia del paese del dopoguerra, e al cui centro è situata la figura autoritaria del patriarca Kazuomi, padre-padrone evidente metafora dell’Imperatore. Un tripudio di kimono riccamente decorati, in una ricostruzione peraltro filogicamente accuratissima, tra raffinate musiche di shamisen, lo strumento a corde delle geisha e degli accompagnamenti del teatro kabuki, è preponderante anche in In the Realm of the Senses. Da un lato rientrano in quella compresenza, e dicotomia, di raffinatezza e animalità, di estetismo e brutalità, eleganza dell’inquadratura e violenza delle immagini, che poi Ōshima trasferisce in chiave occidentale in Makkusu, Mon Amūru (Max, Mon Amour, 1986), su sceneggiatura di Jean-Claude Carrière: una distinta Charlotte Rampling, che compare in ogni scena con un abito più elegante dell’altro, è impegnata in una “torbida” relazione con uno scimpanzè. Dall’altro lato riflette considerazioni su eros e società nella storia giapponese. Un paese che ha assistito a un cambiamento dei costumi sessuali in chiave moralistica durante l’epoca Meiji (1868-1912), quella dell’occidentalizzazione e della modernizzazione, su imitazione del modello occidentale e in particolare statunitense, cosiderato un esempio di superiorità e di successo. Ben diversa, e più libera, la sessualità, e la sua rappresentazione, nelle epoche precedenti. Come evidente nel carattere licenzioso del Genji monogatari, il poema cardine della classicità giapponese, dell’XI secolo, o negli shunga, le stampe erotiche di epoca Edo (1603-1868). Così come nella evoluzione della rappresentazione del nudo, come delineata dallo storico dell’arte Nakagawa Hisayasu.

La figurazione estrema della sessualità si accompagna così in Ōshima a elementi della classicità, non solo estetici. I due protagonisti di In the Realm of the Senses, Kichi e Abe Sada, percorrono un percorso autodistruttivo – una “spirale dell’assoluto” come definita da Robert Benayoun – che, pur portando alla morte di uno solo dei due, richiama la struttura del shinjū, il doppio suicidio di amanti, elemento centrale della drammaturgia di epoca Edo. E naturalmente il comportamento di Kichi e Abe Sada è una sfida alle convenzioni sociali sessuofobiche tipiche del militarismo sessuale. Così, in un suo scritto, Ōshima definisce questo concetto: «l’imposizione a tutta la popolazione di un’etica, funzionale al rafforzamento economico e militare, che ha condizionato pressoché uniformemente le idee sulla sessualità dall’epoca Meiji». Quello di Kichi e Abe non sarebbe stato un comportamento immorale, antisociale e deviante nelle epoche precedenti. Nel film successivo, che può essere considerato la seconda parte di un dittico, Ai no bōrei (Empire of Passion, 1978), l’amour fou è ambientato nell’epoca Meiji, che, come si è detto, rappresenta la prima fase di questa controrivoluzione sessuale, in un villaggio di campagna. Compaiono elementi fantastici, cosa decisamente anomala per Ōshima, e il film può essere considerato a pieno titolo un kaidan, una storia di vendette di fantasmi come quelle degli antichi racconti e del teatro . E la coppia di questo film, Seki e Toyoji, come Sada e Kichi, risolve il proprio conflitto tra giri, le obbligazioni sociali, e ninjo, sentimenti individuali, a favore dei secondi, secondo uno schema tipico ancora della drammaturgia di epoca Edo.

Infine è utile il raffronto tra l’omosessualità del capitano Yonoi di Merry Christmas, Mr. Lawrence, repressa perché considerata ignomignosa in quel contesto, quello del militarismo sessuale, e quella dei samurai di Taboo. Quest’ultima non è certo esaltata – Ōshima, come si è detto, non è mai schematico –, ma è comunque praticata, tollerata e alla peggio semplicemente disincentivata.

L’ultimo film di Ōshima segna quindi la terza incursione nella sua carriera al jidai-geki, il genere di epoca storica giapponese. I primi due sono delle chiare trasposizioni dei tumulti sociali, delle lotte studentesche e di quel clima di forte ribellione che stava vivendo il Giappone negli anni sessanta. Entrambi sono infatti storie di rivolta, che proseguono il discorso politico di Nihon no yoru to kiri (Night and Fog in Japan, 1960). La prima, raccontata nel film Amakusa Shirō Tokisada (The Rebel, 1962), è la sollevazione di Shimabara del 1637, guidata da Amakusa Shirō, dei samurai cristiani contro la persecuzione religiosa. La seconda è quella del film Ninja bugei-chō (Band of Ninja, 1967), una bizzarra opera fatta dal susseguirsi di tavole disegnate, non animate, dell’autore di manga Shirato Sanpei, ambientata durante le sommosse contadine del XVI secolo.

Con Taboo il discorso si fa più complesso. È ambientato alla fine dell’epoca Edo, in quella fase di tumulti conseguente allo sbarco sulle coste nipponiche del commodoro Perry e all’imposizione statunitense di apertura del paese ai commerci, ponendo termine così alla secolare chiusura del Giappone e alla fine della classe sociale dei samurai. Ōshima racconta un mondo estremamente decadente – non a caso il film è considerato il precursore del sottogenere dello jidai-geki crepuscolare – consumato da lotte intestine tra varie fazioni. Si tratta di una fase cruciale della storia del paese che era già stata stata rievocata dai cineasti della Nouvelle Vague giapponese, Shinoda Masahiro, Kuroki Kazuo, proprio perché evocativa del momento storico che stavano vivendo negli anni sessanta e nei primi settanta. Le durissime manifestazioni dei movimenti di protesta, in cui questi registi militavano o di cui comunque erano simpatizzanti, partivano dal Trattato di sicurezza nippo-americano, vertevano così ancora una volta dall’aperura o meno nei confronti della potenza statunitense. Il film di Shinoda, Ansatsu (Assassination, 1964) è peraltro tratto da un altro romanzo storico dello stesso scrittore, Shiba Ryōtarō , da cui è stato adattato Taboo. Ōshima torna così a fare cinema in Giappone, dopo l’esilio degli anni ottanta, accolto da quella stessa casa di produzione, la Shōchiku, che lo allontanò nel 1960, ritenendolo scomodo. E lo fa con un richiamo e un legame a quella corrente cinematografica da lui iniziata, ma anche con un forte spirito classicista, all’interno del quale iscrive ancora una storia di passione e morte. Uno spirito che lo porta a citare nel film un grande classico della letteratura nipponica, Ugetsu monogatari (Racconti di pioggia e luna), una raccolta di storie fantastiche redatte da Ueda Akinari nel Settecento, che hanno poi dato origine a un grande classico del cinema, Ugetsu monogatari (Ugetsu, 1953) di Mizoguchi Kenji.

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tysm literary review, Vol 1, No. 4: “Oshima Nagisa”, Matteo Boscarol (ed.) – march 2013

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