Shiiku (The Catch, 1961)
di Giampiero Raganelli
1945, inizio d’estate. Ultimi scampoli della Guerra del Pacifico. In un piccolo villaggio di montagna, non lontano da Kyoto, i contadini catturano un pilota statunitense, di colore, sopravvissuto all’abbattimento del suo aereo. Viene tenuto prigioniero in un granaio, secondo gli ordini della prefettura. La sua presenza, in quanto diverso, uomo di colore, suscita paura e disprezzo tra gli abitanti del villaggio. Solo i bambini provano per lui prima curiosità, poi simpatia e amicizia. I vari clan del villaggio risentono di quell’estraneo e i loro rapporti, e quelli tra i vari personaggi, risultano turbati. Esplode tutta una serie di conflitti latenti e l’ospite indesiderato si rivela il perfetto capro espiatorio.
Quinto film di Ōshima, e primo realizzato dopo l’abbandono della casa di produzione Shōchiku a seguito del “massacro” di Nihon no yoru to kiri (Night and Fog in Japan, 1960). Prima opera dell’autore inoltre a non essere ambientata nella stretta contemporaneità, ma sedici anni prima. Il regista realizza un altro cimitero, un’altra pietra tombale, del Giappone, avvalendosi di un romanzo dell’allora giovane scrittore, Ōe Kenzaburō futuro premio Nobel per la letteratura e, al pari di Ōshima, una delle coscienze critiche del paese.
Il tema centrale del film è quello della diffidenza nei confronti di un intruso, dei sentimenti razzisti che genera. La piccola comunità del film può essere una metafora dell’intera società giapponese, della sua ipocrisia e della xenofobia che manifesta soprattutto nei confronti dei coreani. Un tema che tornerà spesso nelle opere del regista, da Yunbogi no nikki (Yunbogi’s Diary, 1965), fino a trovare la sua massima espressione in Senjō no merii kurisumasu (Merry Christmas Mr. Lawrence, 1983).
Con The Catch Ōshima torna alla scena primaria della sua vita, e del suo cinema. Il momento della capitolazione del Giappone, nella Seconda guerra mondiale, che gli disvelò la disonestà e la mendacia delle autorità militari che avevano inculcato nel popolo il falso mito della nazione invincibile. Così come l’estrema ipocrisia del discorso dell’imperatore Hirohito alla nazione, che non si assunse colpe e rivendicò l’avventura coloniale del paese come il tentativo di creare una Grande Asia. Il regista avrebbe poi riproposto integralmente quella lunga orazione atona nel Daitōa sensō (The Pacific War, 1968), fatto di footage d’epoca, cinegiornali giapponesi e americani. Questi stessi sentimenti sono rivissuti dagli abitanti del villaggio all’annuncio della sconfitta, mentre Ōshima si identifica con lo sguardo innocente dei bambini e dei ragazzi del villaggio (lui, all’epoca dei fatti era diciassettenne).
L’autentico significato del titolo originale del film Shiiku è “l’atto di nutrire, alimentare gli animali selvatici”. Così è trattato il pilota americano senza nome, silente, che si mette a ridere solo quando viene portato a spasso dai ragazzi del villaggio e uno di questi si copre il volto di fango per somigliargli. Significativo che sia di colore. Non avrebbe provocato sentimenti razzisti se fosse stato bianco perché i giapponesi veneravano gli occidentali, considerati una civiltà superiore. «Gli Americani lasciano che certi esseri pilotino i loro aerei» dice un abitante del villaggio. Il soldato di colore è così antitetico all’altro prigioniero di guerra che, vent’anni dopo, sarà protagonista di un film di Ōshima. Il maggiore Celliers di Merry Christmas Mr. Lawrence, biondo, diafano, efebico, di cui ci si può solo innamorare, anche a costo di mettere in discussione la propria virilità. Caduto dal cielo, il pilota afro-americano è più simile all’altro celebre personaggio interpretato da David Bowie al cinema, l’alieno di The Man Who Fell to Earth (L’uomo che cadde sulla Terra, 1976) con il quale condivide il percorso cristologico che porta al martirio, in questo caso per il linciaggio degli abitanti del villaggio. La prima delle tante pietà del cinema di Ōshima, impiccagioni, crocifissioni, che culmineranno proprio nella morte per disidratazione del maggiore Celliers, interrato con la sola testa a spuntare dalla sabbia. I due prigionieri condividono alla fine lo stesso destino.
Il piccolo villaggio dove il film è ambientato è un microcosmo isolato, dominato da clan famigliari, che sembra aver mantenuto una struttuale feudale. Ma in esso sembra riflettersi l’intera società nipponica. Un mondo fatto di persone mediocri, inclini alla logica del capro espiatorio, il nero, occasione anche per appianare i conflitti nascenti giustificandosi a vicenda. E che trova la pacificazione non nella redenzione ma nel’autoassoluzione finale in chiave militarista. Il nero è morto perché ha servito il suo paese. È un mondo fatto di rituali, feste del raccolto, vuote cerimonie. E il festeggiamento per l’arruolamento di Jiro viene celebrato lo stesso, con tanto di marcia con bandiere e tutto il tripudio nazionalista possibile, nonostante questi nel frattempo abbia disertato e si sia dato alla macchia. È la simulazione, la messa in scena, dietro la quale non c’è altro che il nulla, che sarà un tema centrale in tutto il cinema del regista, come nel matrimonio celebrato senza la sposa in Gishiki (The Ceremony, 1971). Ancora una volta il segno di un mondo che si regge su formalismi e ipocrisia. È un mondo dove sopravvive quella “civiltà sessuale delle campagne”, che resiste al “militarismo sessuale”, che Ōshima tornerà a raccontare in L’impero della passione (Ai no borei, 1978). Un mondo di promisquità e incesti che contamina e arriva a coinvolgere anche la gente di città, nella figura della ragazza sfollata Mikiko.
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tysm literary review, Vol 1, No. 4: “Oshima Nagisa”, Matteo Boscarol (ed.) – march 2013
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