philosophy and social criticism

Nagisa Oshima non è Nagisa Oshima

di Matteo Boscarol

image (2)In queste poche righe si cercherà di gettare luce sulla figura di Ōshima Nagisa, in un tentativo volto a (ri)donare alla figura del regista giapponese la complessità e la varietà che gli compete. In modo per certi versi simile alla posizione di Pier Paolo Pasolini e Rainer Maria Fassbinder nei confronti dei loro rispettivi paesi, Ōshima ha una posizione particolare nel contesto storico post-bellico giapponese, e benchè la definizione sembrerà forse fuori luogo ai più, il regista di Kyoto si potrebbe definire fondamentalmente come un moderno illuminista, un artista cioè impegnato a sondare conassoluta luciditàla parte maledetta e nascosta della società in cui si è ritrovato a vivere. Ōshima ha cercatodi gettare luce e illuminare quindi, anche in retrospettiva, quel residuo sacrificale che la rete dei poteri forti ma anche di quelli deboli e mimetici che formano ‘la massa’, ha cercato di obliare. [Nota 1]

È in questo senso un movimento ed un fare arte quello dell’autore nipponico che al di là dei risultati prettamente cinematografici, non può che definirsi osceno, “fuori dalla scena”, al di là di ogni rappresentazione storica facile e semplicistica che si vuole ufficiale. I lavori di Ōshima complicano allora la Storia con la “S” maiuscola, quel blocco/vettore proiettato verso il futuro che si vuole univoco, la cui manifestazione più evidente nell’arcipelago nipponico è stata (con forti ramificazioni ancora nel tempo presente) la fede nel progresso post-bellico giustificata in parte dalla volontà di dimenticare gli orrori perpetrati e subiti durante le guerre nella prima metà del ventesimo secolo.

La questione del sesso è stata limitata esclusivamente a discorsi sugli organi sessuali e sul piacere sessuale. La maggioranza delle storie nei settimanali, nelle riviste per il lettore medio e nelle cosiddette pagine di educazione sessuale che affollano le riviste femminili, si concentrano su questioni completamente frammentate, come le dimensioni degli organi, l’intensità del piacere e la frequenza dei rapporti. Sono lodati coloro che riescono ad accumulare un gran numero di incontri, potenziare la loro sensitività sessuale o coloro che possiedono gli organi più grandi. Tutto ciò che aiuta ad ottenere questi scopi è applaudito. Lo stesso fenomeno si è manifestato in Giappone nel dopoguerra, quando il paese si lanciò con piena fiducia verso la prosperità economica, una corsa cieca verso una ricchezza basata solamente sui numeri. (1971) [Nota 2

Allo stesso tempo, ma sono forse due tracce e due segni lasciati da una stessa forza, in alcuni lavori di Ōshima, specialmente quelli a cavallo fra i sessanta ed i settanta è la stessa forma filmica, o il suo sovvertimento, a raggiungere una tensione rivoluzionaria che oltre a criticare le forme del cinema “tradizionale” ha suggerito nuove possibili piste, nuove forme di esistenza nel cinema ed attraverso di esso. Kōshikei (Death by Hanging, 1968) Shinjuku dorobō nikki (Diary of a Shinjuku Thief, 1969) e Tōkyō sensō sengo hiwa (The Man Who Left His Will On Film, 1970) sono tre delle opere in questo senso più riuscite. La messa in scena claustrofobica ma formalmente quasi astratta e animata da un amaro senso dell’assurdo del primo film, la liberazione dal giogo della narrazione lineare e la bellezza dei bianchi abbacinanti dei corpi dei protagonisti in Diary of a Shinjuku Thief, o ancora la riflessione metafilmica e circolare sul paesaggio[Nota 3] come nuovo territorio dove condurre la battaglia alla ‘microfisica del potere’, sono solo alcune delle caratteristiche con cui Ōshima e specialmente i suoi collaboratori, ritorneremo su questo punto piu` avanti, ridefiniscono e sondano le possibilità della settima arte.

È un’ avanguardia formale che trova il suo motivo d’esistenza nel suo essere avvolta e problematicamente parte di un tutt’uno con gli eventi e le lotte che informano il periodo, sono del resto gli anni dove le espressioni artistiche, anche quelle meno riuscite, sono una prassi politica e rivoluzionaria dove arte e vita non sono due elementi disgiunti ma si definiscono l’uno sull’altra. È emblematico a questo proposito il percorso di vita di Adachi Masao. [Nota 4]

Quando agli inizi degli anni settanta nel milieu artistico giapponese e più segnatamente nel cinema, arte che lo vide fra i protagonisti durante il decennio precedente come teorico, sceneggiatore (per Wakamatsu ma anche per alcune opere di Ōshima) e regista sperimentale, la separazione fra vita e arte diviene più marcata, Adachi decide di proseguire il suo percorso di “cinema/rivoluzione”[Nota 5] trasferendosi in Medio Oriente, dove rimarrà per sostenere la causa palestinese fino al 2001. 

image (1)Questo lento cambiamento, successivo al fallimento di una serie di lotte eterogeneamente impegnate al cambiamento (sia sociale che personale) porta ad una sorta di ritiro dell’onda, la tensione politica e rivoluzionaria comincia verso i primi anni settanta quel progressivo e lento abbandono del cinema giapponese e della società in cui esso si inscrive che avrà il suo apice nel decennio successivo. Naturalmente è una scomparsa che avviene a livello macroscopico, in realtà le sperimentazioni, le critiche e la problematizzazione dell’esistente segue un movimento centrifugo e continua a svilupparsi in altri modi ed in altre forme, per lo più individuali però. In The Man Who Left His Will On Film il protagonista trova una pellicola composta solo di paesaggi apparentemente senza significato ed i giovani “rivoluzionari” suoi compagni vedono in queste immagini solo uno scarto da buttare via, non riuscendo ad immaginare un cinema ed un’arte che non sia direttamente implicata nelle lotte e nelle manifestazioni di protesta. Il loro credo politico/artistico è ormai chiuso in sé stesso e solipsistico, la loro colpa maggiore, questo è ciò che ci suggerisce il film, è quella di non riuscire a capire il proprio ruolo e trovare nuove strategie nelle grandi trasformazioni che la società post-industriale sta attraversando.

È in questo contesto che nel 1972 Ōshima realizza Natsu no imōto (Dear Summer Sister), l’ultimo lavoro di quella che forse è la stagione più intensa e feconda della sua carriera che in 5 anni gli fa realizzare ben 10 film. Ma il 1972 è anche l’anno della chiusura della sua casa di produzione indipendente, la Sozosha, che Ōshima fonda dopo la sua cacciata dalla Shōchiku a causa dello scandalo di Nihon no yoru to kiri (Night and Fog in Japan,1960). Prima di questo movimento di riflusso a permettere la realizzazione di questo “laboratorio oshima” è stata la concomitanza di una serie di fattori, la creazione di nuovi spazi per le proiezioni cinematografiche indipendenti e più d’avanguardia e l’importantissimo ruolo dell’ATG (Art Theatre Guild) nella produzione e promozione di film indipendenti. [Nota 6] Senza questo incrocio di eventi favorevoli, sia materiali che intellettuali, la sperimentazione e l`avanguardia del cinema giapponese di quegli anni che ancora oggi ci affascina non avrebbe mai avuto luogo.

The Man Who Left His Will on Film è il sottotitolo del mio film A Secret Post War Tokyo Story. Questo sottotitolo illustra l’intero contenuto del film. Un giorno, lo scorso autunno fui posseduto dalla visione di un uomo che lascia le sue volontà in un film. Le mie visioni sono sempre cinematografiche ed il film fu concepito in questo modo.

Di tanto in tanto mi viene chiesto da dove provengono tali idee, ma è assolutamente impossibile rispondere a questa domanda. Appaiono improvvisamente nella mia testa, in alcuni giorni, in certi momenti. È come se sentissi la voce di un’apparizione e posso dire con certezza che sono un artista solo in virtù di queste apparizioni e delle loro voci. Coloro che le vedono e le sentono come me diventano il mio staff ed il mio pubblico. (1970)

Per essere onesti, la prima volta che realizzai un film, all’inizio non sapevo neanche io che tipo di film avrei fatto. Non possedevo che una piccolissima immagine.

Era un’immagine molto ma molto cupa nella quale affrontando il mondo cercavo di esprimere me stesso, ma come conseguenza di ciò venivo punito perchè in contrasto con le leggi del mondo. Quando diressi il film e le reazioni della produzione furono fredde, sapevo che l’immagine non era sbagliata ed allo stesso tempo ebbi qualche indizio sul tipo di regista che io ero. Da allora ho cominciato gradualmente a capire meglio me stesso ogni volta che faccio un film, da un altro punto di vista però capisco me stesso sempre di meno. In ogni caso non riesco ancora a comprendermi in maniera completa. (1974)

Gli spettatori, che sono persone che vanno al cinema solo per abitudine, indipendentemente dal film proiettato, sono stanchi del cinema giapponese attuale. Per generare un nuovo tipo di pubblico i nuovi film devono prima di tutto e soprattutto esprimere la partecipazione attiva del regista come individuo.(1960)

Se il metodo per fare un film non cambia, il film non cambia. Un’opera nuova non emergerà senza che prima vi sia un nuovo metodo di produzione (1976)

i perdenti non hanno immagini

Il cinema di Ōshima è stato anche capace di creare delle immagini-concetti che hanno cercato di creare un linguaggio proprio e di dar voce a quella parte dimenticata, meno considerata, reietta o semplicemente obliata dell’umanità e della storia di cui si diceva all’inizio.

L’attenzione verso gli assassini in Death by HangingHakuchū no Tōrima (Violence at Noon, 1966) e Ai no koriida (In The Realm of the Senses, 1976), verso le minoranze etniche come gli zainichi (i coreani di seconda o terza generazione) o verso una sessualità non omologata, sono forse la manifestazione più evidente di questa sua preoccupazione verso la figura del diverso. Un Altro che destabilizza la realtà univoca ma ancor di più che riesce a minare il frame attraverso il quale definiamo il senso di normalità, rendere relative (ma non per questo meno giuste) le convinzioni e gli assiomi che fondano la nostra vita quotidiana, una storicizzazione del presente che come nelle antiche officine alchemiche svolge la funzione del “solve”. Ritornando ai tre lavori citati all’inizio di questo scritto vediamo come Diary of a Shinjuku Thief e The Man Who Left His Will On Film decostruiscono la nostra percezione del continuum con un patchwork filmico dallo stile quasi burroughsiano, mentre Death By Hanging dis-orienta l’identità nazionale giapponese fondata sulla provenienza (e per esteso le fondamenta di tutti gli stati nazione).

Sembrerà banale e superfluo ricordalo ma questi processi, queste fissure, sono possibili soprattutto grazie alla sua bravura come autore di immagini in movimento, il frequente uso espressionista del rosso nei suoi film a colori,[Nota 7] una tonalità che rimanda sia al sangue che al sole della bandiera giapponese, con tutte le implicazioni che ne conseguono, la dinamica impazzita e quasi priva di senso ma proprio per questo liberatoria di Diary of a Shinjuku Thief, l’insistenza verso i paesaggi come “nuova carne” in The Man Who Left His Will On Film o ancora l’ipnotico e lento oscillare della macchina da presa nelle scene centrali di Nihon shunka-kō (A Treatise on Japanese Bawdy Songs, 1967). La loro potenza centrifuga avvicina queste ed altre immagini dei lavori del nostro a quelle che Foucault ha chiamato eterotropie, dei contro-luoghi, degli spazi altri.

Un autore plurimo

image (3)Facile sarebbe catalogare Ōshima solamente come l’autore “scandaloso” di In The Realm of the Senses o come il regista iper politicizzato di Night and Fog in Japan, o ancora come la punta di diamante della cosiddetta Nūberu bāgu (Nouvelle Vague) nipponica, il Jean Luc Godard dell’estremo oriente insomma, definizione per altro che lo stesso Ōshima ha sempre rifiutato. La sua opera, come abbiamo visto finora, è tutto questo e molto di più. Ōshima è stato anche un fine documentarista televisivo, circa 25 lavori realizzati dal 1962 al 1977 con cui, parallelamente agli altri due grandi autori giapponesi del periodo Yoshida Kijū e Imamura Shōhei , ha sperimentato le possibilità che il mezzo televisivo offriva. Di questi si ricordi almeno Wasurerareta kōgun (L’esercito dimenticato, 1963) che indaga la sorte degli ex-combattenti coreani impiegati nell’esercito giapponese durante la guerra. Che dire poi della sua assidua presenza in televisione, in quiz e programmi per casalinghe soprattutto negli anni ottanta, per finanziare i suoi progetti certo ma anche per il puro piacere di esserci, di mettere il bastone fra le ruote al piccolo schermo, tubo catodico ipnotico che proprio in quel decennio di grande riflusso (in Giappone come in Italia, con tutte le dovute differenze) e di chiusura definitive delle esperienze più politicamente impegnate e violente del decennio precedente ne rappresenta la summa.

C’è poi la praticamente sterminata opera scritta che è andato componendo per tutta la sua vita in parallelo alla sua attività di regista, lì dentro si trova praticamente di tutto, riflessioni propriamente cinematografiche ma anche brani che affrontano gli argomenti più disparati e marginali, dal suicidio di Mishima, agli interventi che il regista teneva su riviste femminili, magazine sul sakè o altro ancora. Insomma tutta questa incessante e variegata produzione visiva/scritta ci ritorna un immagine molto complessa di un artista e di un uomo che non ha mai avuto timore di affrontare i temi più banali e “bassi”, senza paura di “sporcarsi le mani” e proprio per questo incontrando anche alcune inevitabili caduteCosì la produzione visiva pur mantenendo una sua coerenza o almeno una certa ricorrenza dei temi trattati, dal punto di vista stilistico è ondivaga , mutevole e sfuggevole, mai uguale a sé stesso Ōshima, piuttosto che un individuo sembra rappresentare una moltitudine. [Nota 8]

Si prendano ad esempio opere più o meno conosciute come Night and Fog in Japan, Violence at NoonNinja bugei-chō (Band of Ninja, 1967) l’uno è lento ed avvolgente appunto come una nebbia e composto da una quarantina di piani sequenza, l’altro sincopato come un free jazz eccessivo e per contrasto realizzato con un montaggio frenetico quasi parossistico che di inquadrature ne conta più di 2000.[Nota 9] Mentre Band of Ninja è un’invenzione geniale ed indagine delle possibilità del mezzo cinematografico dovuta alla mancanza di fondi, le storie a disegni create dal grande disegnatore Shirato Sanpei sono fotografate e ricomposte ritmicamente insieme con l’aggiunta del sonoro. 

Questa variazione e complessità dell’opera del regista giapponese deriva anche del diverso milieuartistico in cui Ōshima si è ritrovato immerso di volta in volta, cioè dalle personalità che hanno supportato, influenzato ed aiutato a crescere lui e la sua opera. I suoi film sono anche il prodotto, talvolta in maniera molto vistosa, della genialità dei suoi collaboratori, la sua bravura è stata quindi quella di farsi da parte, di lasciar parlare ed esprimere gli altri, quasi un passo indietro per lasciar parlare il fondo, la molteplicità di voci che si alzavano dall’ambiente dell’epoca.

image (5)Non è un caso che, come si scriveva più sopra, le opere in questo senso migliori siano emerse proprio nel periodo di massimo fermento sociale e politico quando Ōshima si è fatto portatore e cassa di risonanza delle idee di giovani cineasti, scrittori, sceneggiatori, cameraman ed intellettuali di vario genere e spessore. Si ricordino qui almeno i piu` importanti come Sasaki Mamoru, grandissimo sceneggiatore che alla scrittura di alcuni dei più importanti e sperimentali lavori di Ōshima ha affiancato l’impegno nella fluviale serie televisiva di Ultraman e in moltissimi cartoni animati, Heidi e La Stella dei Giants solo per citare due dei più popolari arrivati in Italia. Il già citato Adachi Masao, in Death by Hanging oltre ad aver collaborato alla sceneggiatura e ad aver realizzato il trailer, ha anche recitato nella parte di uno dei guardiani nel braccio della morte. La sua ossessione per il movimento circolare dell’eterno ritorno mutuata da Blanqui,[Nota 10] presente tutt’ora anche dopo trent’anni di Palestina, la si può trovare in maniera evidente in quel film “doppio” che è Kaette Kita Yopparai (Three Resurrected Drunkards, 1968) co-sceneggiato dallo stesso Adachi e che a metà della sua durata ricomincia di fatto da capo, tolte alcune lievissime differenze. Ancora importante è stata la collaborazione di Ōshima con Hara Masato, all’epoca poco più che ventenne, nella realizzazione della sua opera più metafilmica e sperimentale, il più volte citato The Man Who Left His Will On Film, dove molte delle preoccupazioni che riemergeranno nell’opera sucessiva di Hara, come la memoria bergsonianamente intesa che trova la sua realizzazione compiuta proprio nell’immagine filmica, emergono a sprazzi durante la pellicola.

Per tutte queste ragioni, per il percorso intrepreso nella sua carriera e per le storie da cui ha saputo farsi attraversare, Ōshima Nagisa non è mai stato davvero Ōshima Nagisa.

image (4)Un artista non costruisce la sua opera su un singolo tema, così come un uomo non vive la propria vita seguendo una sola idea. I critici imbecilli però credono che le opere di un autore debbano avere solo un unico tema che scorre al loro interno, allora quando trovano qualcosa in un film che contraddice questo tema subito dichiarano di non comprenderne il significato. Il nostro lavoro non ha niente a che vedere con questi critici imbecilli. Vogliamo mettere dentro alle nostre opere tutto ciò di cui facciamo esperienza e pensiamo nel momento presente.  (1968)

 

Quando sceneggiature dotate di una magnifica visione sono messe in relazione con la realtà, rendono possibile la scoperta di nuove immagini.

Questo accumulo di nuove immagini diventa un film e quindi fornisce al regista una nuova coscienza della realtà. Quando si prepara per il prossimo lavoro, questa nuova coscienza plasma la sua visione sia dell’interiorità sia delle circostanze esterne.. L’autore scopre sempre nuove immagini tutte le volte che lavora ad ogni progetto, provando e negando la sua visione.

Egli imbocca una strada di declino se non pone tutto se stesso all’interno di questo esercizio senza fine. Glorificando e rendendo assolute le immagini del suo ego, nega a se stesso la possibilità di afferrare tutta la realtà cogliendone cosi’ solamente una parte relativa.

 

Ma la realtà è continuamente in cambiamento. Quindi l’autore che non è capace di catturarla all’istante, cessa di essere tale e degenera nella figura di un semplice artigiano di immagini.

 

Una costante negazione di sé ed un’ incessante trasformazione sono necessarie per evitare questa debilitazone e continuare a confrontarsi con gli eventi come autore. Naturalmente questo significa preparare una nuova metodologia ed inoltre queste trasformazioni e questa metodologia non devono diventare obbiettivi dell’ego, ma, come armi usate per cambiare la realtà, devono sempre seguire il loro fine che è quello di rivoluzionare la coscienza. Con tutto questo in gioco, la legge di questo movimento di autonegazione non è solamente una legge per le produzioni o per l’autore, ma una legge di crescita umana e di sviluppo della razza umana – una legge del movimento di tutte le cose.

 

L’autore deve sostenere questa legge. (1961)

 

NOTE

[Nota 1] In questo senso e riallacciandoci a quanto scritto poche righe più sopra, ci sembrano acute le parole dello studioso Yomota Inuhiko quando accomunando Ōshima a Pasolini e Fassbinder scrive che «gli alleati dell’ Asse nazi-fascista hanno dato i natali a questi tre registi, un genere di autori che non si era mai visto prima (. . .) hanno rivelato come la ricchezza dei loro paesi sia stata portata avanti attraverso il nascondimento dei crimini perpetrati dalla generazioni dei loro padri».

[Nota 2La traduzione e la scelta degli scritti di Ōshima qui proposti sono a cura di Deguchi Izuru che qui ringrazio.

[Nota 3] Il concetto di fûkeiron, Teoria del Paesaggio, è uno dei concetti teorico/politici legati al cinema più interessanti e meno considerati in Occidente che siano scaturiti dal fermento culturale giapponese di fine anni sessanta. Alcuni film che danno corpo a questo paradigma sono oltre al già citato The Man Of Left His Will On Film, A.K.A. Serial Killer di Aadchi Masao, The First Emperor di Hara Masato e Okinawan Dream Show di Takamine Gō.

[Nota 4Per una breve introduzione sulla persona di Adachi Masao si rimanda a questa intervista →  QUI.

[Nota 5«Invece di passare dalla macchina da presa al mitra perché non impugnarli entrambi?» questa frase di Adachi esprime molto bene il concetto di “Cinema/Rivoluzione”, due termini che Adachi considera sinonimi, un binomio che è anche il titolo di un volume di suoi scritti/interviste uscito nel 2003 e curato da Go Hirasawa.

[Nota 6Per una breve panoramica sul fenomeno si legga almeno il saggio presente in Storia del cinema giapponese dal 1970 al 2010, a cura di E.Azzano e R.Meale, CSF Edizioni, Roma, 

[Nota 7I titoli di testa di A Treatise on Japanese Bawdy Songs sono a questo proposito esemplari

[Nota 8Interessante è a questo proposito notare il percorso cinematografico, ma soprattutto teorico sviluppato quasi contemporaneamente da Yoshida Kijū, altro esponente del nuovo cinema giapponese degli anni sessanta, ed il suo frequente ritornare sull’assoluta alterità dell’immagine e sulla conseguente necessità di una sorta di sparizione dell’autore e di una ridefinizione del rapporto fra spettatore e filmmaker.

[Nota 9Per questi numeri ed altri approfondimenti tematici rimandiamo al saggio Identità, crimine e sessualità. Il cinema secondo Nagisa Ōshima di D.Tomasi, incluso nel fondamentale Nagisa Ōshima a cura di S. Francia di Celle, Il Castoro, 2009.

[Nota 10] Luis-Auguste Blanqui, L’eternità attraverso gli astri, SE, Milano 2005.

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tysm literary review, Vol 1, No. 4: “Oshima Nagisa”, Matteo Boscarol (ed.) – march 2013

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