philosophy and social criticism

Potere che frena. Dialogo con Massimo Cacciari

di Marco Dotti

san-sepolcroIn un delicato passaggio della Seconda lettera ai Tessalonicesi (2, 6-7), San Paolo parla di qualcosa o qualcuno che «contiene», «trattiene», «frena» l’arrivo del vento dell’empietà. Scrive, infatti, San Paolo: «il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene». Il termine, abbastanza enigmatico, indica così una “potenza” che fa da argine alla piena venuta dell’Avversario. Rivolgendosi alla comunità di Salonicco, Paolo o chi per lui – l’attribuzione è incerta – ricorre due volte alla figura del “potere che contiene” e frena, servendosi di due forme verbali. La prima volta, “ciò che trattiene” è detto al neutro, tò katechon, e indica una forza generica, mentre la seconda volta è al maschile, ho katechon, e lascerebbe presupporre un “chi”. La questione, a lungo dibattuta, è tutt’altro che confinabile in un contesto puramente terminologico. Al contrario, osserva Massimo Cacciari in apertura de Il potere che frena (Adelphi, Milano 2013), la questione può assumere un «immenso rilievo storico, politico e teologico».

Il kàtechon è la figura drammatica che deve dar forma e trattenere l’avanzata del caos informe. Una figura continuamente attraversata da tensioni, terreno di elaborazione di alcune tra le principali categorie politiche occidentali, di volta in volta identificata con l’Impero, la Chiesa, lo Stato territoriale e assoluto. Nel suo ultimo lavoro, Cacciari riprende il filo di una lunga  riflessione sul declino delle forme “catecontiche” del politico, iniziata negli anni Settanta,  già affrontata nelle pagine di Geofilosofia dell’Europa (Adelphi, 1994), L’arcipelago (ivi, 1997) e, soprattutto, Dell’inizio (ivi,1990).

Punto di riferimento  imprescindibile anche della lettura di Cacciari – che pure si allontana dalle sue conclusioni – sono note in cui Carl Schmitt fa cenno alla figura del kàtechon tra le pagine del Glossario (Giuffrè, 2001), di Ex captivitate salus (Adelphi, 1993) e di Terra e mare (Adelphi, 2006), dandone sviluppo organico come “potere frenante” nel Nomos della terra (Adelphi,2003;  va, però, quanto meno ricordata la lettura critica di Jacob Taubes, in “divergente accordo” con Schmitt nella lettura del kàtechon (La teologia politica di san Paolo, Adelphi, 1997).   

Tutti i concetti più densi della moderna dottrina dello Stato – scriveva Carl Schmitt in un saggio del 1922 titolato dedicato alla  Politische Theologie e alla genesi della sovranità – sono concetti teologici secolarizzati. Secolarizzati «non solo in base al loro sviluppo storico, poiché essi sono passati alla dottrina dello Stato dalla teologia come ad esempio il Dio onnipotente che è divenuto l’onnipotente legislatore, ma anche nella loro struttura sistematica, la cui conoscenza è necessaria per una considerazione sociologica di questi concetti. Lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia. Solo con la consapevolezza di questa situazione di analogia si può comprendere lo sviluppo subito dalle idee della filosofia dello Stato negli ultimi secoli».

Secolarizzazione, potere, decisione, sovranità e crisi della sovranità,  ordine/caos, legge e anomia.  La matrice teologica delle nostre categorie politiche è un fatto assodato. Il suo discorso, però, parte da una premessa di metodo: l’espressione “teologia politica” non può essere ricondotta alla semplice influenza delle idee teologiche sulle forme della sovranità statuale. Così facendo si presupporrebbe, infatti, una troppo facile e originaria separazione tra le due dimensioni. Dimensioni, quella teologica e quella mondana, che al contrario si compenetrano. La sua analisi sul problema del katéhcon si svolge quindi nell’ambito di un  più ampio problema di inquadramento teologico-politico e in qualche modo ci costringe a ripensare la griglia stessa della secolarizzazione attraverso la quale siamo soliti interpretare gran parte categorie politiche muovendo dalla “misteriosa” figura del kàtechon.

Massimo Cacciari: Nella nostra tradizione, che è essenzialmente quella dell’evo cristiano, dobbiamo cercare di vedere la secolarizzazione ab origine. Dobbiamo coglierla, comprendendo che il simbolo teologico ha al suo interno, in quanto simbolo teologico, gli elementi costitutivi dello stesso processo di secolarizzazione. Soltanto così possiamo intendere sia il simbolo teologico, sia la secolarizzazione uscendo dal riduzionismo. Se non comprendiamo questa compenetrazione, cadiamo in schemi di traduzione nel senso più banale e semplicistico del termine, per quanto prolisse possano essere le nostre analisi. Questo vale, ovviamente, come indicazione metodologica generale, dopo di che ci si rivolge ai casi particolari e di volta in volta si può indagare questa o quella dimensione del simbolo, questa o quella dimensione del politico. La relazione fra teologia e politica si presenta in termini storicamente determinati, ma apre anche questioni di ordine metodologico generale. Trovo pertanto riduttivo lo schema che vorrebbe intendere secolarizzazione e politica secolare come una mera trasposizione in ambito politico e politico secolare di concetti e termini teologici. Al contrario, se possiamo parlare di processo di secolarizzazione ciò avviene proprio perché il problema del saeculum, è immanente al simbolo teologico. Questo vale per la nostra tradizione, mentre gli stessi concetti sono totalmente intraducibili in tradizioni filosofiche o religiose altre, come quelle orientali.

La riflessione sul katéchon, nel Novecento, è stata portata al suo punto di massima tensione problematica da Carl Schmitt nel Nomos della terra (1950).  Schmitt aveva però in mente un rapporto fra terra e mare, fra spazi e flussi che oggi appare quanto meno critico. Semplificando, potremmo dire che ci troviamo ad affrontare un problema nuovo, rispetto alla geometria schmittiana: lo sradicamento nella sua forma più temibile, quella immateriale. In qualche misura già Agostino, nella Città di Dio, aveva prefigurato l’estrema configurazione, quasi paradossale, di un katéchon poroso che non può più contenere nulla perché continuamente attraversato da flussi …

Massimo Cacciari: È il grande limite della teoria schmittiana. Un limite non di Carl Schmitt ma della storia dell’epoca in cui Schmitt opera, pur con la consapevolezza di trovarsi al limite di quest’epoca. Per lui il katéchon è una forma di potere territorialmente determinato. Essenzialmente, per Schmitt, il katéchon coincide con lo Stato moderno e fuori dallo Stato moderno ci sono barbarie e anarchia. Questo è lo schema predominante in Schmitt, dove lo Stato moderno coincide con l’ultima forma di katéchon di cui possiamo disporre. Naturalmente, Schmitt pensa sempre il katéchon nell’ambito di un’idea di compromesso tra katéchon e istituzione religiosa. In questo senso, egli è davvero l’erede di Tocqueville e di tanto pensiero liberale ottocentesco. Pur non confondendo mai la figura del katéchon con quella della Chiesa, pur tuttavia la pensa sempre inserita in un compromesso raggiungibile tra autorità religiosa e potenza statale. In suo limite enorme sta però proprio nel fatto che la potenza statale che egli immagina è “solo” la potenza statale e questo, oggi, salta. Noi continuiamo a pensare il potere politico inconsapevolmente nella forma del katéchon. Alcontempo, continuiamo a pensarlo nella forma dello Stato o di qualche suo succedaneo. Questo schema è saltato. Questo schema è tragicamente finito nel corso del Novecento e ci siamo affacciati al nuovo millennio con i relitti umani della grande forma-Stato e forse – ma permane un grande punto di domanda – anche con la crisi della Chiesa. La Chiesa riesce a svolgere una sua dimensione catecontica? Questo ci riporta alla questione precedente, perché ci fa capire come non si possa pensare la secolarizzazione come qualcosa che venga dopo, perché la Chiesa stessa ha al suo interno, nel suo simbolo una dimensione catecontica. È una questione di forma e di potenza politica. Già Simone Weil ricordava che là dove tutto è sradicato, è impossibile contenere. Il contenimento è di per sé un radicamento. Esaltiamo tutto ciò che sradica, tutto ciò che mobile e tutto ciò che è immateriale e, al tempo stesso, ci meravigliamo che non ci sia più alcun potere che tiene. È un’aberrazione logica. Il katéchon non ce la può fare. Come concetto, come principio il katéchon è ciò che contiene.

Da sempre problematico è il rapporto tra Chiesa, Impero e katéchon nel suo sviluppo storico. Emblematiche, a questo proposito, le pagine di Agostino e Dante richiamate nel suo saggio. Oggi, possiamo dire di essere arrivati a un punto critico anche di questa tensione. Il sesto capitolo del suo libro è dedicato proprio alla dimensione catecontica della Chiesa. Una questione drasticamente e drammaticamente attualizzata dalla renuntiatio di Joseph Ratzinger…

Massimo Cacciari: In questo grande processo di dissoluzione delle forme del potere che frena – le forme del katéchon, che connotano la matrice della nostra riflessione teologico-politica – possiamo davvero dire che la Chiesa “ce la fa”? Ce la fa, intendo, a “tenere ancora”? La forza simbolica della decisione di Ratzinger che cosa ci dice? Perché Ratzinger si dimette? Non è un segno o, meglio, una lucida dichiarazione di impotenza a reggere una funzione catecontica? Ratzinger dice: continuerò a essere sulla croce. Quindi, la dimensione religiosa rimane. Ma la dimensione catecontica dove va a finire? Simbolo della Chiesa è, assieme, Croce e katéchon. Il segno di queste dimissioni, a saperlo vedere in tutta la sua prospettiva è davvero grandioso perché viviamo in un’epoca in cui lo Stato ha già dichiarato la sua crisi e ora tocca alla Chiesa. Ma la Chiesa, ribadiamolo, nella sua dimensione di “potere che frena”. Sono convinto che Ratzinger sia in qualche modo consapevole di questa crisi della dimensione catecontica.

Continua a essere sulla croce, ma si dimette. Continua a essere Papa in quanto crocefisso, ma la funzione di “bastione” rappresentata dal katéchon dove va a finire? La Chiesa non trattiene più i nemici della Chiesa, così come lo Stato ha dissolto, oramai, le basi stesse della statualità delegando funzioni sovrane a apparati tecnocratici dislocati in un altrove mai ben definito?

Massimo Cacciari: Potremmo ipotizzare che Ratzinger si dimette perché non riesce più a contenere le potenze anticristiche, all’interno della stessa Chiesa. Come diceva Agostino, gli anticristi sono in noi. Questa è una chiave per la decisione di Ratzinger, se vogliamo leggerla in tutta la sua serietà. La sua decisione fa tutt’uno con la crisi del katéchon politico, del potere che frena.

Un indizio di questa rottura si ha anche nella tendenza semplificante delle nuove tecnologie. Si parla, con un poco di ingenuità, di “cyberteologia” e di “twitter teologia”… Eppure, non possiamo liquidare banalmente nemmeno le ingenuità di questo tipo, quanto meno per il portato simbolico di cui si fanno involontariamente carico.

Massimo Cacciari: Certa “ingenuità” è un segno della più generale tendenza a assecondare le potenze liquido-aeree, aprendo al dominio dell’immateriale. C’è da chiedersi se ci si renda davvero conto della potenza simbolica di questi termini. L’irrompere della modernità nella sua forma liquida ha rappresentato senz’altro uno shock. Ricordiamoci che il fluido è la dimensione anticristica per eccellenza. La figura dell’Anticristo, anche nell’Apocalisse, è imprendibile, è incatturabile. Nell’Apocalisse si dice, a un certo punto, che nella Gerusalemme celeste non ci sarà più il mare. La dimensione teologica dell’Anticristico è ben presente in Schmitt quando parla del mare. Non a caso, il Leviatano è un mostro marino. Le potenze anticristiche hanno a che fare con la dimensione fluida e aerea, marina e area. Pensiamo alle grandi potenze, prima marine, poi aeree. Marine e aeree, quindi non catturabili. Le potenze anticristiche vincono il katéchon – che è terreno, è territorio – perché gli sfuggono. Oggi, la spersonalizzazione delle figure politiche e, al contempo, l’accresciuta potenza delle figure marino-aeree come l’informazione, la finanza, la smaterializzazione dello stesso capitalismo… Sono potenti immagini anticristiche – in quanto tali, teologicamente – e possono essere comprese soltanto in questa chiave epocale. La Chiesa si trova di fronte, per la prima volta, alla vera essenza dell’anticristo. Prima si era trovata di fronte a degli antagonisti, ovvero a potenze che cercavano di sostituire la Chiesa nella propria funzione anche catecontica. Credo che la tragedia della Chiesa sia, in questo momento, proprio questa. Pensiamo l’anno della fede, alla tragedia dell’anno della fede. Che cosa significa? Cosa significa se non c’è più speranza? Se non c’è speranza per il mondo, non c’è speranza per la Chiesa stessa. Il katéchon derivava anche dalla fede. Ma se vien meno la fede, viene meno anche la speranza sulla Chiesa stessa. Era l’unico modo attraverso il quale la Chiesa poteva pensare il potere politico, ma anche se stessa come katéchon. L’unica legittimità della potenza catecontica derivava dal fatto di dare e darci il tempo per la conversione. Ma questa, a sua volta, è una speranza. E la speranza, a sua volta, non può fondarsi che sulla fede, per la Chiesa. E se viene meno la speranza in generale, come può esserci quella speranza che era fondata sulla fede? La Chiesa vive nel mondo, ma se nel mondo viene meno tout court la speranza, se non abbiamo più “speranza nel futuro”, nel suo senso più volgare e brutale?

Nel suo libro, la figura di volta per leggere la crisi del “potere che frena” è il Grande inquisitore. n questa figura, lei individua un katéchon in procinto di superarsi. Scrive infatti: «il katéchon perfetto è quello stesso che tramonta, che finisce di essere tale».

Massimo Cacciari: Il Grande Inquisitore di Dostoevskij è l’ultima grande figura del katéchon. Da un lato, vuole essere katéchon, ma per esserlo deve anche contrapporsi alla parusia, perché la parusia è scatenante e liberante. In un senso opposto rispetto a come sradica e liquida tutto l’anticristo, ma la parusia è altrettanto liberante. D’altro lato, va detto, che il katéchon – e questa è la tragedia dell’Inquisitore – deve anche opporsi alla libertà di quel verbo e di quel logos. Come fai a contenere da un lato e a non contenere dall’altro? Questa è la tragedia del Grande Inquisitore che, per un certo periodo, aveva tentato questa concordia oppositorum. Aveva tentato, ma non ce l’ha fatta ed è fallito. La figura del Grande Inquisitore è quella di un fallito. Lui stesso ammette di avere mancato nell’idea che perseguiva: da un lato contenere il liquido, l’aereo e il marino dell’anticristo e, dall’altro, favorire lo scatenamento e la libertà del figlio e del verbo. Il katéchon non ce la può fare. Essendo il katéchon come principio “ciò che trattiene”, “ciò che contiene”, trattenendo l’avanzata dell’Anticristo, trattiene anche la libertà.

Resta però da capire di quale libertà si parli.

Massimo Cacciari: La libertà di essere anche con l’Anticristo. La figura del Grande Inquisitore dimostra, anche in una facies tragica, l’intrinseca contraddittorietà della figura del katéchon e, con altrettanto assoluta consapevolezza, dichiara la propria fine. In queto prelude a ciò che Nietzsche chiamava l’ultimo uomo. Il katéchon appartiene a una dimensione titanica, prometeica.

Dopo il tramonto del katéchon come matrice politica del potere sovrano, che cosa ci aspetta? Lei parla di un’Età di Epimeteo, riferendosi al mito greco del fratello di Prometeo che all’origine dell’apertura del vaso di Pandora. Epimeteo è “colui che capisce dopo”, che non può prevedere. È una chiara immagine del “politico” dove, lei scrive, «il Politico non può più avanzare alcuna autorità che non si presenti al servizio del sistema tecnico economico». In sostanza, crollato il potere che frena, crolla anche ogni mediazione e tutto si riduce a amministrazione impersonale di poteri senza luogo e di luoghi senza potere…

Massimo Cacciari: Oggi viviamo al tempo di Epimeteo. L’ultimo uomo è lo sradicato, l’uomo solitario che sta “insieme” soltanto nell’elemento liquido, nella solitudine e nell’informe dell’immateriale-aereo. Questo è l’ultimo uomo. Una miriade di ultimi uomini, eserciti dell’Anticristo. Credo che i concetti teologico-politici che abbiamo evocato siano gli unici che consentano una comprensione dell’epoca in cui viviamo. Comprensione senza previsione, perché nel momento in cui comprendiamo ci troviamo davvero difronte alle contraddizioni di cui abbiamo detto. È veramente “epoca di Epimeteo” per tutti. Anche comprendendo, non possiamo crederci dei Prometeo e non possiamo prevedere modalità e tempi in cui ciò che comprendiamo – forse – accadrà. L’impersonalità del sovrano comporta la “policefalità” del suo sistema potere e, di conseguenza, la continua competizione tra le sue diverse funzioni per affermarsi come vera interprete e rappresentante della Legge immanente al sistema stesso. Si è scoperchiato il vaso di Pandora e le speranze volano, senza alcuna determinatezza. Torniamo quindi all’elemento aereo: le speranze assumo questo aspetto del tutto immateriale e, in questo senso, non sono speranze fondate. Eppure, anche se abbiamo speranze senza fondamento non possiamo nemmeno dire di essere disperati. La disperazione sarebbe in quanto tale una certezza, ma noi viviamo in una condizione da ultimi uomini. Uomini che non conoscono con certezza il loro domani.  Quella che si apre è un’era di insecuratas e di crisi permanente, segnata dal confliggere tra sfere di potenza e da ritrarsi della sovranità statale su cui non possiamo più proiettare l’immagine del katéchon, nella sua forma forte. Possiamo tentare di comprenderla. Epimeteo non può chiedere altro.

[da il manifesto, 9 marzo 2013]

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tysm literary review, Vol 1, No. 3, “Teologie impolitiche” – march 2013

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