philosophy and social criticism

La parola armata. Violenza e linguaggio

di Carlo Sini

images (1)Un vecchio proverbio dice che chi parla male pensa male. Se è così, da tempo il pensar bene è in declino. È vero che un altro proverbio insegna che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare: non resta che sperare in un mare molto vasto, a salvaguardia dei nostri giorni. 

Non so quando tutto cominciò, ma ricordo il diffondersi della violenza verbale negli stadi: dapprima sporadica, poi sempre più diffusa e addirittura esibita con orgoglio. Ricordo una gentile signora all’Olimpico di Roma che gridava a gran voce a un suo pupillo in campo di spaccare le gambe del povero Rivera, reo solo di giocar bene (ed era molto tempo fa). Poi ricordo, trovandomi lì per caso, l’arrivo in stazione della schiera dei tifosi ospiti, circondati dai poliziotti in assetto antisommossa: una schiera di scalmanati (i tifosi) gridanti improperi e minacce, con scritte, inni e bandiere che credevi andassero in guerra, mentre marciavano fieri tra la folla incuriosita. Si lasciavano alle spalle un treno memore del loro passaggio. Molti ci hanno spiegato di non farci caso: fa parte del gioco ed è una valvola di sfogo per ben più pericolose violenze sociali. Amo il calcio e questa accettazione passiva da parte delle società sportive (che sovvenzionano una tifoseria da trasferta) non mi piace affatto. Ma il punto è che lo stesso linguaggio, «forte e chiaro» è poi uscito dagli stadi ed è diventato, per dire in fretta, gergo giovanilistico, imitato dagli adulti che vogliono apparire disinvolti e «moderni».

Ne abbiamo un saggio se si è su un tram nell’ora d’uscita dalle scuole. Così è dei giochi sul telefonino ecc., con punte, si legge nei giornali, di inaudita violenza «visiva» e l’invito a perseguirla in forma «virtuale».Ma ci hanno ammonito: un po’ di trasgressione giovanile è normale, poi passerà. Non è passata e anzi è dilagata, fuori dalle scuole e dai tram, nel costume della società tutta: dagli insulti e dalle minacce di coloro che si sono «toccati» con l’automobile, ai furibondi litigi televisivi, dove nulla è risparmiato del lessico, si diceva una volta, da angiporto o da caserma (che ormai saranno luoghi di casta memoria filologica delle antiche parolacce), su su sino al gergo politico da piazza e dei messaggi in rete. La rete poi, dove l’anonimato è garantito, sembra annoverare le violenze verbali e i turpiloqui più efferati. Forse ancora qualcuno ci spiegherà che meno male che sta lì e non scende in strada, sebbene questa sia la ricorrente minaccia che si ascolta.

Can che abbaia non morde, dirà qualcun altro, ma intanto, purtroppo, la violenza ogni tanto accade, per molte ragioni che non discendono certo dal linguaggio o dalle parole soltanto; però quando accade, come a Perugia l’altro giorno, si ascolta immancabile il plauso «popolare » e l’augurio o l’invito a fare peggio e di più. «Vi distruggeremo, vi faremo scomparire, morirete tutti», gridano i tifosi agli avversari. I tifosi? Oppure siamo tutti diventati tifosi, nel senso di intransigenti, ciechi e sordi alle ragioni altrui, indisponibili al confronto civile e anche alla sola esistenza di opinioni diverse dalle nostre? Certo, è vero, viviamo nell’ingiustizia, nella corruzione e nell’inerzia (per dire il meno) della politica. Questi sono mali reali e violenze indiscutibili. Il problema è come farsene carico.

Ora, quando sento lodare una campagna elettorale perché, come si dice, ha saputo parlare «alla pancia» della gente, mi chiedo che razza di democrazia sia mai questa in cui viviamo. Mi disturba il cinismo di chi dà per scontato che gli elettori siano in gran parte persone incapaci di ragionare, ampiamente diseducate dai media, e che trovino normale il fatto di approfittarsene. Si ricorda virtuosamente che tutti hanno diritto di voto, ma nel contempo si fa in modo che nella sostanza il voto sia inquinato, elogiando il dilagare della retorica della «pancia», senza che nulla venga spiegato alla ragione. Mi disturba il cinismo degli spettacoli televisivi che ormai si fanno un vanto di invitare l’«incazzato » di turno, della cui violenza verbale ci si compiace e si fa spettacolo, dandogli ragione, poverino, ma guardandosi bene dallo spiegargli che quella violenza di parole che ha imparato sulle piazze reali e virtuali non aiuterà né lui né chiunque altro a risolvere i problemi e a comprendere la realtà profonda delle nostre condizioni. Già fare, come si fa, di ogni erba un fascio, dimenticando i responsabili più diretti, per riempirsi la gola di insulti e accecarsi gli occhi, è una violenza contro la verità e contro il costume democratico. E allora sia chiaro: non è tanto la violenza verbale in sé che mi turba; essa può anche essere sintomo di molte buone ragioni, sebbene di fatto inespresse.

Mi turba e mi sconcerta l’inerzia di coloro che non dovrebbero restare indifferenti di fronte al diffondersi della violenza nel linguaggio: segno preoccupante di possibili più gravi degenerazioni. Chi? In termini ideali tutti i cittadini, ma poi le persone in prima linea nella educazione, nella informazione, nella rappresentanza politica e civile. Cominciamo da me.

[da L’Unità, 9 marzo 2013]

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tysm literary review, Vol 1, No. 3, “Teologie impolitiche” – march 2013

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