philosophy and social criticism

Abu Ghraib e il terrore quotidiano

di Francesco Paolella

Nota su: Pierandrea Amato, In posa. Abu Ghraib 10 anni dopo, Cronopio, Napoli, 2014

Le prigioni non smettono di essere prigioni quando cambia la divisa dei carcerieri. Quella di Abu Ghraib, prigione irachena ereditata dall’esercito statunitense, ormai più di dieci anni fa è diventata famosa non tanto per ciò che vi si commetteva – violenze, umiliazioni, torture – quanto piuttosto per delle fotografie che un gruppo di soldati-carcerieri fecero (e si fecero fare). Allestirono delle vere e proprie scenografie, fate di corpi nudi, tremati, senza un volto, e si misero in posa.

Invece oggi noi vediamo il sorriso dei carcerieri. Stanno in posa, allegri. Il loro riso è senza dubbio vero (le fotografie non mentono mai!), eppure è falso. Suona falso come può essere falso il nostro riso in pubblico (in una riunione o in una festa), per imbarazzo, per paura o per disperazione.

Oggi – questo è il tentativo fulminante che fa Pierandrea Amato in questo libro Cronopio – possiamo provare a capire meglio quelle immagini, a pensarle non per il loro significato politico o culturale, ma alla luce di un indice estetico.

Quei carcerieri allegri sono davvero delle icone del nostro tempo? Per Amato le pose di Abu Ghraib sono documenti amatoriali, eppure epocali, della brutalità quotidiana, della banale mostruosità in cui siamo immersi e da cui rischiamo di essere continuamente catturati. Quelle fotografie sono documenti che oggi possiamo leggere in questi termini, ma non smettono per questo di essere delle armi. La fotografia, infatti, proprio come la guerra, elimina il tempo e crea una relazione istantanea con la morte.

Uno degli eserghi del volume è dedicato a un importante, breve saggio di Walter Benjamin, del 1933, Esperienza e povertà. Riferendosi al periodo successivo alla prima guerra mondiale, Benjamin vi riconosceva una sconvolgente scomparsa dell’esperienza, ovvero la scomparsa della possibilità di fare esperienza dell’esperienza. Tutto finiva rinchiuso nello stereotipato, nel convenzionale.

"Abu Ghraib"

Interno del carcere di Abu Ghraib

E così cosa dobbiamo pensare oggi delle nostre infinite immagini digitali? Del dominio della banalità delle immagini? Senza riferirci per forza ad Abu Ghraib. Viviamo attraverso le immagini, le immagini ci servono per mettere ordine nella nostra confusione. Le macchine digitali e gli smartphone sono armi automatiche usate per difendersi, aggredendo la realtà per rapinarla, per sopravvivere in un mondo poco vivibile.

Il digitale ha portato al parossismo la natura turistica della fotografie: come scriveva Susan Sontag, la fotografia trasforma il mondo in un villaggio turistico. Il digitale è un dispositivo che deve salvare l’uomo contemporaneo da ciò che è originale, non convenzionale, incommensurabile. Deve produrre uno schermo creando immagini standard. Per questo, nei musei o nei memoriali (pensiamo ad esempio ai campi di concentramento o ai santuari), non si guarda la realtà, ma la si fotografa. La macchina fotografica serve per dissimulare. Ciò che vediamo può essere terribile e ripugnante, ma alla fine sarà sempre banalizzato, quindi tollerabile.

E questo discorso vale, all’estremo, in una estremità allucinata e perturbante, per le torture ludiche di Abu Ghraib. Anche perché quelle umiliazioni sono state fatte ad hoc per allestire un set fotografico. Davvero esiste ed è un “evento” solo ciò che viene fotografato e registrato.

La violenza dei carcerieri nelle fotografie diventa routinaria seppure spaventosa. Sono come una performance in cui autore e attori vogliono mostrare i loro trofei e il valore comunque positivo della loro esperienza. “Può essere divertente la guerra!” Su questo punto Amato è particolarmente convincente: guardando quelle fotografie, noi abbiamo una impressione più che mai sgradevole di déjà vu: se invece di ammassi di carne nuda, ci fosse lo sfondo della torre di Pisa o di un altro monumento o soltanto piuttosto il mare o un tavolo di un ristorante affollato di persone allegre e sorridenti), i sorrisi ottusi dei carcerieri non dovrebbero cambiare. Non dovrebbero cambiare posa se fossero dei turisti in Italia o in Francia.

Nelle fotografie di Abu Ghraib rimane ancora la testimonianza inafferrabile di un “mostruoso quotidiano” (in un questa formula l’uno e altro termine vanno considerati alternativamente come attributo) che rimanda all’“ordine post-estetico in cui siamo immersi”, che finisce per spingerci sempre giù nella melma della ripetizione tranquillizzante.

[cite]

tysm literary review

vol. 16, issue No.22

FEBRUary 2015

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