philosophy and social criticism

Artaud alla rovescia

"Antonin Artaud"

di Marco Dotti

La cura estrema, il rigore. Se prestiamo ascolto a Fernand Pouey, fu proprio così, con cura estrema e rigore, che Antonin Artaud si dispose alla lavorazione e al montaggio di Pour en finir avec le jugement de dieul’opera che lo impegnò e lo sconvolse, negli ultimi mesi della sua vita. Giornalista e romanziere, Pouey si rese protagonista di una delle migliori stagioni della radiofonia europea, e, come responsabile delle trasmissioni culturali della Radiodiffusion française, riuscì nella non facile impresa di convincere Artaud a realizzare un programma per la serie “La Voix des poètes”.[2]

La diffusione di Pour en finir venne programmata per lunedì 2 febbraio 1948, alle ore 22,45. Ben presto, però, ricorda lo stesso Pouey, «un’atmosfera artificiosa di scandalo venne creata» attorno al lavoro di Artaud, al solo scopo di impedire che «qualcosa turbasse l’ascoltatore» con la sua inquiétante étrangeté, o che, nella peggiore delle ipotesi, il turbamento non superasse gli argini, ritenuti accettabili, di un preteso attacco al buon gusto in nome dell’«osceno».

Non valsero a nulla le prese di posizione degli amici di Artaud, né, tanto meno, la minaccia di Pouey, in seguito portata a compimento, di rimettere il proprio incarico se non fosse stato ritirato il veto che il direttore generale Wladimir Porché aveva posto su «questa bomba che è stata innescata sulle mie frequenze».[3] Sappiamo che non servirono a niente neppure le spiegazioni/proteste dirette dallo stesso Artaud contro Porché.

«Mi permetterà di essere più che disgustato e scandalizzato dalla misura che all’ultimo istante è stata presa contro la mia trasmissione», scriveva Artaud. «Io, l’autore, ho ascoltato come tutti l’insieme sul magnetofono, ben deciso a non lasciare passare nulla che potesse ledere il gusto, la morale, le buone maniere, la volontà d’onore, che d’altra parte potesse stillare la noia, il déjà vu, l’abitudine; volevo creare un’opera nuova e che attaccasse alcuni punti organici della vita, un’opera in cui si percepisse tutto il sistema nervoso, (…) con vibrazioni, risonanze che invitino l’uomo a uscire CON il proprio corpo per seguire nel cielo questa nuova, insolita e radiosa Epifania». Seppure, proseguiva Artaud, il testo appariva costellato «di parole violente, di parole tremende», queste parole cadevano «in un’atmosfera così fuori dalla vita che non credo che possa rimanere, a quel punto, un pubblico capace di scandalizzarsi. Chiunque sia, anche l’ultimo bracciante deve capire che ha abbastanza sporcizia -fisica, come fisiologica, e DESIDERARE un mutamento corporeo di fondo».[4]

Un coetaneo di Artaud, Pierre Descaves, che fu tra i consulenti chiamati da Porché a esprimersi sull’opportunità o meno di trasmettere quello che tutto sembrava fuorché un radiodramma, fu molto drastico in proposito: «Possiamo accogliere davanti ad un microfono e indirizzare alla maggior parte degli ascoltatori della radio “ufficiale” trasmissioni in cui la sfrontatezza degli intenti, e la veemenza del tono si esprimono in piena libertà?».[5] Per Descaves, critico militante che teneva una rubrichetta, “Radio”, su “Les Nouvelles littéraires”, il libro sarebbe stato «il mezzo normale per il tragitto di un pensiero tanto profondamente originale». Descaves dichiarava «ancora accettabile» che una simile «sperimentazione» si svolgesse in un teatro, ma alla radio, dove l’ascoltatore «può essere un qualsiasi sprovveduto», tutto appariva, a dir poco, intollerabile.

L’ipocrisia di simili posizioni è evidente e palese se si considera, come invita a fare Philippe Lejeune, che non si trattava di “preservare” in alcun modo il buon gusto o il decoro. Sebbene lo «scandalo artificiosamente montato», denunciato con coraggio e rigore da Pouey, cercasse di accreditare proprio questa ipotesi, si trattava di ben altro; di operazione sottile, tesa a castrare una voce, riducendola a  “testo”, per meglio «assimilarla».[6] Una sorta di «digestione lenta», per riprendere, ancora, le parole di Lejeune, che avrebbe permesso, negli anni successivi alla morte di Artaud (la prima diffusione radiofonica integrale di Pour en finir avec le jugement de dieu data 6 marzo 1975), di superare la fase dello “scandalo”, e di entrare in quella successiva della riduzione della sua pratica artistica al reperto agiografico o biografico,[7] a moda di passaggio,[8] o, peggio ancora, a sterile e puerile disputa filologico-testuale.

La fuga dalla logica binaria, dalla discorsività applicata all’arte, dalla rappresentazione, in tutte le sue forme, non solo nei suoi eccessi, praticata da Artaud in cinquantuno anni di sofferta creatività e di «disperazione ontologica»,[9] non permettono di considerare molti tra i più recenti, e raffinati, rimandi filologici o comparatistici, come qualcosa di più che una nuova perdita di tempo.

Sapere se un frammento, un’intuizione, l’estemporaneo riferimento a un’opera, o a una tradizione, siano presi, ispirati, dettati dalla comunione di idee, se non di intenti, con Guénon, Böhme, Gurdjeff o chicchessia, non legittima forme di miopia culturale, ancorché eleganti e suggestive. Non si tratterebbe, al contrario, neppure di lavorare su concetti (magari travisando, o nuovamente storicizzando, la linea interpretativa di Deleuze e Guattari), ma di fare esperienza dei concetti dentro e attraverso una scrittura, nel momento stesso in cui quella scrittura si produce, e, accanto a sé, vede sorgere il suo ineliminabile scarto.

Può sembrare un paradosso, dopo mezzo secolo di discussioni, ricognizioni, dibattiti sulla vita, più che sull’opera, di Artaud, ma il nuovo volto della rimozione di Artaud è proprio (ancora), questo: la riduzione della sua opera e del suo lavoro a un “testo”.

Un rischio a cui neppure Paule Thévenin,  «corpo di carta», come scrive Bernard Noël nel libro qui tradotto da Lucetta Frisa, destinato a rinascere «senza organi nel corpo vivente che gli si è sacrificato», era riuscita a sottrarsi, pur consapevole del fatto che la attività polimorfa di Artaud mal si adattasse ad una costrizione in forma di libro e parola scritta (infatti, pur non mostrando sempre piena consapevolezza dei propri mezzi, e dei propri, relativi, limiti, la Thévenin parlava di «trascrizione» dei fogli-mondo di Artaud).

 «Che interesse potrebbe avere per noi», scriveva Paule Thévenin, «un fatto di vita che non si imponesse con e per la scrittura, che non fosse capace produrre una vibrazione poetica, o di far nascere pensiero?» «L’esistenza che gli altri vi vedono vivere», proseguiva, «non offre spesso che un ben misero interesse e la sua semplice evocazione altro non è che il riflesso della sua debole vitalità. La vita vera risulta assente. Chi scrive, ed ogni grande scrittore è anche un po’ poeta, assiste, per riprendere Rimbaud, allo schiudersi del suo pensiero. Ciò lo porta a trasformare, a ricreare la sua vita quando scrive. E si capisce la necessità che preme Antonin Artaud, nel momento in cui riappare, vale a dire quando si rimette a scrivere, a ricostruire la sua biografia, a lavorare senza tregua, a rifarla più vibrante di miti, più carica di senso. Diventa questa trama fremente che attraversa i suoi ultimi testi. Allora, scrivere e vivere si confondono, e l’autobiografia non è altro che un raddoppio della scrittura. Riscrivere una vita già iscritta nei fatti. È ciò che ogni autobiografia dovrebbe essere: una specie di operazione magica da cui esce una nuova vita».[10]

«Analphabète illettré», Artaud amava torcere forma e senso del linguaggio. Si serviva del gergo e del disegno e li impastava nel «petit nègre», nella speranza di  rivelare la «struttura corrosiva» sottesa al linguaggio. La petit musique, la cifra stilistica di Artaud, in tal senso, è  «musique basée sur le néant», controcanone cavo possibile solo a partire da una «création qui commence dans le zéro». Per questo, come suggeriva Jacques Derrida, chiosando il suo Forcener le subjectile, bisognerebbe «forzare». Forzare ripartendo ogni volta «da zero». Forzare, non ridurre, e ripercorrerlo a ritroso, il tragitto artaudiano, per sovvertire schemi, canoni e gerarchie. Per ribaltare cronologie, luoghi comuni, parossistiche, e improbabili, ricostruzioni di una vita quanto mai sfuggente. «Avrò forzato le cose?», si chiedeva Derrida. «Si dirà che faccio eccessivo ricorso a questo termine, soggettile, che in Artaud non ricorre che tre volte», ma – questo è il punto chiave del discorso – «nessuna lettura, nessuna interpretazione potrebbe testare la propria efficacia e la propria necessità senza una certa forzatura. Bisogna dunque forzare».

Con più malizia, Roland Barthes suggeriva di intraprendere la strada del plagio:[11] dimenticarsi dell’opera, come condizione necessaria per ritornare ad essa. Un’opera che, come invitava a considerare Arthur Adamov, è sì «un resoconto minuzioso e tremendo di stati vissuti fino al limite della morte», ma il cui valore è dato dalla «totale reinvenzione della forma, la trovata verbale, una sorta di miracolo fonetico che si rinnova senza soste», dove «la frase non soltanto vi stride inumana, spezzandosi, scomponendosi, ma si dispone anche su un piano superiore, del quale si può dire, come minimo, che permette risonanze finora mai conosciute dalla poesia».[12]

Di questa «totale reinvenzione della forma» Artaud parlò anche con Pouey, nel febbraio del 1948, pochi giorni prima della sua scomparsa. Dalle sue parole, ricorda Pouey, era ormai assente ogni riferimento alla radio. Artaud dichiarava di volere intraprendere la strada «di un teatro itinerante». Che cosa intendesse dire, non è facile capirlo. Ma è da questi piccoli indizi, dal tentativo di afferrare le risonanze cui fa cenno Adamov attraverso un esercizio di critica «laterale, eccentrica, a-centrata», che, forse, converrebbe ripartire, di contro alle “grandi” e “autorevoli” sistematizzazioni che hanno fatto di Artaud un manichino filosofico su cui appuntare spilli e etichette.

Forse neppure così sarò possibile capire ciò che l’opera di Artaud «ci chiede», tragicamente, di “capire”, ma, di certo, è questa la sfida che ci pone.

Note

[1] Fernand Pouey, Un Ingénu à la Radio, Domat, Parigi 1949, p. 253.

[2] Idem.

[3] Cfr. Allen S. Weiss, Radio, Death, and the Devil: Artaud’s  Pour en finir avec le jugement de dieu, in Douglas Kahn – Gregory Whitehead, a cura di, Wireless Imagination Sound, Radio, and the Avant-Garde, Mit press, Cambridge (Mass.) 1992.

[4]“Le Nouvelles littéraires”, 12 febbraio 1948.

[5] Philippe Lejeune, Je est un autre. L’autobiographie, de la littérature aus médias, Seuil ,Parigi 1980, p. 148

[6] Vedi Sylvère Lotringer, Fous d’Artaud, Sens et Tonka, Parigi 2003.

[7] Cfr. Paule Thévenin, L’imbécillisation par la Beat Generation, “Tel Quel”, n. 24 (1966).

[8] L’espressione è di Luis Cardoza y Aragón.

[9] La vie s’écrit, in Simon Harel, a cura di, Antonin Artaud. Figures et portraits vertigineux. XYZ Editeur, Montréal 1995, p.15.

[10] Roland Barthes, Où/ou va la littérature ?, in Cours, Entretiens et Enquêtes 1974, in Œuvres Complètes, t. III, Editions du Seuil, Parigi 1995, p. 63-64

[11]“K. La Revue de la poèsie”, n. 1-2, (febbraio 1948).

tysm literary review, vol. 10, no. 15, june 2014

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