philosophy and social criticism

Pavese e la Balena bianca

di MARCO DOTTI

Pubblicato da: il manifesto, 19 giugno 2008

Andrebbero rimeditate le parole di Natalia Ginzburg, che nel suoLessico famigliare accennava a quel misto di dedizione assoluta e di crudele disincanto a cui si era votato Cesare Pavese, nel momento stesso in cui si apprestava a licenziare la traduzione di Moby Dick.

Erano i primi anni Trenta, e agli amici che cercavano di coinvolgerlo in una nuova impresa editoriale, Pavese era solito rispondere: «non ho bisogno di uno stipendio. Non devo mantenere nessuno. Per me, mi basta un piatto di minestra». Guadagnava poco grazie alle supplenze nei licei torinesi, ma quel poco, evidentemente, sembrava bastargli. Gli bastavano le traduzioni dall’inglese, di Riso nero di Sherwood Anderson o di Moby Dick, usciti entrambi nel 1932 per i tipi di un coraggioso editore torinese, lo stampatore Carlo Frassinelli.

Quanto a Moby Dick, Pavese ripeteva che se l’aveva tradotto, era stato «per suo puro piacere» e per mettersi al passo coi tempi. L’avevano pagato, certo, «ma l’avrebbe fatto anche per niente, anzi avrebbe pagato lui stesso per poterlo tradurre». Già scriveva saggi, racconti e poesie, e quelle sue poesie, commenta la Ginzburg, avevano un ritmo lungo, quasi strascicato e pigro, che si perdeva in «una specie di amara cantilena». Il suo mondo era l’America sognata, ma prima di tutto era Torino, il Po, l’«inframondo» delle colline e delle langhe, ma anche il lavoro in fabbrica, il «biennio rosso» e gli scontri con la polizia, e poi la nebbia e le «osterie di barriera».

Moby Dick di Melville

Moby Dick di Melville

Sotto il segno di Sinclair

Aveva solo ventiquattro anni, quando terminò la versione da Melville, un lavoro ricco di insidie, per i termini marinareschi e tecnici di cui è cosparso il testo, e che Pavese dichiarava condotto non si sa «con quanta competenza, ma con molto trasporto», anche se i suoi taccuini – ricchi di note, di lunghi elenchi lessicali, e di schizzi di imbarcazioni – tutto lascerebbero supporre, tranne l’improvvisazione nel tradurre.

Parlare. Le parole sono il nostro mestiere. Lo diciamo senza ombra di timidezza o di ironia. Le parole sono tenere cose, intrattabili e vive, ma fatte per l’uomo e non l’uomo per loro. Sentiamo tutti di vivere in un tempo in cui bisogna riportare le parole alla solida e nuda nettezza di quando l’uomo le creava per servirsene. E ci accade che proprio per questo, perché servono all’uomo, le nuove parole ci commuovano e ci afferrino come nessuna delle voci più pompose del mondo che muore, come una preghiera o un bollettino di guerra. Il nostro compito è difficile ma vivo. È anche il solo che abbia un senso e speranza. Sono uomini quelli che attendono le nostre parole, poveri uomini come noialtri quando scordiamo che la vita è comunione. Ci ascolteranno con durezza e con fiducia, pronti a incarnare le parole che diremo. Deluderli sarebbe tradirli, sarebbe tradire che il nostro passato

Ritorno all’uomo, 20 maggio 1945

Alla fine, nonostante tutti quei «Me ne infischio!» pronunciati all’indirizzo di Leone Ginzburg, Pavese si persuase a entrare con lui nell’allora «piccola casa editrice» Einaudi, di cui l’amico era redattore, diventando «un impiegato puntiglioso, meticoloso, brontolando contro gli altri due che venivano tardi nella mattinata e se ne andavano magari a pranzo alle tre».

Accanto a Melville, le passioni di Pavese rispondevano ai nomi di Whitman, letto e studiato fin dall’adolescenza, di Sherwood Anderson e, soprattutto, di Sinclair Lewis. Poi c’era il jazz, il dubbio su chi scegliere tra Duke Ellington o Armstrong, fonte di accese dispute con il compagno di studi Massimo Mila, e il cinema, quello di genere dove «la massa oscura del vigliacco copre quasi interamente la massa chiara dell’innocente» e quello americano con il suo alto tasso di «energia vitale, non importa se pessimistica o gioiosa», la fine del muto, e la nascita del sonoro, nel ’27.

Nel Cantante di jazz di Alan Crosland, con le sue canzoni e una battuta folgorante – «quel che avete sentito è ancora niente» – Al Johnson aveva spazzato via tre decenni di utopia silenziosa, inaugurando un’epoca e un «nuovo tipo di estetica», come lo stesso Pavese avrebbe commentato trenta anni dopo sulle pagine di «Cinema nuovo», dopo aver fatto esperienza di traduttore e sceneggiatore e avere appreso alcuni segreti della moviola.

A tutto questo, nei primi anni Trenta, si univano già i ricordi di Santo Stefano Belbo, nelle Langhe, dove era nato il 9 settembre del 1908, del padre presto scomparso, del trasferimento a Torino e delle prime vacanze in Liguria, come è documentato nel diario inedito Dodici giorni al mare (a cura di Mariarosa Masoero), pubblicato da Galatea edizioni di Genova. Anche qui, nelle poche note di un Pavese quattordicenne, si intuisce il piglio dello scrittore.

Fu comunque proprio con un saggio dedicato a Sinclair Lewis, pubblicato nel ’30 sulla rivista «Cultura», che Pavese debuttò come americanista, segnando un passo decisivo nella sua formazione. Ma fu un anno terribile, perché se accanto a quei primi lavori ci fu il conseguimento della laurea, è allora che iniziarono anche le prime delusioni. Non fu accettata la sua richiesta di diventare assistente universitario, gli venne rifiutata una borsa di studio alla Columbia di New York e a novembre Pavese, già orfano di padre, si ritrovò solo, a causa della morte di sua madre Consolina.

mobydick11

Gli restavano, appunto, la dedizione «contro voglia» al lavoro editoriale, che sarebbe durata tale e quale fino alla fine, e il «trasporto» di quelle traduzioni, che nel corso degli anni gli sarebbero servite come «pungolo a concepire i suoi racconti non come descrizioni ma come giudizi fantastici della realtà».

Nel corso del tempo, il giudizio di Cesare Pavese su Lewis sarebbe stato sempre meno entusiastico, arrivando a lambire la «stroncatura», ma a Lewis Pavese riconobbe sempre il merito di avere insegnato a tutta una generazione di lettori che «senza provinciali, una letteratura non ha nerbo».

A questo proposito, Lorenzo Mondo ricorda – nel suo Quell’antico ragazzo. Vita di Cesare Pavese – come sfruttando una serie di fortunate coincidenze legate all’improvviso successo di Sinclair Lewis, prima fra tutte l’inatteso Nobel conferitogli proprio nel ’30, Pavese fosse riuscito a pubblicare la sua prima traduzione. In poco meno di un mese, infatti, riuscì a completare la versione del Nostro signor Wrenn, con la stessa disperata concentrazione che di lì a poco lo avrebbe condotto a confrontarsi con Melville e le descrizioni dell’oscuro tormento che scuotono il comandante Achab e l’equipaggio della baleniera Pequod, ma anche con il fascino della compresenza in Ismaele – voce narrante di Moby Dick – di una doppia natura, quella del cacciatore di balene e quella del letterato, capace di scagliare un arpione nel vuoto dell’Oceano e poi di rifugiarsi in silenzio a meditare su Platone. 

Se Moby Dick apparirà nel ’32 in due splendidi tomi della Biblioteca di cultura europea diretta da Franco Antonicelli, Il nostro signor Wrenn di Lewis troverà spazio grazie alla fiorentina Bemporad. Il signor Wrenn – «gentiluomo romantico» – così recita il sottotitolo dell’edizione italiana – sembra anticipare, nella lettura di Pavese, alcuni dei miti americani più moderni.

«La nuova poesia», afferma Pavese, «è nata in America». Nata o «creata da Lewis» che con con il suo Wrenn ha offerto un modello, umanissimo dice Pavese, alle figure di Keaton, Chaplin e, in parte, di Harold Lloyd.

Tutto un immaginario da ricordare

Nell’immaginario italiano andavano così a sedimentarsi materiali non interni, grazie  alle sue traduzioni di Sinclair, Anderson e Melville, con le belle copertine disegnate per Frassinelli da Mario Sturani, in una collana che accanto alle prime traduzioni del Processo di Kafka o di Dedalus di Joyce non teme di affiancare gli albi delle “Avventure di Topolino” di Disney. Se ne ricava il senso di una comunità che non voleva chiudersi, anche se presto avrebbe pagato con il confino o peggio, come accade nei periodi bui, le proprie aperture culturali e politiche. E forse oggi come non mai, quel tentativo, e quella stagione andrebbero ricordati…

Mi diceva che l’ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa ma da come lo fa, e che certe mattine svegliandosi aveva voglia anche lui di mettersi al banco e cominciare a fabbricare un bel tavolino. – Cos’hai paura, – mi diceva, – una cosa s’impara facendola. Basta averne voglia… Se sbaglio correggimi.

La luna e i falò

In un articolo pubblicato nel 1957, sulle pagine del «Radiocorriere», Natalia Ginzburg tracciava un indimenticabile profilo del Pavese scrittore-editore, profilo che andrebbe tenuto ben presente. Pur senza nominarlo, chiamandolo semplicemente «un amico», la Ginzburg ricordava come quell’ «amico misurava la città col suo lungo passo, testardo e solitario; si rintanava nei caffè più appartati e fumosi, si liberava svelto del cappotto e del cappello, ma teneva buttata attorno al collo la sua brutta sciarpetta chiara; si attorcigliava intorno alle dita le lunghe ciocche dei suoi capelli castani, e poi si spettinava all’improvviso con mossa fulminea. Riempiva fogli e fogli della sua calligrafia larga e rapida, cancellando con furia» e in quei fogli, non meno che nei suo romanzi o nei suoi versi, celebrava il fascino discreto della sua città e del suo testardo «mestiere».

[cite]

 

tysm review
philosophy and social criticism

vol. 26, issue no. 27

august 2015

issn: 2037-0857

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