Il ritmo di Busi
di Francesco Paolella
Come quando si trova una moneta nella sabbia, e trovandola quasi ci si fa male al piede, così per me è stata la scoperta di Aldo Busi, il migliore fra gli scrittori fraintesi in Italia.
Volendo scrivere qualcosa su questa sua autobiografia, ho dovuto per forza rileggerla più volte. In un certo senso – e la responsabilità è senza dubbio la mia – si tratta di un libro in un certo senso non commentabile. Perché se è vero che se per Busi la letteratura è ritmo, è molto difficile riuscire a romperlo o anche solo a sospenderlo. Questo libro è la somma, anzi la moltiplicazione, di tanti libri possibili.
Grazie al Busi polemista, narratore, sociologo, apostolo senza messia, profeta (il Sade dei nostri tempi), sembra davvero che tante, moltissime mani diverse si sian applicate e fuse per lasciarci queste pagine.
Sarebbe fin troppo facile scrivere che Vacche amiche sia più un cantiere che un’opera compiuta: o, piuttosto, la realizzazione compiuta di un cantiere permanente. Busi riesce a far respirare la sua stessa aria, ma senza far pesare troppo la sua biografia (e tutte le costruzioni spettacolari che quest’ultima porta con sé).
Il sesso, il potere (e i loro inestricabili, tristi intrecci), il denaro, la tecnologia, la letteratura che fu, le libertà illusorie e potenziali, la pornografia: Busi, in una sintesi irresistibile fra il ruolo di un Geremia e quello del già citato Sade, vuole mostrarci la disintegrazione diffusa oggi. Il nostro scrittore sembra presentarsi come il testimone di una apocalisse già avvenuta e ormai invisibile (e, tutto sommato, ormai trascurabile – anche i disastri invecchiano e finiscono per annoiare). Ora che (quasi) tutto è compiuto che il nostro mondo è caduto in uno stato comatoso, non resta che guardarsi allo specchio, impietosi.
Solitudine, progressivo impoverimento, incapacità (anzi: la scelta di non) di adattarsi alle innovazioni tecnologiche, assistere alla fine di ciò che ha segnato tutta una esistenza (la propria): attraverso lo sguardo di Busi, anche io posso rappresentarmi questo tempo sempre più fermo, in un contesto sul quale è ormai sostanzialmente inutile affannarsi a dire qualcosa di progressivo.
La scrittura civile di Busi (con tutto ciò – poco o nulla – che una formula come questa può significare oggi), il suo riferirsi malinconico alla necessità di un’etica civile, senza la quale nessuno progresso, nessuna liberazione (morale, politica, sessuale, estetica) sarà mai possibile – ecco questa scrittura ci spinge a guardare giù, verso il fondo, alla nostra prigione di commercianti e moralizzatori (entrambi assolutamente amorali) che ci governano e ci schiacciano.
Questa autobiografia è alla fine anche una specie di miniera, da cui si possono estrarre e “sfruttare” moltissimi spunti (sentenze?, aforismi?, piste di ricerca?), che Busi ha collezionato qui. E su ognuno ci sarebbe (ci sarà) molto da pensare e da criticare.
Ne riporto una sola, strepitosa secondo me, da pagina 53:
«Non ho certo chiesto di che religione fossero ai profughi dell’ex Jugoslavia che ho alloggiato e mantenuto a spese mie dal 1991 al 1998 nel mio appartamento di Contrada del Mangano a Brescia subendo ogni possibile ostracismo e scherno da parte dei Servizi sociali delle giunte di Sinistra Postdemocristiana del tempo – il prosieguo del fascismo mussoliniano, si sa, non è stato tanto il berlusconismo quanto il cattocomunismo, che perdura a ogni livello istituzionale, fascismo mussoliniano su cui oltretutto si è innestato simpaticamente il secondo dando luogo a un inestricabile e mirabile groviglio di vermi civili, politici, umani senza capo né coda né testa, vero ebola italiano duro da estirpare e che tutto infetta, corrompe e idiotizza».
[cite]
tysm review
philosophy and social criticism
vol. 26, issue no. 27
august 2015
issn: 2037-0857
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