philosophy and social criticism

Ego et Alter. Nicola da Cusa

Luciano Parinetto

Nel suo Eckhart, Galvano Della Volpe rimprovera, tra l’altro, anche a marxisti, il culto della negazione della negazione, che, a suo avviso, non è che formula teologica desunta, da parte di Hegel, da mistici come Eckhart e Nicola da Cusa, per i quali solo è ammissibile una logica dell’infinito in cui uomo e mondo sono negazione di quella posizione che è l’infinità di dio, cui si approda mediante la negazione della negazione, vale a dire dell’accidentalità del mondo.

Nulla avrebbe dunque a che vedere il pensiero di Marx con simile dialettica. Ma la dialettica della mistica può essere considerata altrimenti, nella direzione per esempio, di Feuerbach e di Ernst Bloch, che valutano Hegel in modo diverso da Della Volpe. Per la Fenomenologia, ciò che alla coscienza (eventualmente anche mistica) appare altro, non è, per noi (per il punto di vista dello Spirito), che la sua autocosciente totalità ancora celata. Ciò che per essa (nel caso anche della mistica) è dio, non è, per noi, che Spirito non ancora presso di sé: la zona provvisoriamente in ombra dell’autocoscienza duplicata. Feuerbach, più popolarmente, dirà che dio non è altro che l’uomo non consaputo, il quale, quando sarà presso di sé, considerando esattamente il proprio rapporto col Gattungswesen, con la specie, convertirà il sapere mistico/teologico in consapevolezza antropologica.

Non a caso, dunque, proprio nel mistico Angelo Silesio, Gottfried Keller, ne Enrico il verde, indicherà un Feuerbach avant-la-lettre. Silesio, infatti, giunge a dire: «So che senza di me dio non può vivere nemmeno un attimo».

Per lui, che si richiama anche a Tauler, non v’è diversità fra dio e uomo; visto che abbiamo la sua stessa essenza, diveniamo simili a lui! Anzi, Silesio arriva ad affermare: «Io sono l’alter-ego di dio». E, del resto, per Nicola da Cusa, e sia pure non absolute, homo enim deus est! Senza contare che, col suo maestro Eckhart e con l’antico Plotino, è del parere che a dio non converrebbe essere. Dunque ècon la mistica che ha inizio, per noi, la dialettica della conversione di dio nell’uomo e, con essa, anche la previsione della costituzione a venire dell’uomo autentico (onnilaterale, direbbe Marx) atteso dopo la rivoluzione. Questa dialettica che abbandona la via del cielo, lasciandolo ai passeri, potrebbe essere quell’ateismo nel cristianesimo di cui tratta Bloch, secondo il quale furono i mistici che «posero dio nell’uomo», mediante un pensiero che «elimina completamente l’aldilà per porlo nell’uomo».

Lo stesso Bloch (in Principio Speranza, V parte, cap. 49) ha addirittura segnalato, nella mistica classica tedesca, la preparazione dell’itinerario che sarà, alla fine, quello del Faust goethiano, ponendo Nicola da Cusa all’interno di questa prospettiva, aperta nientemeno che dal serpente del paradiso terrestre (larva, come è noto, della dea ragione già per Schillere Hegel!):

La prima anima faustiana, o avida di sapere, che si sia chiaramente manifestata, è sant’Agostino, e il suo adepto Ugo di San Vittore fu il primo a stabilire il percorso, che contempla diversi gradi, che un pio Faust deve superare, per accostarsi al proprio dio Eritis sicut deus.

Si tratta di cogitatio, contemplatio, meditatio, ovvero i tre occhi mediante i quali l’uomo acquisisce la conoscenza; gli oggetti loro corrispondenti sono: materia, anima, Dio. Impegnato nello stesso viaggio, Nicola da Cusa ha distinto quattro tappe di conoscenza: sensus, ratio, intellectus, visio, cui corrispondono: le cose isolate, le specie diverse, il mondo dialettico dei numeri e l’unione mistica di tutti i contrari, ivi compresi quelli che oppongono il Soggetto all’Oggetto. Ed è ancora un itinerario, ma senza teologia, che ha determinato nel dramma di Faust la sequela dei suoi successivi punti di partenza…». Sicché, con tipico rovesciamento dialettico, lo streben della mistica si convertirebbe nello streben, ormai libero dalla teologia, di Faust.

Con ciò la mistica evita il rimprovero hegeliano di disperdere i suoi tesori in cielo. E fra i suoi tesori sono anche importanti analisi antropologiche (nel senso feuerbachiano), il cui valore permane anche nel caso che l’altro, di cui trattano, non si celi più in dio, ma si disveli nell’uomo. Come permane l’importanza del metodo dialettico che in quelle analisi è spesso dispiegato, mirabilmente esemplificato anche nel breve dialogo qui tradotto, dove la molla del colloquio, nel suo procedere, è proprio la negazione: Verum dixi quando dixi et nunc verum dico quando nego! Si tratta di un procedimento esemplare, perché la mistica qui mostra di non temere di porre in discussione tesi già avanzate e in ciò è ancora oggi stimolo al pensare non dogmatico. Ma la mistica in quanto metodo e in quanto analisi antropologica, perché, invece, il suo concetto della infinita trascendenza di dio era stato tranquillamente acquisito dal dogmatismo della scolastica. Alla quale, semmai, poteva dare fastidio l’asserzione cusaniana che finiti et infiniti nulla proportio, che apriva un incolmabile abisso fra teologia e logica.

E anche prospettive che, più tardi sarebbero state protestanti: «Una delle più grandi conquiste del protestantesimo – scrive Carl G. Jung in Esperienza e mistero- è stata quella di tracciare una netta separazione tra ciò che èdi Dio e ciò che è del mondo». Fra dio e mondo, almeno per la prima maniera del pensiero cusaniano, non v’è possibile sutura. A ciò corrisponde anche la nozione cusaniana di incommensurabilità di dio. Per Cusano (si veda, ad esempio, il De visione dei, cap. XVI), dio, in quanto omnibus creaturis incognitus, va adorato nella quiete di quella ignoranza quasi in thesauro innumerabili. Questa incalcolabilità corrisponde anche alla non misurabilità di dio mediante numeri. Stiano in pace i filosofi della scienza! Qui non si parla della loro incommensurabilità. Cusano qui probabilmente non pensa al mondano del piccolo mondo dei numeri e dei matematici (che presto lo sviluppo del capitale avrebbe esaltato). Non v’è solo l’incommensurabile del matematico al mondo! C’è pure l’incommensurabile rispetto a quel piano del quantitativo, che si apprestava a invadere, col capitale, il mondo e a scacciame (assieme a imagines, magia e alchimia rinascimentali) il qualitativo.

D’altra parte, Tommaseo (e, a ruota, Zingarelli) recita: «Incommensurabile= Di quantità che non ha comune misura con altra (a cui possa essere paragonato)». Pare proprio sia il caso del dio cusaniano! Del resto, si sa che, per Cusano, mens proviene da mensura (che presuppone il numero), e che la mens umana, per lui, non è in grado di circoscrivere la mens divina, che pertanto, a stretto rigore, è per essa esattamente incommensurabile.

Se, come dice Cusano, nel De Beryllo, in se homo reperit quasi in ratione mensurante omnia creata, è chiaro che la sua ratio mensurans non potrà misurare dio, che non è cosa creata.

Certo Cusano, seguendo Hermes Trisméghistos (che sosteneva prometeicamente hominem esse secundum Deum), osa dire che l’intelletto umano est similitudo divini intellectus; ma, si sa, somiglianza non è coincidenza o eguaglianza e dunque, se ex hoc mensurat divinum intellectum, non lo coglie in verità. Perciò, aggiunge Cusano, haec est aenigmatica scientia, quando si sa che la verità non est figurabilis in aliquo ænigmate.

Dunque anche qui viene ribadita la incommensurabilità di dio! Ma è proprio questa incircoscrivibilità di dio, da parte dell’uomo, che rende possibile una considerazione del divino, che potrebbe dirsi involontariamente e anticipatamente feuerbachiana. «Il volto pieno d’amore che ti fissa – si legge nel cusaniano De visione dei – non troverà che il tuo volto pieno d’amore che lo fissa (… ) Chi ti fissa adirato, tale troverà il tuo volto. Chi ti fissa in letizia, troverà il tuo volto lieto quanto il suo. E come quest’occhio di carne giudica rosso quanto vede, se lo fissa attraverso un rosso cristallo, e verde, se il cristallo è verde, così l’occhio della mente, coinvolto da contrazione e passione, ti giudica, in quanto oggetto della mente, secondo natura di contrazione e passione. L’uomo non può giudicare se non da uomo e quando ti dà un volto non lo ricerca fuori dalla specie umana, perché il suo giudizio è contratto all’intemo della natura umana ( … ). Così se il leone ti desse un volto non te lo aggiudicherebbe che da leone e il bue da bue e l’aquila da aquila ( … ). Il tuo volto, concepito dal giovane, sarebbe da giovane; da uomo, se uomo lo concepisse, e da vecchio, se lo pensasse un vecchio ( … ). In ogni volto, il volto dei volti è visto sotto un velame e in enigma».

In questo testo, Gottfried Keller avrebbe potuto trovare molto Feuerbach. Quello, per esempio, che, nel De ratione una, universali, infinita, si sofferma sulla hegeliana duplicazione dell’Autocoscienza e scrive: «In cogitando in memet ipso ille Alter Ego est, ipse sum simul Ego et Alter ( … ) neque certus quidem Alter, sed Alter omnino (sive in specie)». Certo, in Nicola da Cusa non è ancora chiaro che il Gott ander­Er (di cui parlerà il Silesio) non è che l’individuo che si collega/distingue rispetto al genere. Da Cusa, che pure per sola forza speculativa aveva scoperto che «Terræ figura est mobilis et sphaerica et ejus motus circularis», aprendo la strada a Copernico e a Galilei, non compie la conversione copernicana della mistica, perché non può sapere, come saprà Marx, che «la religione è soltanto il sole illusorio che si muove attorno all’uomo, fino a che questi non si muove attorno a se stesso».

Quando, nella seconda maniera del pensiero cusaniano, non si metterà più l’accento sulla caligo, nebula, tenebra dell’assoluta alterità di dio, ma sul suo infinito rispecchiamento nell’uomo, certo sarà fatto un passo verso una simile conversione. L’alto di dio e il basso dell’uomo e del mondo (non invano Nicola aveva letto Hermes Trisméghistos e la Tabula smaragdina) non costituiranno più allora una Trennung irrimediabile, ma si avvieranno all’alchemica Vereinigung, cui conduce una processio a suo modo aurea. Il nuovo dio, infatti, ora clamitat in plateis (come dicono il De apice theoriae e il De idiota) e si presenta (almeno secondo il De ludo globi) come non absurda assimilatio, anzi, come apta similitudo quella che lo paragona al denaro. «Si Deum ponimus, quasi monetarium, erit intellectus quasi nummularius!». «Est igitur intellectus ille nummus, qui et nummularius. Sicut deus illa moneta, quae et monetarius». L’intelletto è denaro e trafficante di denaro; dio è moneta coniata ed è pure colui che ne fa conio. Metafora del cosmo è qui una grande banca, dove dio è oro e zecca e l’intelletto dell’uomo lo riconosce perché è denaro e traffico di denaro. All’intelletto/nummularius diventa noto, attraverso la signatura del denaro, «precium ipsius monetæ et valor, atque per hoc, potentiam monetarii».

L’uomo/ denaro riconosce sé, il suo dio e il mondo per mezzo del denaro; il denaro è il nuovo Cristo che media dio e il mondo. Non si tratta che di metafora, ma le immagini di cui si serve un pensiero hanno il loro peso; soprattutto questo ricorso all’immagine del danaro nel momento in cui la civiltà occidentale sta entrando nell’eone del capitale: quanto la divina caligine prima celava, si rivela, ora, aureo splendore. Certo non è trascurabile l’analogia della metafora cusaniana con quelle di cui si serve la psicologia junghiana, in cui l’archetipo è «come un’impronta che presuppone un soggetto che imprime» (moneta e coniatore!); non va neppure trascurato, tuttavia, che oro e dialettica gia si intrecciavano quando Eraclito ne fece le prime meditazioni in una pòlis che si apriva al traffico e ai commerci; e di nuovo si reintrecceranno quando Marx sarà indotto dal Cristo aureo a far “civettare” la dialettica sulla TrennunglVereinigung di capitale e proletariato.

È un caso che proprio il traffico dei banchieri nnascimentali suggerisca a Nicola da Cusa l’immagine della mediazione possibile fra gli opposti dio e mondo? Sono prospettive forse inattese, per chi voglia leggere Nicola da Cusa senza porgli (e porsi) questioni, ma farebbe torto a un testo dialetticissimo e che merita di essere dialetticamente accostato. Anche con dialettiche diverse. Jung, per esempio, che converte (in maniera non molto remota da Feuerbach) la teologia in psicologia e si paragonava, a torto, a Meister Eckhart («che restò nell’oblio per seicento anni») asserisce: ¬Il religioso lo chiama Deus absconditus, il pensiero scientifico lo definisce inconscio».

«Ciò che gli uomini hanno sempre chiamato Dio, è semplicemente l’imperscrutabile». Ma anche per Jung (come per Hegel e Feuerbach), «l’inconscio può realizzarsi solo con l’aiuto della coscienza e sotto il suo costante controllo»; «senza l’aiuto dello spirito umano, l’inconscio è privo di senso!». Infatti, «ogni immagine che l’uomo si forma di Dio, è l’immagine psichica; cionondimeno è un’immagine, benché l’uomo assicuri mille volte che non lo è. Altrimenti egli non potrebbe anzitutto immaginarsi nulla. Perciò Meister Eckhart affenna con ogni ragione che Dio è un puro nulla».

Ma le letture dialettiche possono essere infinite, come dio; vige ancora la libertà di dialettica. A ciascuno, dunque, il suo deus absconditus! A me pare segnalabile, come dialetticarnente interessante, quel dio di Jakob Böhme (e non solo di lui!) che, per conoscersi, dal nulla della sua inseità, inizia un’immane, cosmica odissea, che culmina nel finale approdo all’uomo, condannato così a divenir dio, con tutti i fastidi che notoriamente questa trasmutazione comporta!

Milano 1992

tysm review
philosophy and social criticism

vol. 26, issue no. 27

august 2015

issn: 2037-0857

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