philosophy and social criticism

I viaggi di Lea

Loris Rambelli

 

Lea Melandri, Alfabeto d’origine. Memoria del corpo e scrittura di esperienza, Vicenza, Neri Pozza, «I colibrì», 2017, pp. 169, Euro 16,00

Alfabeto d’origine, cioè alfabeto d’infanzia: «Non potendo ripercorrere la strada di casa, un pensiero insofferente dell’esilio […] per le lingue mute che gli sono rimaste dentro si mette a cercare un alfabeto d’origine» (Lea Melandri, Alfabeto d’infanzia, «Lapis», 2, marzo 1988). Credo che non si possa parlare di questo libro se non per linee di sviluppo, e io ne scelgo una: quella del ritorno verso casa, tentativo che l’autrice (una delle protagoniste del movimento delle donne in Italia, residente a Milano, ma nata a Fusignano, in Romagna) ha compiuto per gradi, a tappe, lungo una strada lastricata di «schegge», di «frammenti di memoria», di pietruzze luccicanti sotto la luna, verrebbe da dire. Sono state dapprima le immagini della fotografa lughese Marina Guerra a portare alla luce tracce sepolte nella «memoria del corpo»: quando dalla «sponda bassa di un canale» saliva l’oscurità della notte e «nella perdita di orizzonte, la luce intermittente delle lucciole spostava il confine ogni volta più lontano dai luoghi famigliari» (Lea Melandri, Lugo di Romagna: percorsi della memoria, «L’Illustrazione Italiana», 39, febbraio 1987).

 

 

A indicare la possibilità di aprire un varco nel cerchio ostile di pensieri e affetti, ancora sulla difensiva, è stata poi la parola del poeta conterraneo Giuseppe Bellosi, che «ha saputo, in mezzo a studi e a occupazioni colte, aprire uno spazio ai suoi occhi di bambino»: «ma per la donna che ha sentito stringersi intorno alla sua infanzia i confini di un campo lavorato con fatica, consapevole che nessuno studio avrebbe aperto le porte di un destino diverso da quello naturale, la dimenticanza era un passaggio obbligato, e il silenzio della lingua che aveva parlato per prima necessario per poter riaprire la bocca altrove, in alri luoghi e per altra gente» (Lea Melandri, Il suono della voce, in Giuseppe Bellosi, E’ paradiṣ, Faenza, Moby Dick, 1992).

L’altrove è prima di tutto Milano, onnipresente scenario della «stanza dei pensieri»: «La città è rimasta per me […] il luogo dove si arriva da fuori, partendo dalla stazione di un paese. È questa distanza, mai colmata, che intenerisce i ritorni, che fa abbassare gli occhi sul degrado per aprirli subito dopo in un ritrovato, accogliente paesaggio mentale» (Lea Melandri, Amore e violenza, Torino, Bollati Boringhieri, 2011). L’altrove è poi la Sardegna, con le «ferite» rosate della sue scogliere e le «ferite» rossastre nelle scorze degli alberi sulla riva del mare. E qui, per completare la mappa dei percorsi di Lea, ripeschiamo un tassello dalla Postfazione a Manuela Fraire e Rossana Rossanda La perdita, Torino, Bollati Boringhieri, 2008: «Carloforte (Isola di San Pietro), 18 agosto 2007. Poco più di un anno fa è morta mia madre. Allora, come oggi, nuotavo nelle acque di questo mare che ha preso il posto della mia campagna di origine: nel desiderio, nella nostalgia, nella sorpresa di una felicità che si ripete inalterata a ogni ritorno».

Il mare di Sardegna, cui è in gran parte dedicata l’ultima sezione di Alfabeto d’origine, esplorato «da anni con l’attesa instancabile di strappare ai suoi fondali il passato sepolto in una lontana terra d’origine», sembra finalmente concedere la rara felicità di sentirsi in armonia fra presente e passato. Il volume è diviso in quattro sezioni e raccoglie scritti «nati in momenti e con finalità diverse»; ma mentre le prime tre comprendono testi già pubblicati (in un ampio arco di anni, dal 1987 al 2017), l’ultima, purtroppo brevissima, quindici pagine in tutto, è composta di inediti.

Sono frammenti lirici, versi, appunti sparsi, 1983-2017, ma con prolungate pause di silenzio, raggruppati in tre sottosezioni Diario del tempo presente, Istantanee di mare e Passaggi. Queste «schegge» aprono nuovi spiragli nell’articolata e complessa produzione saggistica dell’autrice, che in un articolo su Freud, L’avventuriero dell’anima, «Queer», 58, 7 maggio 2006, ha osservato che forse tutte le creazioni del pensiero, scientifiche o non scientifiche, «procedono con un movimento analogo che è allentamento di difese, abbandono al fantasticare, defluire di frammenti, sprazzi di idee, da cui emerge un messaggio inatteso». Eppure, oltre lo stupore della sorpresa, queste «schegge» non appaiono del tutto sconosciute alla memoria del lettore, che ha l’impressione di averle già intraviste nelle giacitura di altre prose, di averne già avvertito la presenza o la risonanza, sfuggite al controllo della penna «nell’attardarsi e ritornare della mano sulla pagina scritta» (Melandri 1988 cit.).

L’illustrazione di copertina, con l’eleganza che contraddistingue le edizioni Neri Pozza, riproduce un dipinto di Vanessa Bell, sorella maggiore di Virginia Woolf, e rappresenta due bambine che, immerse nella lettura, sembrano dimenticare le bambole ammonticchiate accanto a loro sul divano: l’immagine è una sorta di introduzione visiva a quel misterioso alfabeto d’origine, che, mediato dalla cultura, Lea Melandri ha cominciato a riscoprire cautamente, come abbiamo visto, e, come si legge nella presentazione editoriale al primo risvolto di copertina, «per interposta persona».

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