Il paradosso della produttività
Christian Marazzi
È un vero e proprio rompicapo quello della produttività che resta piatta, cioè non aumenta, malgrado le innumerevoli innovazioni tecnologiche che da anni ormai pervadono le nostre economie. Dall’esplosione del computer personale all’inizio degli anni ’80 alla odierna digitalizzazione dei processi produttivi, distributivi e comunicativi, non c’è ambito del nostro spazio vitale che non sia in qualche modo toccato dalle nuove tecnologie informatiche. Già nel 1987, il premio Nobel per l’economia Robert Solow se ne uscì con una domanda che, a tutt’oggi, mantiene tutta la sua pregnanza: “si possono vedere computer dappertutto, tranne che nelle statistiche sulla produttività”.
Recentemente, un altro economista, Robert Gordon, ha sostenuto che il crollo della produttività a fronte della tanto celebrata rivoluzione informatica, è sintomo, per quanto paradossale, non di innovazione, ma più logicamente di stagnazione tecnologica. I veri progressi epocali, secondo Gordon, sono stati altri, dall’acqua corrente e dall’elettricità alla combustione interna, ai motori a reazione, agli ascensori che hanno ridisegnato le città. A confronto, l’effetto positivo dell’instant messaging e dei videogames sulla produttività e sul tenore di vita sono risibili.
Un altro modo di darsi una ragione di questa stagnazione della produttività è quello di partire dalla definizione stessa di produttività. La produttività è data dal rapporto tra il cosiddetto output, il Prodotto interno lordo, e le ore di lavoro (input) necessarie per la sua produzione. Il vero problema sta proprio nel calcolo del Pil, dato che i processi di digitalizzazione fanno scomparire tutta una serie di attività che continuiamo a fare ma che però non lasciano tracce monetarie. Un numero crescente di attività che una volta erano svolte da personale stipendiato, oggi siamo noi ad effettuarle gratuitamente con i nostri computer o Iphone. Dai pagamenti bancari all’acquisto dei biglietti del treno, alla riservazione del volo aereo, ormai la tendenza è quella di esternalizzare sulle nostre spalle attività un tempo remunerate. E questo ha una chiara conseguenza: il famoso Pil, che include solo le attività remunerate, non cresce come dovrebbe a causa dell’aumento dell’area di lavoro gratuito. Di conseguenza, anche la produttività, statisticamente parlando, non aumenta.
Per non parlare di tutte quelle attività che, consapevoli o meno, sono alla base della produzione di dati personali, quei dati che, stockati nei famosi big data, vengono poi utilizzati per produrre le macchine intelligenti, i robot, che piano piano si prendono il nostro posto di lavoro.
In entrambi i casi, sempre di lavoro si tratta, ma di lavoro gratuito che, in quanto tale, scompare dalle statistiche del Pil e della produttività. Ed è bene tenerlo presente quando, ad esempio, si calcola il salario minimo con piglio contabile, trascurando però tutto il lavoro che sempre più siamo chiamati a svolgere senza alcun riconoscimento economico.
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philosophy and social criticism
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