philosophy and social criticism

Il problema degli opposti. Intervista con Mario Perniola

Marco Dotti

Gli uomini hanno i riflessi lenti. In genere – osservava il polacco Stanislaw Jerzy Lec – comprendono le cose solo nelle generazioni successive. Parte da qui, dall’ironica e amara constatazione di Lec posta in esergo al suo ultimo libro, Miracoli e traumi della comunicazione (Einaudi, Torino 2009), la riflessione di Mario Perniola sul «flusso ininterrotto» di una comunicazione che, nella seconda metà del Ventesimo secolo, ha imposto i suoi ritmi fino a identificarsi con una precisa forma di vita determinata più dal “sentire”, che dal’ “agire”. Come raccontare, si chiede Perniola, il periodo che va dalla fine degli anni Sessanta a oggi? Come confrontarsi con la doppia destabilizzazione, drammatica e al tempo stesso ridicola, che segna e travolge ogni soggetto in un’era di comunicazione integrale?

In Miracoli e traumi della comunitazione, il discorso si sviluppa attorno a «eventi matrice» che hanno segnato immaginario e vita delle società del dopoguerra. Può accennare a questa suddivisione, spiegandocene le ragioni?

Agalma

Il numero 18 di Agalma, dedicato da Mario Perniola alle "Strategie del bello".

Il filosofo e lo storico sono simili al sarto: la difficoltà consiste nello scegliere e nel tagliare. In Miracoli e traumi della comunicazione si possono dunque individuare tre tagli. Il primo taglio va dalla fine della seconda guerra mondiale all’Ottobre del 2008 ed è relativo, quindi, all’egemonia politica delle cinque potenze che hanno vinto la guerra e loro sostanziale connivenza, dovuta al quasi monopolio del potenziale atomico e ai cinque seggi con diritto di veto all’Onu. Quest’ordine comincia a incrinarsi con il crollo dell’economia mondiale. Veniamo al secondo taglio: io lo individuo nel periodo dal 1968 al 2008,  periodo da intendersi come età della comunicazione massmediale. Il discorso politico moderno, che aveva retto e mantenuto una sua credibilità fino agli anni Sessanta, viene allora sostituito dall’infantilizzazione e dalla futilizzazione massmediatica delle popolazioni, secondo un processo che Ortega y Gasset aveva individuato già nel 1925 nel suo saggio La disumanizzazione dell’arte. La cultura  è stata  alla periferia dell’esperienza umana. Ora è diventata prossima agli spettacoli, ai giochi o addirittura agli sport e l’intero Occidente è entrato nella fase della puerilità.  Terzo punto. All’interno di questi quarant’anni, 1968-2008, si possono osservare quattro momenti diversi che andrebbero letti attraverso le nozioni di contestazione (anni Sessanta- Settanta), di deregolamentazione (anni Ottanta), di provocazione (anni Novanta) e di “valutazione” (dal 2001 in poi). In quest’ultimo caso, non bisogna lasciarsi ingannare dalla promessa che l’età della valutazione possa aprire un’epoca in cui i meriti saranno riconosciuti. La parola «meritocrazia» è l’ultimo trucco dellaa comunicazione: essa rimane inseparabile dal significato peggiorativo di chi l’ha inventata, il politico inglese laburista Michael Young che nel 1958 prendeva di mira una società in cui una minoranza di privilegiati di avvaleva di criteri di selezione tendenziosi e settari per impedire l’ascesa sociale di quanti erano sfavoriti dal fatto di appartenere alle classi inferiori.

Nel  libro si fa più volte riferimento all’imperante «regime di storicità» che lo storico François Hartog non ha esitato a definire «presente  assoluto». [1]  Quali sono gli effetti di questo presente onnipervasivo e «onnipresente» sulle nozioni di memoria, comunità, società… E sulla nozione – mediaticamente inflazionata -di “crisi”?

Queste nozioni rischiano di essere fuorvianti perché non adeguate a descrivere la situazione attuale. Memoria: a partire dal momento in cui la commemorazione è più importante dello studio e dell’interrogazione sul significato dell’evento commemorato, il compito dello storico viene ridicolizzato. Comunità e società: sono concetti elaborati dal sociologo tedesco Ferdinand Tönnies nell’opera Comunità e società, opera che risale al 1887. Tönnies contrapponeva la prima, Gemeinschaft – comunità intesa come organismo vivente, che implica una profonda convivenza sentimentale, intima ed esclusiva, basata  su esperienze comuni di natura emozionale – alla seconda, Gesellschaft, intesa come un organismo artificiale, in cui gli individui rimangono separati e sono collegati tra loro unicamente da interessi e da rapporti contrattuali.  Se usati in questi termini, gli schemi sono fuorvianti e non semplicemente in crisi. La nozione di crisi, d’altronde, quanto meno nell’uso comune, implica che vi sia  guarigione, o almeno un miglioramento. Ma come diceva Edward Gibbon a proposito del declino dell’Impero romano: «Ci vuole molto tempo perché un mondo perisca – ma niente di più».

A proposito di “crisi”, si discute molto di “apocalissi”, di declino, di  scontro (o shock) di civiltà, e via discorrendo. Quale è la sua posizione?

Io non sono, né sono mai stato, affatto un “apocalittico”. Tutte le cose hanno una fine e solo attraverso questa se ne comprende il senso. Come dice Kant: «Infine deve pur cadere il sipario. Perché alla lunga  diverrebbe una farsa; e se gli attori non se ne stancano perché sono pazzi se ne stanca lo spettatore, che a un atto o all’altro finisce per averne abbastanza se ha ragione di presumere che l’opera, non giungendo mai alla fine, sia eternamente la stessa». È proprio questa fine che consente la possibilità dell’inizio di qualcosa d’altro: si può cominciare una nuova esperienza solo a condizione che quella precedente sia conclusa.

In che senso parla di “miracoli” e “traumi”? Crede che le generazioni del secondo dopoguerra siano generazioni senza traumi (e forse con troppi “miracoli”)?

Non traumi, ma tragedie; non miracoli, ma trionfi. È sparito l’universo del “serio” e, con esso, la possibilità stessa dell’azione. Tutto è ridotto ad una immediatezza insensata, come nelle opere buffe di Mozart e di Rossini…

Marshall McLuhan parlava di numbing effect, definendolo come amputazione affettiva e del sentire, alla quale si accompagnerebbe l’innesto di una sorta di protesi esterna, un mezzo (ieri e oggi la televisione, oggi e domani internet) simile a un “arto fantasma” capace di “collettivizzare” emozioni e sentimenti, facendo paradossalmente sentire anche ciò che in realtà non si sente…

Ho affrontato questo argomento nel mio libro Del sentire (Einaudi, Torino 2002), di cui è uscita l’anno scorso la traduzione spagnola e nel prossimo mese uscirà la traduzione tedesca. Che cosa accomuna fenomeni molto lontani tra loro come il neo-fanatismo e il neo-scetticismo, il fondamentalismo e il nichilismo? Io direi che la comprensione di questi fenomeni deve rimontare a un fenomeno più grande: alla fine del Novecento si è affermato un nuovo tipo di potere, la sensologia. Questo potere impone un universo affettivo impersonale, caratterizzato da un’esperienza anonima e reificata, nella quale tutto si dà – per così dire – come già sentito. In altre parole, le ideologie erano connesse con l’azione, le sensologie con la comunicazione. Estinte le prime, rimangono le seconde.

Con quella dell’azione sembra finita anche  l’epoca delle contrapposizioni, dialettiche o antagoniste. Anche il principio di non contraddizione non rientra più nei codici dei media, dove ogni cosa, specie se opposta o contraria, viene “colonizzata” e dispiegata in un continuo gioco di specchi…

L’epoca delle dialettica è finita  da un pezzo. Restando nell’ambito della filosofia italiana, Umberto Eco nel Trattato di semiotica generale (Bompiani, 1975) discuteva la distinzione  di origine aristotelica, secondo cui gli opposti sarebbero: a) correlativi  o conversi (quando non si escludono, ma si richiamano l’uno all’altro; esempio: marito-moglie, comperare-vendere); b) contrari (quando esiste la possibilità di un medio termine; esempio: ricco-povero, bianco-nero); c) contraddittori (quando non è possibile via di mezzo; esempio: mortale-immortale, essere-non essere).  Invece di privilegiare uno di questi tipi di opposizioni, Eco sosteneva che, a seconda dell’asse semantico in cui è inserito, la stessa opposizione può essere correlativa, contraria o contraddittoria Per esempio, l’opposizione ricco-povero considerata come contraria, diventa correlativa se penso che la ricchezza di uno è il risultato della povertà dell’altro o contraddittoria se povertà e ricchezza sono stabilite dalla provvidenza! La struttura dello spazio semantico perciò non è retta dalla contraddizione, né dalla polarità  I fenomeni  culturali sono il luogo di una combinatoria, di una pluralità di  legami che non possono essere ridotti ad un solo tipo. Qualche anno dopo Eco, anche Remo Bodei in Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno (Einaudi, Torino 1987) osservava che nessun esito dicotomico o settario sia considerato accettabile e che le strategie di avanzamento,  proposte da Croce e da Gramsci, caratterizzate da una forte energia dialettica, hanno concluso il loro ciclo storico.

Il fatto è che già da più di un secolo è stato pensato un altro tipo di opposizione maggiore di quello dialettico: quello del conflitto asimmetrico. Tra i primi a intuirlo sono stati Nietzsche e Freud: basti pensare al rapporto tra coscienza e inconscio. Quest’ultimo è per definizione inaccessibile, non può apparire sulla scena come una entità oppositiva. È ovvio che a partire da questo momento, nulla è come appare. Tornando al discorso sui media, direi che il compito non solo del giornalista, ma di ogni intellettuale è scoprire il rovescio del tappeto, senza farsi invischiare negli pseudo-conflitti che il mondo della comunicazione mette in scena continuamente.

Note

[1] François Hartog, Regimi di storicità. Presentismo e esperienze del tempo, trad. di Leonardo Asaro, Sellerio, Palermo 2007.

[Intervista apparsa su Vita, con il titolo “Sensologia, il nuovo nome del potere”, il 25 settembre 2009]

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