philosophy and social criticism

L’arte della sua vita

Sergio Bologna

Vorrei che coloro che hanno conosciuto Grazia Cherchi mi aiutassero ora a pensarla e a dire che cosa è stato di straordinario questa donna per noi e quale è stata l’arte della sua vita. Dico per noi per dire, innanzi tutto, quel gruppo di “intellettuali” che si riunirono sotto la testata dei “Quaderni Piacentini” per più di vent’anni. Si riunirono oppure è stata lei, forse più ancora di Piergiorgio Bellocchio, a riunirci, a tessere una rete lasciando a ciascuno la propria lontananza dall’altro? Davvero un’arte, se si pensa a quanto sia difficile spingere questa maledetta razza di intellettuali di sinistra, vanitosi e incostanti, passionali e depressi, a presentarsi collettivamente, nudi con le loro scarse idee, senza scudi di parrocchia o di partito.

Grazia non chiedeva articoli, non proponeva contributi, non faceva le moine, non imponeva un’autorità editoriale, Grazia leggeva e ascoltava, coglieva un percorso mentale, forse un percorso di cui lo stesso interlocutore non era consapevole e diceva “fermati qui, vai avanti”. Ma una volta colto il bandolo della matassa, non mollava la presa, con una discrezione e una pazienza infinita aspettava i momenti di pausa, tollerava i ripensamenti, per poi far piazza pulita di menate e di ghiribizzi e allora sì mostrare autorità, sicurezza nel giudicare un testo ormai quasi concluso, nel tirar fuori matita rossa e blu, nel proporre modifiche, nello sbeffeggiare cadute di stile. Ma se qualcuno ci teneva a far le figuracce, rispettava anche quelle.

La frase “rispetto per gli altri” a poche persone bene si addice quanto a Grazia Cherchi. Era la sua caratteristica peculiare, la più evidente. Tuttavia credo che la sua arte maggiore non fosse questa ma il saper condurre diversi percorsi a intrecciarsi tra loro senza confonderli, sovrapporli, impastarli. L’arte di preservare le lontananze, ho detto e non so come spiegarlo meglio. L’arte di comporre una rete senza ficcarci sopra un’insegna, un cartello, un titolo, l’arte di tessere una ragnatela che restava invisibile nei suoi meccanismi interni, di cui lei sola sembrava conoscere i leganti.

Così cominciava il rapporto e per molti magari, per me almeno, avrebbe potuto anche fermarsi lì, un rapporto cordialone fin che si vuole, ma professionale. Grazia invece sapeva trasformarlo in amicizia e diventava quindi una compagna di strada dei nostri sentieri mentali; anche a distanza di tempo, dopo mesi che non ci si vedeva, mostrava di conoscerli, di ricordare perfettamente dove eravamo arrivati insieme e quindi poteva riprendere il filo del dialogo interrotto. E’ solo quest’arte che ha fatto di “Quaderni Piacentini” quel manufatto culturale irripetibile, ossia un luogo comune di forti diversità, di storie intellettuali e disciplinari completamente diverse – ma senza essere una rassegna, un reading, una tavolozza. Un progetto di rinnovamento mentale, che qualche cosina nella storia della cultura del dopoguerra ha pur saputo rappresentare.

Nella cultura politica, è questo il punto.

Con Grazia non si parlava quasi mai “di politica”, almeno così a me è capitato, se non per riderne, con Grazia si parlava di percorsi culturali che alimentano la passione civile, di territori dove ricostruire una civitas opposta al mondo nel quale la politica sembra essere l’arte della disgregazione sociale e dell’esclusione, al mondo nel quale la cultura o è ancella dell’ideologia o è viennoiserie, un pasticcino che si assapora con il tè delle cinque. Era difficile con lei, se non impossibile, spettegolare, trattare le idee e le persone con la frivolezza propria dei cenacoli intellettuali di sinistra.

Ma v’immaginate Grazia Cherchi aprire un salotto? Si andava a cena e si cercava di mangiar bene e di bere ancor meglio ma la cultura o passava al vaglio del suo essere lievito della cittadinanza o era meglio non parlarne, o era parola dei deboli, degli esclusi, dei ribelli, degli stravaganti, dei fuorilinea o era meglio andare a pescare.

Rispetto per la cultura, certo, quel rispetto che oggi sembra perduto del tutto e che, se ci si pensa bene, è un tutt’uno col rispetto per gli altri. Così la ricordo negli anni Sessanta, così l’ho ritrovata qualche mese fa dopo un decennio che ci eravamo persi di vista.

Ma Grazia Cherchi come donna, come persona, chi era? Non lo so. Non ho mai conosciuto un essere che sapesse chiudere le porte dei propri sentimenti con sigilli così impenetrabili, dando una sensazione di durezza, di severità che era difficile da interpretare e da mettere d’accordo con la sua produzione di societas. Timidezza, superbia, che cosa? La risposta l’ha data lei stessa con il modo con cui ha voluto morire. Si è tenuta dentro il cancro senza permettere alla medicina d’intervenire a cambiarle la vita, forse a salvarla. Ha tenuto all’oscuro molti dei suoi amici più cari e gli stessi parenti e quando, ormai troppo tardi, ha accettato di farsi operare ed ha saputo che era tardi, molto tardi, ha voluto che pochissime persone le dessero sostegno nel suo cammino verso la morte.

Mi dicono che, poche ora prima di spirare, alla suora che le prendeva la mano e le chiedeva, “Grazia, come stai?” lei rispondesse: “Meglio, se lei mi lascia la mano”. Così, questa donna che tanto si è messa a disposizione di altri ha voluto riservare solo a se stessa, e interamente per se stessa, la solitudine.

[da il manifesto, 23 agosto 1995]