philosophy and social criticism

Ninive ossessionata dalla sua sicurezza. Rileggendo Ellul

Marco Dotti

«Ninive è città di sangue», scriveva Jacques Ellul. Dubbi non ve ne sono, d’altronde, per chi presta fede alle parole del profeta Nahum e al suo oracolo biblico di catastrofe: «Guai alla città sanguinaria, piena di menzogna e di violenza, che non cessa di depredare». In Ninive, «il legame fra la città e la guerra è portato al suo punto più alto». Così commenta Jacques Ellul, tra le pagine di Sans feu ni lieu. Signification biblique de la Grande Ville, scritto nel 1951, pubblicato negli Stati Uniti nel 1970 con il titolo The Meaning of the City e solo cinque anni dopo dato alle stampe anche in Francia.

LA CITTÀ BIBLICA – intendendo così quella che rientra nel discorso del Libro – non è un luogo di «maggior densità abitativa», come si direbbe oggi, più popolato del villaggio, ma uno spazio a sé, fortificato, chiuso. Che cosa distingue, dunque, una città – in ebraico qiryah – da un villaggio? La distingue ciò che la divide: la presenza di mura. La più antica città della Palestina, edificata forse 8000 anni prima dell’evo volgare, Tell es-Sultan, è stata identificata con la Gerico dell’antico Testamento. Non a caso, anche nel nostro immaginario Gerico è sinonimo di alte mura. Mura sono sinonimo di assedio: Gerico fu espugnata al suono delle trombe (Giosuè 6,26), anche se al tempo di Giosuè le mura attorno alla città pare non esistessero più. Per Ellul questo è un segno: quelle mura devono comunque, sempre cadere. Anche perché non sono mura materiali. Sono mura dello spirito, poiché all’origine del gesto che fonda, cingendola, la Città c’è un gesto contro Dio.
Abele era nomade, il suo assassino Caino viene condannato a errare in eterno per portarne su di sé la traccia. Caino è però il primo personaggio simbolico, nella Bibbia, a fondare una città. In questo, è ancora un trasgressore. Le mura contengono il suo impulso nomade, tentano di ancorarlo al suolo. Sedentarizzandolo incrementano, dirà un autore citato da Ellul (Alexander Mitscherlich, Psychanalyse et urbanisme, Gallimard 1970), un generale impulso di morte. La città di cui Ninive è modello è ossessionata dalla sua sicurezza, spiega Ellul. Ossessionata dal fuori, finirà per crollare a causa di ciò che si agita dentro le sue mura.

SE CAINO È IL PRIMO a tentare di ricostruire il paradiso in terra, Nimrod, il re fondatore di Ninive, è il suo erede. Dopo la costruzione della Torre di Babele, secondo il racconto di Genesi, Nimrod edificò Ninive.
Per questo, secondo Ellul, tutte le città sono maledette, costrette a perdersi anzitempo nella propria rovina: «tutte le città prendono origine dall’atto di Caino. Tutti i fondatori sono figli di Caino e ne riprendono il lascito».

Caino è per la lettura metastorica di Ellul il primo uomo che, col suo gesto omicida e il suo gesto fondativo di un sapere, trasforma «l’homo proto sapiens in homo faber». Possiamo dire, aggiunge, che «prima di lui, non ci fosse che Dio. Ma dio è diventato, col gesto di Caino, colui che non è più adeguato alla vita, alla volontà, al pensiero dell’uomo».
Nel Libro di Nahum, la città di Ninive è, come l’egiziana Tebe (No-Amon, la città de dio Amon) adagiata sulle rive del Nilo, campo di forze avverse. Forze contrarie alla giustizia. Come Tebe, caduta nel 667, anche Ninive cadrà (probabilmente nel 612). Per la gioia dei popoli dell’Asia minore.

Città della Mesopotamia a nord di Assuer, fra l’alto corso del Tigri e il fiume Khusur, proprio di fronte alla moderna Mossul, Ninive era la capitale degli Assiri. La più ricca, la più prospera. La più odiata. Gli immensi tesori accumulati a Ninive provenivano dal saccheggio di altre città conquistate. Anche se posta al cuore di un impero gigantesco, Ninive non fu mai Babilonia. Mai ne svolse il ruolo culturale. «Babilonia non è una città. Babilonia è la città. Babylone la Grande. The biggest in the World», scrive Ellul. Nemmeno Roma la eguaglierà in potenza simbolica. Babilonia è «il centro della civilizzazione e, quando scomparve, scomparve la civilizzazione, scomparve un mondo». In qualche modo evocava il mondo di questa potenza simbolica, Jean-Luc Godard, quando in una memorabile intervista del maggio 2004, parlando del conflitto contro l’Iraq, nella cosiddetta Seconda guerra del Golfo, rimarcava: «sapete perché gli americani sono andati in Iraq? L’inconscio del governo sa che laggiù si trova una civilizzazione, la civilizzazione sumera. E questa gente che non ha storia, solo duecento anni, cerca delle nicchie. Allora va in Iraq, non per il petrolio, ma per i sumeri». Per completare l’opera, per distruggerne la traccia: la scrittura. Ninive versus Babilonia, insomma.

NINIVE, SCRIVE ELLUL, è il centro spirituale di una guerra permanente, «sintesi della guerra», così come Babilonia era stata «sintesi di civilizzazione». Il nostro universo simbolico si muove fra questi due estremi, entrambi forme di «manifestazione della potenza dell’uomo».
Così, forte delle sue armate «Ninive può dire: ’io, nient’altro che io’» innestando un circolo vizioso: la sedentarizzazione. Per Ellul, questa sedentarizzazione urbana racchiude in sé un germe di guerra: la città è la guerra e la guerra è città. Non si tratta, per Ellul, di una questione sociologica o storica, a Ninive si condensa un problema – diciamo così – spirituale: «gli uomini che fanno parte di questa città sono inglobati nel proprio destino. Ciò che è sanguinario a Ninive è che gli uomini non siano altro che i suoi soldati, i suoi mezzi, le sue cose. Potenza della città sull’uomo».
Ecco perché, nel luogo di Ninive, a Ellul la città appare «luogo di guerra materiale, ma anche di una guerra spirituale». La città, scrive Ellul, è «luogo di non-comunicazione fra gli uomini», ma anche «luogo dove si nasconde l’immensa ironia di Dio». Per questo, accanto alla città distrutta Ellul fa emergere – come chiave per capire il moderno – la «città mai finita», città anch’essa distrutta ma dalla sua mancanza di costruzione: semplicemente, gli uomini smettono di edificarla. E con le loro mani danno compimento a ciò che è già in nuce in ogni gesto fondatore: la distruzione.

CI SONO TANTI MODI per guardare una città. Ancora più ve ne sono per riconfigurare, fosse pure simbolicamente, macerie e voci di una città scomparsa. Per le città del Libro, tutto va dalla storia al mito in attesa di un inevitabile ritorno. Jacques Ellul sceglie questa prospettiva e uno sguardo teologico. Prospettiva che a uno dei suoi critici più feroci, Harvey J. Cox, apparve compromessa da una fin troppo marcata matrice calvinista.

Ellul, «Dio ha maledetto le città?», si chiedeva Cox, docente all’Harvard Divinity School, pastore battista nonché autore di un saggio che ha fatto epoca, The Secular City. Secularization and Urbanization in Theological Perspective (1965; traduzione La città secolare, Vallecchi, ’69) e, di recente, di The Market as God(Harvard University Press, 2016). Ellul rispose che Cox non aveva capito e andò per la sua strada: la maledizione divina, specificò Ellul, non cade sugli uomini, ma sulla manifestazione di potenza della Città. Non esistono, in questo senso, Città di Dio se non per il fatto che le città sono «sempre» di Dio. La vittoria di Dio sarà ancora una città. Non esistono, in questo senso, città secolari se non nel senso – a trovarne uno – che emerge dalla giustizia delle loro macerie.

QUESTE RINVIANO all’altra Città, quella celeste, forma-formante del convivere e non del dividere. Disperazione senza prospettiva o disperata prospettiva profetica, quella di Ellul? Se di disperazione profetica si tratta va interpretata, dice Ellul, nella chiave di a una speranza più alta. Qualcosa che porti all’«affermazione della speranza più radicale».
Ninive, non a caso, appare anche al cuore di un libro che parla di speranza. Mai citato da Ellul. Se pure Ni feu, ni lieu abbonda di citazioni bibliche, non si trova alcun passaggio in quel singolare-profetico che è il Libro di Giona ( al quale Ellul dedicherà, però, nel 1952 un commentario).
Libro che – a seguire Gershom Scholem – è esso stesso una domanda sull’annuncio di giudizio e la speranza più radicale, ovvero sul punto dove il diritto si muta in giustizia e, in tal senso, quel Libro «contiene la chiave per la comprensione dell’idea profetica in generale» (G. Scholem, Giona e la giustizia, in ID. Giona e la giustizia e altri scritti giovanili, a cura di Irene Kajon, Morcelliana, 2016).

Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato al punto da invocare la morte!». Ma Dio gli rispose: «Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?».

Fonte: il manifesto, 15 agosto 2017

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