Tre mesi di febbre
Gary Indiana
A meno di essere personalmente coinvolti, l’aspetto più spaventoso della vicenda di Andrew Cunanan consiste nell’assurda proliferazione di notizie di cui essa fu oggetto dopo l’omicidio di Gianni Versace. L’assassino, prima ignorato nonostante la scia di cadaveri che aveva seminato da Minneapolis al New Jersey, divenne improvvisamente un’icona diabolica nel circo delle celebrità americane, tanto che tutti i “fornitori di notizie” presero a riportare ogni più piccola informazione su di lui, vera, falsa o un po’ uno un po’ l’altro, come si trattasse di una certezza sensazionale. In misura spropositata, con assai scarsa o addirittura nessuna attenzione per l’attendibilità, la vita di Cunanan venne trasformata da quel che in realtà era, ovvero un’esistenza per certi versi intensa e deprimente ma piuttosto normale, in una sorta di sceneggiatura piena di cattiveria, tipica dei giornali scandalistici: sesso riprovevole, traffico di stupefacenti, prostituzione, ecc. Il personaggio pronto all’uso del serial killer, familiare a gran parte degli americani, fu il prodotto di speciosi resoconti su Cunanan bambino che uccideva piccoli animali. Innocue osservazioni fatte o meno da persone che forse l’avevano conosciuto o forse no, chiacchiere origliate da camerieri di ristorante e una portentosa citazione di Luigi XV nell’annuario scolastico furono date alle stampe e consegnate all’etere a riprova che Andrew Cunanan era effettivamente un sociopatico, un altro portatore della “maschera della normalità” che ci era passato giusto accanto, in questa società precaria in cui nessuno conosce nessuno, se non va a cercarselo.
Si potrebbe utilmente argomentare che molti dei personaggi più amati dalla società americana, i cosiddetti modelli funzionali, dai Chief Executive Officer alle stelle del cinema, inclusi alcuni di coloro che più intensamente piansero la morte di Versace dopo i fatti, potrebbero essere definiti senza difficoltà sociopatici, vittime di una cultura del presentarsi sempre e comunque e con qualsiasi mezzo in modo autoesaltante, quella cultura che a sua volta si è sovrapposta, alcuni anni fa, alla cultura del narcisismo. L’America adora il sociopatico di successo. La nostra non è tanto una società in cui nessuno conosce nessuno quanto una società in cui solo ai personaggi celebrati dai media si concede vera esistenza. Lasciando perdere questo aspetto, sono rimasto sbalordito nello scoprire, subito dopo avere iniziato le ricerche per il libro, che gran parte di quanto venne riportato aveva una relazione a dir poco fantasiosa con la realtà. Verrebbe da dire che gli aspetti della vicenda sottolineati con più insistenza erano il prodotto allucinato o comprato di persone che solo con molta generosità si possono definire testimoni attendibili. Persino il giornalista meno scrupoloso deve avere provato non poco impaccio di fronte all’intrico incredibile di fandonie che Cunanan seminò su se stesso. Quando Cunanan divenne una celebrità dei media, qualcuno diceva a qualcun altro ciò che Cunanan gli aveva detto, salvo scoprire che si trattava di qualcosa che egli si era inventato chissà quando. Persino gli episodi meno contestabili e riferibili ai mondi particolari in cui Cunanan abitò, erano e sono in definitiva impossibili da verificare, e ciò per varie ragioni. In larga parte, essi riguardano il tipo più privato e rigorosamente protetto di relazione tra persone che sono quasi all’opposto dei personaggi pubblici. Qualcosa, poi, nella natura stessa della vicenda produsse un’impenetrabile reticenza proprio tra coloro dai quali ci si aspettava una qualche fruttuosa illuminazione.
C’era, secondo me, qualcosa in Andrew che rendeva ciò che lui faceva, agli occhi di chi lo conosceva, sorprendente e assolutamente prevedibile allo stesso tempo. Nel corso della mia vita ho conosciuto cinque assassini (ovvero cinque di cui so che sono tali), due dei quali sono comprovati serial killer. Con una sola eccezione, li ho conosciuti prima che uccidessero o prima che i loro crimini venissero scoperti. In altre parole, li ho conosciuti come persone normali e non come autori di uno o più omicidi. Per quanto abbia vissuto una vita più intensa di molte altre persone, ho il sospetto che questa non sia affatto una circostanza così strana. Come ha detto una volta Gore Vidal, per vedere la faccia di un killer, basta guardare in un qualsiasi specchio. Ci sono persone profondamente criminali che non uccideranno mai nessuno e persone per bene che un bel giorno si mettono a sparare all’impazzata con un AK-47. Fino a quando non perde la testa, chiunque sembra inserito entro un orizzonte ordinario, qualche volta in modo eccentrico o disturbato, qualche volta no. Per due decenni, siamo stati sommersi da storie di serial killer (in particolare in forma di saghe su “fatti accaduti veramente”), le quali invariabilmente esponevano in maniera compiuta il quadro patologico di un qualche scellerato individuo per poi rassicurarci che c’erano “segnali di avvertimento”, che prestando ad essi la giusta attenzione nelle prime fasi, la società può prevenire gli omicidi in serie e tutto ciò che di spiacevole ne consegue. E interessante notare che Cunanan non subì traumi infantili, né manifestò da bambino quei comportamenti esagerati che gli esperti qualificano come tipici del serial killer. E, fatto ancora più interessante, da adulto mostrò pure di avere qualche rotella fuori posto e in molti lo notarono e spesso lo trovarono un fatto divertente. Cosa dobbiamo quindi concludere suglii esperti? O sulla vita? Nei giorni più drammatici, quelli tra l’assassinio di Versace e il suicidio di Cunanan, quando il paradigma del serial killer si rivelò inadatto al caso, una pletora di ammuffiti “criminologi” appariva con cadenza oraria sui notiziari via cavo affannando una qualche ingegnosa sintesi tra il «classico assassino seriale» e il «classico assassino in preda a raptus». Cunanan Cunanan sembrava una minaccia non tanto per il grande pubblico quanto per i consueti modelli narrativi e le loro pretese di classicità. Egli mal si adattava al modello «raptus» e finè per diventare la somma di due cose a cui non somigliava affatto.
* * *
È plausibile che Andrew Cunanan avesse svolto una mole notevole di ricerche sul mondo dei ricchi, per infilarsi tra loro senza difficoltà e per riconoscere con la facilità di chi in quel mondo è nato il ciarpame di lusso che tanto spesso riempie le loro vite e le loro abitazioni. I ricchi sono diversi da noi, sicuramente diversi da lui, Andrew. Come per una sorta di magico incantesimo contro la morte, i ricchi addobbano case, aerei privati e residenze stagionali con versioni incredibilmente preziose e intimidatorie degli oggetti quotidiani che tutte le persone normali posseggono: piatti, posate, mobili, sciacquoni. Riempiono ogni spazio disponibile con qualsiasi oggetto esteticamente immaginabile e inimmaginabile, creando un’aura di soggezione e grandeur attorno all’invisibile e freudiana massa fecale che rende tutto ciò possibile. Il senso di horror vacui del ricco è la forma di vodoo contro neoplasie, episodi coronarici, insufficienze renali, amputazioni diabetiche, tumori alla prostata, ictus ,bandati con disturbi mentali che inevitabilmente arrivano, vodoo o non vodoo, esattamente al momento giusto in qualsiasi vita tranne che in quella di Leni Riefenstahl.
* * *
La sceneggiatura, però, era già impostata da tempo. Almeno dai giorni dell’assassinio di Kennedy: la persona più importante del mondo abbattuta dalla persona più infima del mondo. Per un notevole lasso di tempo, a partire dal processo Menendez, l’espansione via cavo dell’offerta informativa aveva ridefinito la rotazione di questo genere di storie fino a creare uno stato di provocatoria ridondanza, fino a indurre la richiesta di una “conclusione” che era al tempo stesso l’adamantino rifiuto di qualsiasi “conclusione”. Era tutto un apparire di figuri ipereccitati, in genere avvocati, in questo caso psicologi e esperti dell’industria della moda. Il pubblico ora doveva ingoiarsi gli encomi dei pubblicisti di moda e delle supermodelle, per i quali l’elogio più grande sembrava essere quello di dire che il defunto aveva “vissuto come un imperatore romano”, la denigrazione peggiore che Andrew Cunanan, l’assassino, era un solo un poveraccio di esagerate ambizioni, uno dei milioni di nullità senza volto che non potevano vivere come un imperatore romano. In altre parole, non potevano vivere come Tiberio o Caligola o Nerone. Al contrario. Andrew e quelli come lui “saccheggiavano i ricchi” i quali, secondo la sceneggiatura, diventavano così la crema del genere umano e Versace era il più cremoso di tutti, un esempio tra i più alti di cosa potesse essere il sistema della libera impresa. «Posso spendere tre milioni di dollari in due ore», fu una citazione colma di approvazione di People. «Un giorno vado a fare acquisti a Parigi per la mia casa di Miami. Poi alla sera torno a casa e vedo la cifra che ho speso. Oh, inizio a ballare… avrei voluto baciarmi». Su Riviera, invece di omicidio si parlava sempre di assassinio. L’esibizione di ricchezza da parte degli amici e conoscenti di Versace assunse una innocenza del tutto benigna e persino deliziosa, in contrasto con l’orrore dei fatti. Divenne per esempio possibile mostrare le fotografie di Elton John fasciato da Versace ad imitazione di una Maria Antonietta, come segno esemplare dell’invidiabile e tutto sommato meritata frivolezza che circolava nell’aristocrazia del nostro show business. Le caparbie convenzioni della sceneggiatura richiedevano che coloro che dedicavano con appassionata devozione la vita intera alle apparenze mostrassero all’improvviso gli abissi del sentimento. Si dovette inevitabilmente rendere omaggio, certo solo a parole, anche alle quattro vittime precedenti della furia di Andrew ma la sceneggiatura stabiliva in maniera incontestabile che solo le celebrità vivevano una vita vera. Paradossalmente, quella stessa sceneggiatura rese tutti i personaggi, Versace compreso, del tutto irreali, perché era necessario ignorare e cancellare ogni inquietante incoerenza e ogni pezzo mancante.
* * *
Secondo la sceneggiatura, celebrità e essere erano la stessa cosa. Il desiderio di essere famosi non era altro che desiderio di esistere. Era dato per scontato, sulla base di chiacchiere da bar di quinta mano selezionate dai giornalisti, che Andrew aveva sempre voluto diventare famoso. E da ciò era dunque possibile inferire che sparare a Versace era stata per Andrew l’ultima occasione di diventare famoso. Nel frattempo, Erik Greenman rivelava al National Enquirer che il fotografo Herb Ritts era il “numero 3” nella lista nera di Andrew. Improvvisamente divenne una cosa chic essere il bersaglio di Andrew. Harry de Wildt si vantava del fatto che l’FBI lo considerasse un possibile bersaglio. E divenne una cosa chic anche vantare una amicizia profonda con Versace, dalla quale dedurre che solo a causa di uno scherzo del destino la persona in questione non si trovava con Versace proprio nell’attimo del suo “assassinio”. Così come era stato chic rivelare di essere stati invitati sulla Cielo Drive nella sera del massacro di Tate, invito non assolto solo a causa di problemi con l’automobile o impegni precedenti. Gli amici di Versace, non meno di quelli di Andrew, non poterono esimersi dall’infierire sul cadavere, perché la sceneggiatura negava esistenza a chiunque non apparisse per aggiungere al mucchio la propria opinione, per deplorare e affliggersi e rendere pubblico il proprio orrore e il senso di perdita e la rabbia nel modo più evidente e patetico che fosse possibile. E siccome la sceneggiatura si impose con la forza psichica di una valanga, essa offriva il seguito della storia precedente, staccava l’occhio del pubblico dal buco della serratura su cui prima era incollato. La storia di Andrew, nei fatti, diede soluzione al caso dell’omicidio di John Benét Ramsey, poiché questo caso aveva finalmente svelato la soluzione del caso OJ Simpson, il quale a sua volta aveva chiuso il caso Menendez. Il mistero di Andrew fu infine risolto dalla morte di Lady D, la quale morte avrebbe trovato una “conclusione” nelle fattezze di Monica Lewinsky.
[Tratto da Gary Indiana, Three month of fever. The Andrew Cunanan Story, Cliff Street Books, New York 1999; traduzione di Fabio Accursio: Tre mesi di febbre, Textus, l’Aquila 2005]